Dopo l’edizione del 1977 e quella del 1989, Gabriele Lavia affronta per la terza volta Il padre di August Strindberg. Recensione
In un recente articolo apparso su queste pagine, Andrea Pocosgnich si interrogava sul mai pacificato rapporto tra la tradizione drammaturgica nazionale e i grandi registi “da Stabile”, mettendo in luce come troppi di questi siano incapaci di avvicinarsi secondo modalità nuove ai capisaldi della nostra letteratura teatrale. È un male diffuso, identificabile dal pubblico con relativa facilità, e che sembra potersi annidare anche all’interno degli spettacoli tratti dai classici della drammaturgia straniera, se affidati allo sguardo di questi maestri. Ed è la stessa patologia che si può diagnosticare ne Il padre di August Strindberg diretto, per la terza volta nella sua carriera, da Gabriele Lavia e prodotto dalla Fondazione Teatro della Toscana: un approccio statico che, lungi dal declinare un testo ostico secondo modalità in grado di squadernare sensi inaspettati, sembra evidenziarne le criticità e affidare soltanto a imponenti soluzioni scenografiche il compito di risvegliare l’attenzione o la partecipazione critica.
Scritto nel 1887 e andato in scena per la prima volta nello stesso anno a Copenhagen, Il padre cela, sotto le sembianze di un dramma familiare, un’acuta indagine psicologica. Ciò a cui assistiamo è l’esame autoptico di un uomo, del suo matrimonio, del suo equilibrio mentale: divorato dal sospetto (insinuatogli dalla moglie Laura) di non essere il padre biologico di Berta – la figlia che vorrebbe allontanare da casa per permetterle di studiare in città – il Capitano scenderà progressivamente in un abisso di follia, che lo condurrà prima all’interdizione e infine a quella morte che, sola, sancisce l’inappellabile successo della donna in una guerra per il predominio familiare.
A poco più di un anno di distanza da L’uomo dal fiore in bocca …e non solo Lavia si cimenta ancora una volta con un testo che, giudicato secondo uno sguardo contemporaneo, si potrebbe definire intriso di una frusta misoginia: le figure femminili oscillano così soltanto tra i poli opposti di una doppiezza luciferina o di una materna ingenuità, e gli uomini, d’altra parte, invitano le donne a non disprezzare «pentole e padelle». Ma al di sotto di questa patina ottocentesca, comprensibile nel contesto storico e sociale di stesura, la scrittura del drammaturgo di Stoccolma tratteggia invece un nucleo tematico ancora attuale: perché a contrapporre il Capitano e Laura, oltre a un sempiterno conflitto tra i sessi, è il più denso scontro tra scienza e superstizione, tra quel libero pensiero razionalista, forse addirittura ateo, al quale l’uomo vorrebbe educare la piccola Berta, e lo spiritismo bigotto che anima Laura e sua madre. Nella regia di Lavia, tuttavia, questo fulcro concettuale appare solo accennato, reso plastico dalla presenza di un mappamondo e di un cannocchiale sul proscenio: amate reliquie dell’esistenza del Capitano, dedicata al sapere e costretta a soccombere nella guerra contro il freddo e calcolatore impeto della moglie. Ciò che questa versione sembra invece mettere in luce, fino al parossismo, è una più superficiale anatomia del crollo delle certezze virili: impossibilitato a riconoscersi nel ruolo del titolo, il Capitano si macera in un’angoscia così definitiva da assumere contorni psicoanalitici.
L’impressionante scenografia di Alessandro Camera trasforma non a caso il Teatro della Pergola in uno spazio mentale: il velluto rosso inonda il palcoscenico, il tessuto sembra piovere dal graticcio, dilagare verso il proscenio fin quasi a lambire le prime file della platea. È un oceano decadente e lussurioso, nel quale un salotto borghese affonda con il suo mobilio e le sue deboli certezze: una pendola, un divano, una scrivania si reggono in un equilibrio precario, mentre il vento persistente che invade la fonosfera conferisce al dramma tinte gotiche. A dibattersi in questo mare cremisi, sono individui edipici, perennemente immaturi: la Balia interpretata da Giusi Merli si rivolge al Capitano con tonalità cantilenanti, così come fin troppo infantili sono gli atteggiamenti che Anna Chiara Colombo conferisce a Berta. Ma è soprattutto nelle relazioni che legano il Capitano all’universo muliebre che l’impronta freudiana dell’adattamento firmato da Lavia emerge con maggiore nitore: il legame con la Balia ‑ «tatina mia… tu sei stata una madre per me!» ‑ si attesta su dinamiche puerili, fino a deflagrare in una regressione quando, sul finale, l’anziana donna veste il Capitano con la camicia di forza, durante un abbraccio consolatorio. Il dramma si dipana come in un caso clinico, in un progressivo svelamento di quel «delitto d’inferno» sepolto sotto il velluto, di cui l’uomo «comincia a sentire il fetore»: è un’antica conversazione tra Laura e l’avvocato, origliata durante i deliri della febbre, a instillare nel Capitano la convinzione di aver subito un raggiro circa la paternità di Berta, e a valere come un trauma primario, rimosso benché incandescente. Laura appare quasi come una presenza onirica, il simulacro carnale di un’odiosa concezione della donna: Federica Di Martino ha toni enfatici, posture di maniera, una gestualità esasperata che la rendono una figura irreale, fantasmatica. Lo stesso Lavia sembra esagerare nell’interpretazione del Capitano, dilatando i tempi delle battute e concedendo fin troppa retorica ad alcuni passaggi del testo, come nella celebre citazione del monologo di Shylock, con il suo azzardato accostamento – opera dello stesso Strindberg – tra antisemitismo e condizione maschile. È un’ossessione che si vorrebbe forse filosofica, espressione di un topos antico come il mito di Eracle e Onfale, e che in questo assoluto terrore nei confronti della donna sembrerebbe nascondere una riflessione sul destino dell’uomo, spodestato dal proprio statuto ontologico prima ancora che da quello virile: eppure il Capitano appare oggi soltanto un insicuro, fragile maschio.
Alessandro Iachino
Teatro della Pergola, Firenze – gennaio 2018
Fondazione Teatro della Toscana
Gabriele Lavia
IL PADRE
di August Strindberg
con Federica Di Martino
e con Giusi Merli, Gianni De Lellis, Michele Demaria, Anna Chiara Colombo, Ghennadi Gidari, Luca Pedron
scene Alessandro Camera
costumi Andrea Viotti
musiche Giordano Corapi
luci Michelangelo Vitullo
regista assistente Simone Faloppa
regia Gabriele Lavia