Teatrosofia esplora il modo in cui i filosofi antichi guardavano al teatro. Il numero 74 indaga la concezione filosofica di Eraclide Pontico legata al teatro, influenzata dal pensiero platonico e pitagorico.
IN TEATROSOFIA, RUBRICA CURATA DA ENRICO PIERGIACOMI – collaboratore di ricerca post-doc e cultore di storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Trento – CI AVVENTURIAMO ALLA SCOPERTA DEI COLLEGAMENTI TRA FILOSOFIA ANTICA E TEATRO. OGNI USCITA PRESENTA UN TEMA SPECIFICO, ATTRAVERSATO DA UN RAGIONAMENTO CHE nel n° 74 si focalizza sulla figura di eraclide pontico in relazione al suo maestro Platone arrivando fino a Pitagora.
Platone parlò in più occasioni del teatro e dell’attore nei suoi dialoghi. Non sembra però che fecero lo stesso gran parte dei suoi immediati seguaci. Stando almeno alle testimonianze e ai frammenti a noi giunti, il teatro e l’attore non furono mai menzionati da Speusippo (che subentrò alla guida dell’Accademia dopo la morte di Platone), Senocrate ed Ermodoro. L’unica eccezione documentata è quella di Eraclide Pontico. Egli fu di orientamento platonico e, tuttavia, venne anche influenzato dalla filosofia di Aristotele, di cui ascoltò per un certo periodo le lezioni.
È certo, infatti, che Eraclide emulò Platone nell’esporre la sua filosofia attraverso dialoghi. La conferma proviene da un passo delle Epistole ad Attico di Cicerone e da un estratto da Diogene Laerzio, il quale fa inoltre una precisazione importante. Alcuni dialoghi di Eraclide si ispiravano al genere della commedia, per esempio l’opera Sul piacere, che presenta un episodio certamente comico nel presentare la figura di Trasillo il pazzo. Altri si modellavano invece sulla tragedia, cioè sul tipo di composizione che – come scrisse lo stesso Eraclide nel Sulla musica – si caratterizza per il dettato austero, duro e non privo di nobiltà. Questa informazione di Diogene costituisce un ulteriore indizio a favore dell’ipotesi che un dialogo platonico ha un impianto esplicitamente teatrale o drammatico, quindi rappresenti personaggi che parlano e agiscono come se fossero su una scena.
Sempre alla produzione tragica di Eraclide possono poi essere ricondotti i pochi frammenti delle tragedie che le varie fonti attribuiscono a Tespi. L’ipotesi che questi scarni rimasugli siano da ricondurre al filosofo platonico deriva da una notizia che risale al peripatetico Aristosseno di Taranto. A suo dire, Eraclide avrebbe scritto delle tragedie e le avrebbe registrate sotto il nome di Tespi. Non è purtroppo dato sapere perché il filosofo decise di fare dell’illustre tragediografo il suo prestanome, soprattutto tenendo conto del ritratto niente affatto lusinghiero che quest’ultimo riceveva in ambiente platonico, di cui ci resta un esempio nella Vita di Solone di Plutarco. In ogni caso, si può notare come almeno uno dei frammenti tragici attribuiti a Tespi potrebbe presentare, in realtà, una sintesi di alcuni pensieri di Platone, che il platonico Eraclide poteva forse condividere. Mi riferisco ai versi “tespiani” riportati nell’opuscolo plutarcheo Come i giovani debbono ascoltare i poeti, che potrebbero sintetizzare alcune idee platoniche sulla divinità: «Zeus tu vedi primeggiare tra gli dèi, / perché fugge menzogna, riso sciocco e vanto, / e ignora lui solo il piacere». Plutarco cita a conferma di questo punto un brano della terza delle Epistole attribuite a Platone. Ma potremmo anche aggiungere la critica agli dèi di Omero (noti per la loro tendenza alla risata sguaiata e alla menzogna) condotta nei libri II e III della Repubblica, nonché la tesi della mente divina come non mescolata a piacere e dolore del Filebo.
