Dalla recensione di Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello, con la regia di Luca De Fusco, emerge una riflessione sul rapporto tra regia e tradizione drammaturgica.
Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello è un testo cardine attorno al quale si è mosso il teatro del secolo scorso; come per un evento spartiacque, esiste un prima e un dopo quella serata al Teatro Valle del 1921, quella in cui il drammaturgo siciliano dovette fuggire di nascosto per non confrontarsi col pubblico arrabbiato. Questa pièce è stata in qualche modo il nostro Ubu Roi. Poi quel genio venne capito e amato, anche oltreoceano e oltralpe dove, per esempio, è rimasto celebre l’ascensore con cui Georges Pitóeff fece apparire la tragica famiglia sul palco della Comédie des Champs-Elysées di Parigi nel 1923.
Sei personaggi è un classico, una partitura musicale che racconta di un mondo che non esiste più, di un teatro che si trovava in stallo e tardava a inoltrarsi tra le nuove fiammate della regia europea. Lo sapeva bene Pirandello, tanto che ingabbiava i suoi “drammi” tra le strette maglie di didascalie precise, ultra descrittive e accurate. La prima attrice che entra con la cagnolina, il suggeritore un po’ imbranato, il conflitto con la critica sui giornali, le stilettate lanciate al sistema ormai impolverato e di maniera che allestiva il palco utilizzando ogni volta le medesime scene (la famosa scena rossa, i paraventi che non mancano mai); è metateatro certo, ma qual è il senso di un’arte che parla di se stessa quando è disancorata dal presente, quando racconta di un’arte profondamente mutata?
Luca De Fusco, al Teatro Argentina di Roma proprio con Sei personaggi in cerca d’autore, non ha proprio nessuna volontà di porsi tali quesiti, sceglie la via più funzionale e facile: un’ambientazione Primo Novecento che gli permetta di concentrarsi sul lavoro attorale.
Il primo testo della trilogia del teatro nel teatro porta con sé delle difficoltà produttive evidenti per qualsiasi regista e compagnia: il numero ampio di ruoli, molti di contorno e con poche battute ma importanti per disegnare quel panorama di cui parlavamo, la presenza dei due bambini. Problemi che di certo non sono insormontabili quando lo spettacolo è prodotto da un teatro nazionale. Eppure De Fusco ha bisogno di sbalordire, ha di fronte un testo per il quale anche il semplice allestimento della parola in uno spazio vuoto sarebbe un servizio alla tradizione, invece il regista e direttore dell’unico Teatro Nazionale del sud cerca l’effetto, ancora una volta, utilizzando delle video proiezioni spesso didascaliche. Il tema è quello del cinema muto, ecco allora che sullo sfondo, di tanto in tanto, l’azione viene sottolineata da contrappunti cinematografici che nulla aggiungono al senso generale.
Bastavano attori in grado di far risuonare la geniale partitura, dicevamo, ma anche qui il risultato è un bicchiere mezzo pieno: Gaia Aprea nel ruolo della figlia si porta lo spettacolo sulle spalle, ha grinta, passione e naturalmente tecnica da vendere che le permette di sfumare il carattere in numerose tonalità; Paolo Serra nel ruolo del capocomico è pulito, puntuale ma senza sorprese; l’altro ruolo centrale, il padre, è riservato a Eros Pagni il quale, pur nel gioco misurato e privo di manierismo, è monotono, fisicamente impassibile, con lo sguardo quasi sempre in basso; decisamente debole Maria Basile Scarpetta con il personaggio della madre, il grido le si spegne in gola mozzando l’emozione del pubblico; incisivo Gianluca Musiu nei panni del figlio, ma senza Aprea il diagramma sarebbe piatto.
Poi c’è un’altra questione, relativa alla maestria registica, all’inventiva che ci si aspetterebbe da un regista esperto di fronte a un capolavoro della drammaturgia. De Fusco appare talmente privo di fantasia che l’unico modo con il quale riesce a risolvere la questione dell’apparizione dei personaggi/fantasmi è quello di costruire una sorta di finto ventre del teatro, con tanto di pittura fintamente vecchia (quando c’è già un’architettura naturalmente usurata a fare da sfondo), dal quale far fuoriuscire, per mezzo di pannelli scorrevoli, gli attori.
Qualche anno fa, una piccola compagnia, Vico Quarto Mazzini (per la regia di Gabriele Paolocà), aveva portato al Teatro Orologio di Roma un debutto inaspettato e sorprendente, un Sei personaggi riscritto appositamente per quel piccolo ensemble di teatro d’arte, fu qualcosa di emozionante e urgente. Quel gruppo non aveva probabilmente un decimo delle risorse di De Fusco, ma – al netto delle differenze produttive, di luogo e di pubblico – aveva capito come parlare al presente per mezzo di Pirandello.
