La versione teatrale del romanzo di Umberto Eco, firmata da Stefano Massini per la regia di Leo Muscato, arriva al Teatro Argentina di Roma. Recensione.
Un romanzo storico, un saggio di linguistica e semiotica, una critica alla religione, un inno alla ragione, ma anche una raffinatissima detective story, un romanzo di formazione, un libro pieno di ironia, di mistero e di erotismo. Il nome della rosa è a tutti gli effetti una “opera aperta”, quel testo in grado di offrirsi a molteplici letture e interpretazioni che lo stesso autore, Umberto Eco, teorizzava in un saggio omonimo del 1962, 18 anni prima della pubblicazione di quello che sarebbe stato uno dei più grossi casi letterari italiani. Vincitore del Premio Strega nel 1981, tradotto in oltre quaranta lingue per un totale di più di cinquanta milioni di copie in trent’anni, dopo una celebre trasposizione cinematografica firmata da Jean-Jacques Annaud nel 1986, quel capolavoro che lo stesso Eco riteneva minore è stato riscritto per il palcoscenico da Stefano Massini e prodotto da tre teatri nazionali (Torino, Genova e Veneto) per la regia di Leo Muscato.
L’espediente letterario è quello – usato molto dal romanzo gotico – del manoscritto ritrovato, in cui l’anziano monaco benedettino Adso da Melk (Luigi Diberti) narra i fatti oscuri avvenuti in un’abbazia del nord Italia quando era ancora un novizio nel 1327. Lì il giovane Adso (Giovanni Anzaldo) accompagna il saggio francescano inglese Guglielmo da Baskerville (Luca Lazzareschi), inviato dall’imperatore Lodovico a sostenere le tesi pauperistiche nel congresso sul tema della povertà nella Chiesa Cattolica. L’abate Abbone informa gli avventori della serie di morti misteriose che sta colpendo il convento e invita Guglielmo a indagare. Questi si rivela essere una sorta di Sherlock Holmes in saio (non è forse casuale il riferimento insito nel nome del personaggio); il suo affilato ragionamento induttivo porterà alla soluzione dell’enigma, svelando ciò che davvero si cela dietro al presunto avvento dell’Anticristo. Con grande grazia formale Umberto Eco aveva architettato l’intera vicenda, intrecciando temi, personaggi e morali della favola controverse in un perfetto artefatto culturale, nel quale ogni lettore è in grado di trovare qualcosa di avvincente, rivelatore, commovente, eccitante o istruttivo.
Il testo di Massini fa un ampio e rispettoso uso del romanzo originale, riuscendo a condensare in due ore e mezza l’intricata matassa narrativa. La scelta fondamentale di Muscato sembra risiedere nella creazione di un ambiente visivo che da un lato renda giustizia alla complessa architettura dell’abbazia, quasi un sovra-personaggio regolato da un severo ordine formale, dall’altro restituisca le atmosfere di cui questa, nel romanzo, si faceva contenitore. Le geniali soluzioni scenografiche di Margherita Palli, come spesso nel lavoro di quest’artista, puntano a suddividere la visuale in blocchi di particolari, ricreando sul palco una sorta di labirinto di scale à la Escher e idealmente ricavando, quasi per ciascuna scena, una nicchia in cui incorniciare la regia dei movimenti. Su questo spazio ritmico si spandono le sovrabbondanti proiezioni e il colorato videomapping curati da Fabio Massimo Iaquone e Luca Attilii, che accendono fiamme, intarsiano rosoni e scrivono pergamene sulla superficie di corpi e mobilio, facendo apparire prospettive di navata o raggomitolando la luce in piccole candele, portando lo spettatore da una gelida facciata a un’umida segreta. Il risultato è un palco che sembra crepitare incessantemente, sul quale però si muovono – poco – figure appesantite dagli abiti e schiacciate su un – pur spesso affascinante – fondale bidimensionale.
Nonostante Massini abbia, e questo è più che rispettabile, evitato di inseguire tutti i numerosi riferimenti intertestuali del romanzo, la verbosità del testo finisce per essere una trappola in cui l’attenzione dello spettatore si perde spesso. A manovrarla al meglio è di certo Luca Lazzareschi, il quale usa con sapienza toni dimessi e ragionamenti strascicati, che quasi sembra di star ascoltando pensieri invece di parole. Se al giovane Adso resta un numero di battute insufficiente per affermare la natura di romanzo di formazione che aveva l’opera di Eco, il tono timoroso e reverenziale del racconto del vecchio Adso di Diberti è un espediente ingegnoso per mantenere un’organicità nella transizione dalla pagina alla scena.
Tuttavia il più delle volte (in particolare nelle scene del processo ai presunti adoratori di Satana) la regia di Muscato finisce per incatenare i personaggi dentro una declamazione stentorea che rallenta il ritmo o ne nasconde i guizzi linguistici messi a punto dall’adattamento di Massini. Il Salvatore ritratto da Alfonso Postiglione, irritante nel suo grammelot, è quasi l’unica figura semi-seria – oltre alla sequenza del convegno, però sbrigativa e sopra le righe. Invece il romanzo spinge anche molto su toni tutt’altro che seriosi, scelta chiave per mettere in luce i lati problematici del dogma religioso sotto l’Inquisizione e per riabilitare, alla luce della ragione, quei proverbiali “secoli bui”.
Il manoscritto “maledetto”, custodito nella sezione finis Africae della labirintica biblioteca del convento, è forse il secondo libro della Poetica di Aristotele, che lodava il riso e la commedia. Tuttavia, un mirabile sforzo nella creazione di un immaginario visivo, la sperimentale architettura scenica e la capacità di far emergere i profondi toni noir (ancor più che gotici) del libro di Eco, sembrano qui averla data vinta a un atteggiamento ancora troppo solenne, didascalico e serioso, non abbastanza innamorato dell’ironia. La stessa con cui Eco si faceva beffe dell’apprezzamento dei lettori, quando lui diceva di «odiare» Il nome della rosa.
Sergio Lo Gatto
Teatro Argentina, Roma – gennaio 2018
IL NOME DELLA ROSA
di Umberto Eco
versione teatrale Stefano Massini (© 2015)
regia e adattamento Leo Muscato
con (in o. a.)
Eugenio Allegri, Giovanni Anzaldo, Giulio Baraldi, Renato Carpentieri
Luigi Diberti, Marco Gobetti, Luca Lazzareschi, Daniele Marmi
Mauro Parrinello, Alfonso Postiglione, Arianna Primavera, Franco Ravera, Marco Zannoni
scene Margherita Palli
costumi Silvia Aymonino
luci Alessandro Verazzi
musiche Daniele D’Angelo
video Fabio Massimo Iaquone, Luca Attilii
produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Teatro Stabile di Genova – Teatro Nazionale, Teatro Stabile del Veneto – Teatro Nazionale