Slegata da qualunque apparente influenza di Platone è, invece, l’interpretazione di Eraclide di un luogo controverso dell’Odissea (libro XIII, vv. 116-121). Stando a Porfirio, il filosofo avrebbe cercato di spiegare, con un’analogia tratta dalla recitazione, il comportamento a prima vista bizzarro dei Feaci, che secondo Omero abbandonarono Ulisse addormentato sulle spiagge di Itaca senza svegliarlo. Questi uomini sono amanti del piacere, ma anche timorosi che la loro isola venga scoperta da altri popoli. Di conseguenza, a detta di Eraclide, un Feace recita contemporaneamente due ruoli: quello dell’individuo molto ospitale, dettato forse dall’amore per il piacere (infatti, è piacevole aiutare lo straniero e godere della sua compagnia), e quello della persona che si affretta a tornare in patria quando ne è temporaneamente lontano, dovuto senz’altro alla paura che qualcuno possa vederlo e inseguirlo di nascosto fino a casa. Non ci sarebbe, insomma, niente di strano nella condotta descritta da Omero. Accompagnando Ulisse a Itaca, i Feaci recitano ancora la parte degli uomini ospitali; ma lasciandolo sulla spiaggia addormentato, assumono la maschera di coloro che non perdono nemmeno il tempo per svegliare il loro ospite, pur di tornare quanto prima alla loro isola.
Il parallelo filosoficamente più importante tra Platone ed Eraclide è forse ravvisabile, tuttavia, nella concezione che il secondo aveva della filosofia, che egli retroproietta a Pitagora. Secondo la parafrasi del dialogo Sulla donna senza respiro, che ci è riferita di nuovo da Cicerone e Diogene Laerzio, aveva luogo al suo interno un confronto interessante tra Pitagora e il tiranno Leonte di Fliunte intorno alla definizione del filosofo. Eraclide attribuiva a Pitagora un complesso paragone. Il mondo è come una delle tante grande fiere della Grecia, in cui periodicamente si tengono spettacoli– l’allusione va, probabilmente, a manifestazioni come le Olimpiadi, o ai “festival” teatrali di Siracusa – e dove le persone più disparate si recano per i più vari motivi. Accade, infatti, che a tali feste vengano almeno tre tipi di individui: quelli che cercano la gloria competendo nei giochi, quelli che vogliono mercanteggiare, quelli che vengono come puri spettatori. Ora, l’atteggiamento del filosofo verso il mondo è speculare a quello assunto dal terzo tipo di partecipante della fiera. Egli non vive per ottenere fama, né per arricchirsi, bensì per conoscere la natura e la realtà così come si presentano. E questa attività di cui non si può concepire nulla di più nobile, perfetto, disinteressato si chiama “filosofia”. Secondo quanto Eraclide attribuisce altrove a Pitagora, si può aggiungere che da tale attività contemplativa deriva la felicità. Diventare felici consiste, infatti, nella pratica del conoscere.
Il dialogo di Eraclide offre, pertanto, un’occorrenza del paragone del sapiente con uno spettatore dello “spettacolo del mondo”, che avrà larga fortuna in seguito, in particolare nel pensiero di Seneca. Il fatto che esso sia attribuito a Pitagora non implica, tuttavia, che tale figura fu davvero il primo a introdurre l’immagine. La notizia di Eraclide cui attingono Cicerone/Diogene Laerzio – e, in seguito, il platonico Giamblico – è isolata, se facciamo eccezione per la parodia che la metafora della vita-fiera condotta in un frammento della commedia I Tarantini del comico Alessi. Ma in questo caso, non ci troviamo di fronte a un’attribuzione diretta a Pitagora e, in ogni caso, il bersaglio potrebbe essere sempre il dialogo eraclideo. Il carattere romanzato dell’incontro di Pitagora con Leonte di Fliunte rende la notizia di Eraclide, inoltre, poco attendibile a livello storico.
Di contro, il succo del discorso che Eraclide attribuisce a Pitagora è riconducibile nelle linee fondamentali a quello che Platone diceva nel libro V della Repubblica. Già qui il filosofo viene descritto, del resto, come colui che trova benessere e il suo spettacolo prediletto nella conoscenza della verità. L’attribuzione a Pitagora deve quindi trattarsi di un’invenzione di Eraclide, che come attestano varie fonti (tra cui, di nuovo, Diogene Laerzio) aveva studiato presso i Pitagorici. Il suo costituisce, così, forse, un tentativo di fondere Platonismo e Pitagorismo, facendo di Pitagora il presunto padre nobile di una dottrina di Platone.