De Fusco appartiene a quella schiera di registi da Stabile che altro non sono che illustratori del testo con l’ambizione di impreziosire l’allestimento attraverso facili trovate sceniche che vorrebbero stupire ma che non illuminano di luce nuova o sorprendente. E la questione andrebbe prima o poi affrontata seriamente perché ad eccezione di alcuni, come Antonio Latella (si vedano i suoi recenti Natale in casa Cupiello e l’Arlecchino) o di qualche exploit di Federico Tiezzi (il Calderon di Pasolini), la maggior parte dei registi, che può contare su importanti risorse produttive, ha evidenti difficoltà di fronte ai classici della drammaturgia italiana. Ha paura di perdere l’applauso e lo sbigliettamento dei vecchi abbonati oppure sono proprio le idee a mancare? In entrambi i casi questo discorso riguarda molta della drammaturgia di autori del passato, ma la situazione relativa ai classici italiani è ancora più evidente.
Il teatro italiano non ha relazione alcuna con la sua tradizione drammaturgica, questo ormai è un dato di fatto: qualcuno ha per caso memoria di allestimenti recenti di autori coevi a Pirandello? Che fine hanno fatto i Fabbri, Bontempelli, D’Annunzio, Betti, Rosso di San Secondo, Roberto Bracco, Sem Benelli, Luigi Chiarelli (solo per citarne alcuni tra i più conosciuti della prima metà del secolo scorso)? E quei pochi messi in scena, come il creatore dei Personaggi, appunto, vengono visti come dei monumenti intoccabili.
Allora che lo si dica chiaramente: la nostra drammaturgia del Novecento non ha a che fare con il nostro presente. Oppure, più logicamente, si dica che abbiamo bisogno di registi visionari e coraggiosi, di artisti della scena che sappiano cercare e illuminare testi apparentemente lontani a costo di tradirli, a costo di ferirli, ché forse dalla ferita nascerà qualcosa di necessario.
Andrea Pocosgnich
Roma, Teatro Argentina, Febbraio 2018
SEI PERSONAGGI IN CERCA D’AUTORE
di Luigi Pirandello
regia Luca De Fusco
con Eros Pagni, Maria Basile Scarpetta, Gaia Aprea, Gianluca Musiu, Silvia Biancalana, Maria Chiara Cossia, Angela Pagano, Paolo Serra, Giacinto Palmarini, Federica Sandrini, Sara Guardascione, Alessandra Pacifico Griffini, Paolo Cresta, Enzo Turrin, Ivano Schiavi
e con gli allievi della Scuola del Teatro Stabile di Napoli Alessandro Balletta, Dario Rea
scene e costumi Marta Crisolini Malatesta
luci Gigi Saccomandi
musiche Ran Bagno
installazioni video Alessandro Papa
movimenti coreografici Alessandra Panzavolta
regista assistente Alessandra Felli
assistente alle scene Francesca Tunno
assistente ai costumi Monia Carraretto
direttore di scena allestimento Teresa Cibelli
direttore di scena Alessandro Amatucci
capo elettricista Christian Paul Ascione
elettricista Diego Contegno
capo macchinista Nunzio Opera
macchinista Giuliano Barra
fonico Italo Buonsenso
sarta Daniela Guida
amministratore di compagnia Simona Di Nardo
foto di scena Fabio Donato
produzione Teatro Stabile di Napoli – Teatro Nazionale
Teatro Stabile di Genova
Non siamo di fronte ad un capolavoro, d’accordo; molti vezzi registici sono discutibilissimi e inutili (il tormento del ricciolo del Figlio era irritante); alcuni attori erano “scolastici” o piatti nella resa dei loro personaggi (tre di loro, però, provenivano dalle scuole di recitazione, è opportuno essere indulgenti); non credo però che, al di là dell’ampia compagnia, si possa parlare di grandi mezzi produttivi (lo spettacolo, come ognuno sa, non ha scenografia) ma solo di una fedele “restituzione” del testo che, senza arzigogoli intellettualistici, si propone all’ascolto del pubblico. Ascolto, sì, proprio di questo si tratta: ascolto puro e semplice, reverenziale, devoto e silenzioso, che consente di addentrarsi in uno dei testi più geniali del Novecento senza sovrastrutture, chiavi di lettura, sovrapposizioni, adattamenti o altri sforzi che avremmo, probabilmente, restituito al mittente accusandoli di barbarie, scempio o deviazione personalistica. A molti Pagni non piace, per quel tono aspro, la maschera dolorosa, la smorfia perenne, quasi un ghigno, disegnato sul viso: qui però credo che aderisca bene al severo raziocinare del Padre; Gaia Aprea, poi, come ha sottolineato, si carica lo spettacolo sulle spalle senza riserve, aderendovi totalmente. Si poteva osare, forse: ma non ricordo che De Fusco abbia nel proprio DNA un approccio innovativo alla scena. Come ricordava lei, altri registi hanno la capacità (e le forze, anche economiche, quando escono dalle cantine…) per provarci: con alterni risultati, me lo conceda….
P.s. Ma la Madre, da locandina e programma di sala, non doveva essere Maria Basile Scarpetta?
La madre è interpretata da Maria Basile Scarpetta e devo dire abbastanza efficacemente secondo me, solo nelle prime rappresentazioni la Basile interpretava la prima attrice e Federica Granata era la madre
Per questo puntualizzavo. Nel cast pubblicato sul sito c’era ancora la Granata.
Luca De Fusco non è un regista (sono anni che lo dimostra) ma un bravo faccendiere del teatro, sa come usare politica e sa quali mani stringere…è un talento anche questo..