Ci sono, certo, due differenze sostanziali tra il resoconto platonico e quello di Eraclide. Da un lato, Platone non fa coincidere totalmente i filosofi e gli amanti degli spettacoli. Questi ultimi sono solo “simili” ai filosofi, perché non cercano di contemplare la verità tutta intera, bensì si fermano alle rappresentazioni teatrali che hanno luogo nel consesso umano. Dall’altro lato, Platone derivava dalla sua metafora della filosofia con la visione di uno spettacolo “prediletto” una conseguenza politica, che invece non è tratta da Eraclide. Apprendendo la verità che tanto amano, i filosofi acquistano la conoscenza del bene che, come si legge chiaramente nei libri VI-VII della Repubblica, consente di governare lo stato e di garantire la felicità a tutta la comunità cittadina.
Tali differenze dimostrano però solo che Eraclide si faceva portavoce di un Platonismo meno politico e più contemplativo. In questo senso, egli sembra ritenere che la visione dello “spettacolo prediletto” della verità sia sufficiente per poter rendere soddisfacente e beata l’esistenza di noi esseri umani effimeri.
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Eraclide, figlio di Eutifrone, nacque ad Eraclea del Ponto e fu ricco. In Atene s’incontrò prima con Speusippo, ma fu anche uditore dei Pitagorici ed ammiratore dell’opera di Platone. E successivamente udì le lezioni di Aristotele, come attesta Sozione nelle Successioni dei filosofi (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, libro V, § 86 = Eraclide Pontico, fr. 1)
Ho esaurito in quattro libri tutta la problematica della speculazione Accademica, non so con quale felice esito, ma con cura premurosa a tal punto che non se ne può trovare una maggiore. In essi ho assegnato a Varrone le argomentazioni che Antioco ha stupendamente raccolto insieme contro la negazione della comprensibilità. Ad esse rispondo io in persona; tu intervieni come terzo interlocutore nel nostro dialogo. Se avessi dato vita al dialogo fra Cotta e Varrone, come tu mi suggerisci nella tua ultima lettera, io mi ridurrei a personaggio muto. Questo modo di essere risulta piacevole nel caso di personaggi che appartengono al passato, come fece Eraclide in numerose opere ed io stesso ho fatto nei sei libri Sulla Repubblica (Cicerone, Epistole ad Attico, libro XIII, cap. 19, §§ 3-4 = Eraclide Pontico, fr. 19A)
Lo stile di alcune sue opere è foggiato su quello della commedia come Del piacere e Della temperanza, lo stile di altre su quello della tragedia come Del mondo dell’Ade, Della pietà, Del potere. Ma Eraclide possiede anche uno stile intermedio, quello della conversazione che egli adotta quando pone a colloquio tra di loro filosofi, strateghi e uomini politici (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, libro V, §§ 88-89 = Eraclide Pontico, fr. 1)
Ma che d’altronde esista nella follia una squisita voluttuosità lo racconta non senza garbo Eraclide Pontico nell’opera Il piacere, così scrivendo: «Un bel giorno Trasillo di Essone, figlio di Pitodoro, fu assalito da un tale attacco di follia, che egli credeva sue tutte le imbarcazioni che facevano scalo al Pireo, e le iscriveva a registro, le mandava in mare, ne curava l’amministrazione, e quando erano sulla rotta di ritorno le accoglieva con la stessa gioia che proverebbe chi fosse padrone di un tale patrimonio. Se qualcuna di esse andava perduta, non si metteva a far ricerche, ma per le navi superstiti era pieno di gioia, e viveva così in grandissimo piacere. Quando suo fratello Critone, di ritorno da un viaggio in Sicilia, riuscì ad acchiapparlo e lo affidò a un medico, egli guarì dalla follia, e raccontava […], confessando di non aver mai goduto in vita sua di un piacere più grande, perché non gliene era venuta la benché minima afflizione, ma piuttosto una moltitudine di piaceri» (Ateneo di Naucrati, I sofisti al banchetto, libro XII, cap. 81 = Eraclide Pontico, fr. 40)
Eraclide Pontico nel terzo libro del suo trattato La musica scrive (…): «(…) Perciò nemmeno lo iastio è un tipo di modo leggiadro o allegro, ma austero e duro e possiede un’enfasi non priva di nobiltà: quindi si tratta anche di un modo adatto alla tragedia» (Ateneo di Naucrati, I sofisti al banchetto, libro XIV, capp. 19-20 = Eraclide Pontico, fr. 114)
Aristosseno il Musico attesta che Eraclide compose delle tragedie e che le pubblicò come opere di Tespi (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, libro V, § 92 = Eraclide Pontico, fr. 1; Tespi, T24 Snell)
E questi versi di Tespi «Zeus tu vedi primeggiare tra gli dèi, / perché fugge menzogna, riso sciocco e vanto, / e ignora lui solo il piacere», in che cosa differiscono dal «siede la divinità lontano dal piacere e dal dolore», come diceva Platone [Epistola III, 315c]? (Plutarco, Come i giovani debbono ascoltare i poeti, 36B-C = Eraclide Pontico fr. 153, Tespi, fr. 3 Snell)
Il dio è dunque del tutto semplice e veritiero sia nelle opere sia nelle parole, e non muta se stesso né inganna gli altri, con immagini fantasmatiche o con discorsi o con l’invio di segni, nella veglia o nel sonno (Platone, Repubblica, libro II, 382e)
Non si deve dunque accettare che si rappresentino uomini degni di nota dominati dal riso, e tanto meno nel caso degli dèi (…) Dunque non accetteremo neppure queste espressioni di Omero riguardo agli dèi: «Inestinguibile riso nacque allora fra i numi beati, / quando videro Efesto per la sala affannarsi [Omero, Iliade, libro I, vv. 599-600]» (Platone, Repubblica, libro II-III, 388e-389a)
Socrate: Tu sai che a chi scegliesse la vita dell’intelligenza nulla impedisce di vivere sempre secondo questo terzo modo.
Protarco: Parli della vita senza piacere e senza dolore?
Socrate: Sì. E infatti fu detto, se non erro, allorquando si fece la comparazione dei tipi di vita, che colui il quale avesse scelto la vita della mente e dell’intelligenza doveva astenersi del tutto da ogni piacere sia piccolo che grande.
Protarco: Sicuro, si disse proprio così.
Socrate: E allora così sarà per tale uomo almeno e non direi che sia per nulla cosa assurda che questa sia fra tutte le forme di vita quella più vicina agli dèi.
Protarco: Non è in ogni caso verosimile che gli dèi gioiscano o soffrano.
Socrate: Assolutamente non è verosimile. Il verificarsi in essi dell’una e dell’altra di queste cose infatti è almeno indecoroso (Platone, Filebo, 33a-b)
Nel tentare di risolvere l’assurdità del comportamento dei Feaci, che come si dice lasciarono Ulisse sulla sua terra senza svegliarlo, e quella dell’inappropriato sonno di Ulisse stesso, Eraclide Pontico afferma che quello che è assurdo è invece la condotta di quegli interpreti che non traggono le conseguenze da quello che il poeta [i.e., Omero] ha già detto intorno alla vita dei Feaci. Infatti, essi sono consapevoli del loro amore per il piacere e del loro modo di godersi la vita, e sono spaventati che qualcun altro arrivi alla loro terra e li scacci via. Perciò recitano il duplice ruolo della eccellente ospitalità per quelli che sono già lì [in patria] e quello della fuga repentina nei riguardi di coloro che giungono [nei pressi]. E fanno tutto quanto è in loro potere per far sì che la loro dimora si mantenga nascosta e che non si sappia quanto essa sia lontana (Porfirio, Questioni intorno all’«Odissea» di Omero, 13.119 = Eraclide Pontico, fr. 104; trad. mia)
Ma stando a quanto dice Eraclide Pontico nell’opera Sulla donna che non respira, il primo a usare il termine filosofia e a chiamarsi filosofo fu Pitagora, in una conversazione che ebbe a Sicione con Leonte, il tiranno di quella città, ovvero di Fliunte. Pitagora sosteneva infatti che nessuno è sapiente, se non la divinità (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, libro I, § 12 = Eraclide Pontico, fr. 34; Pitagora, T42 Giangiulio; trad. Giangiulio, modificata)
[Pitagora] era solito dire che la vita è simile ad una panegiria: come infatti alcuni partecipano a questa per lottare, altri per commerciare, altri ancora – e sono i migliori – per assistervi, così nella vita, diceva, alcuni nascono schiavi della gloria e cacciatori di guadagno, altri filosofi avidi della verità (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, libro VIII, § 8)
Tutti coloro che in seguito seguirono il loro esempio e dedicarono la loro attività alla contemplazione della natura erano ritenuti e chiamati sapienti, e tale nome si estese fino al tempo di Pitagora. Di lui narra Eraclide Pontico, un alunno di Platone, uomo insigne per dottrina, il seguente episodio. Pitagora si era recato a Fliunte e con Leonte, tiranno di quella città, aveva tenuto delle dissertazioni dimostrando dottrina e facondia. Leonte, ammirato del suo ingegno e della sua eloquenza, gli chiese in che arte fosse specializzato; e quello: «Io non conosco nessuna arte, ma sono filosofo». Leonte fu meravigliato dalla novità del nome e gli chiese chi mai fossero i filosofi e che differenza ci fosse fra loro e le altre persone. Allora Pitagora rispose: «A mio parere la vita umana è simile a una di quelle fiere che si tengono con grande apparato di giochi e sono frequentate da tutta la Grecia. Ivi infatti alcuni cercano la gloria e la fama di un premio nelle gare sportive, altri sono attirati dal guadagno trafficando a comprare o a vendere, e c’è poi una categoria di persone – ed è la più nobile – che non cercano né l’applauso né il guadagno, ma ci vanno come spettatori e osservano attentamente quel che avviene e come avviene. Lo stesso è la vita umana: noi siam partiti per questa vita da un’altra vita e da un’altra natura, come da una città verso un mercato affollato, e vi sono alcuni che sono schiavi della gloria, altri del danaro, e certe rare persone che trascurano completamente tutto il resto e studiano attentamente la natura. Questi si chiamano amanti della sapienza, cioè filosofi, e come nella fiera l’atteggiamento più nobile è fare da spettatore senza cercar vantaggio alcuno, così nella vita lo studio e la conoscenza della natura è di gran lunga superiore a tutte le attività» (Cicerone, Disputazioni tuscolane, libro V, cap. 3, §§ 8-9 = Eraclide Pontico, fr. 85; Pitagora, T43 Giangiulio; trad. modificata)
Eraclide Pontico riferisce che secondo l’insegnamento di Pitagora la scienza della perfezione dei numeri dell’anima coincide con la felicità (Clemente di Alessandria, Stromati, libro II, cap. 130, § 3 = Eraclide Pontico, fr. 25; Pitagora, T41 Giangiulio)
Si racconta che Pitagora sia stato il primo a dare a se stesso il nome di «filosofo». Ma non soltanto adottò un nuovo nome; in più fornì preventivamente utili spiegazioni circa il contenuto della nozione, che era a lui peculiare. A suo dire gli uomini arrivano alla vita allo stesso modo in cui la folla va alle solenni riunioni festive. Infatti lì si recano persone di ogni genere, ognuna con un diverso scopo: uno per vendere la propria merce e guadagnar denaro, un altro a far mostra del suo vigore fisico, in cerca di gloria; c’è poi un terzo genere di persone, che è il più nobile di tutti, che si raduna in quelle occasioni per vedere i luoghi, le belle opere, i detti e gli atti eccellenti che nelle riunioni festive è consuetudine vengano mostrati. Ebbene, allo stesso modo anche nella vita le persone dalle più diverse aspirazioni si radunano nello stesso luogo: alcuni sono presi dalla brama di denaro e di lussuosa mollezza, altri sono dominati dal desiderio di potere e di comando, nonché da folli ambizioni di gloria. Mentre il tipo d’uomo più puro è quello che ha scelto la contemplazione delle cose più nobili: è quest’uomo che Pitagora chiamava filosofo (Giamblico, Vita di Pitagora, cap. XII, § 58; trad. Giangiulio)
Pertanto, se ci riuniamo per queste nostre conversazioni sacre a Dioniso, nessuna persona sensata avrebbe motivo plausibile di avversione verso di noi, per usare le parole di Alessi nei Tarantini: «Che a nessuno dei vicini / facciamo nulla di male. Non sai / che questa cosa che per scherzo chiamiamo vita / è solo un nome, un eufemismo del mortale / destino? Certo, se giusto o errato altri / riterrà il mio giudizio, non ti saprei dire; / ma questo ho appreso con lunga osservazione: / un delirio è l’agire dell’uomo, tutto, da cima a fondo; / di una licenza godiamo noi che a turno / siamo vivi, come se per una festa / data ci fosse libera uscita da morte e tenebra, / per venire a passare un po’ di tempo in questa luce / che vediamo. E chi più ride e beve / e ad Afrodite su stringe per questo tempo / che ha di libertà, e riesce, se capita, a scroccare favori, / con più letizia godutosi la festa, se ne ritorna a casa» (Ateneo di Naucrati, I sofisti al banchetto, libro XI, cap. 9 = Alessi comico, fr. 222 Kasserl-Austin)
«Non diremo dunque anche del filosofo che egli desidera tutto il sapere, e non una parte di esso e un’altra no? (…) Chi al contrario è favorevolmente disposto a gustare ogni conoscenza, e con gioia si appresta ad apprendere, e ne rimane insaziabile, costui con giustizia chiameremo filosofo». E Glaucone disse: «Ne troverai certo molti, e strani, di uomini del genere. Tutti gli appassionati di spettacoli, per esempio, mi sembrano essere tali perché si rallegrano d’imparare, e poi gli appassionati di audizioni, gente certo ben strana da collocare tra i filosofi, che non vorrebbero proprio andare spontaneamente ad ascoltare discorsi razionali e una discussione di questo tipo, ma che, quasi avessero affittato le orecchie, corrono dietro alle feste dionisie per ascoltare tutti i cori, senza trascurare né quelle di città né quelle di campagna. Dunque tutti questi e quanti altri si applicano ad apprendere questo genere di cose e altre tecnicucce, li chiameremo filosofi?». «Per nulla» dissi «bensì simili ai filosofi». «Ma quelli veri» disse «come li intendi?». «Quelli» io dissi «il cui spettacolo prediletto è la verità» (Platone, Repubblica, libro V, 475b-e)
[Le fonti su Eraclide Pontico si trovano nel volume di Eckart Schütrumpf (ed.), Heraclides of Pontus, New Brunschwig-London, Transaction Books, 2008. I riferimenti a Tespi si trovano in Bruno Snell (ed.), Tragicorum Graecorum Fragmenta, Hildesheim et alii, Olms, 1973; quelli al comico Alessi in Rudolf Kassel, Colin Austin (eds.), Poetae comici Graeci. Vol. II, Berlin-New York, De Gruyter, 1991; quelli a Pitagora in Maurizio Giangiulio (a cura di), Pitagora: le opere e le testimonianze, 2 voll., Milano, Mondadori, 2000. Laddove non diversamente indicato, le traduzioni italiane delle fonti antiche sono le seguenti:
- Carlo Di Spigno (a cura di), Cicerone: Epistole ad Attico. Libri IX-XVI, Torino, UTET, 1998;
- Luciano Canfora (a cura di), I deipnosofisti: i dotti al banchetto, introduzione di Christian Jacob, Roma, Salerno, 2001;
- Marcello Gigante (a cura di), Diogene Laerzio. Vite dei filosofi. Volume 1, Roma-Bari, Laterza, 1998;
- Nino Marinone (a cura di), Opere politiche e filosofiche. Volume II: I termini estremi dei beni e dei mali, Discussioni tuscolane, La natura degli dèi, Torino, UTET, 1955;
- Mario Vegetti (a cura di), Platone: La Repubblica, 7 voll., Napoli, Bibliopolis, 1998-2007;
- Attilio Zadro, Piero Pucci (a cura di), Opere complete. Volume terzo: Parmenide, Filebo, Simposio, Fedro, Roma-Bari, Laterza, 1993].
Enrico Piergiacomi