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Claudio Longhi: se la classe operaia non va in paradiso, l’operaio sì

Claudio Longhi dirige l’adattamento teatrale scritto da Paolo Di Paolo de La classe operaia va in paradiso, film del 1971 per la regia di Elio Petri e scritto da Ugo Pirro. Recensione e dialogo.

Foto di Giuseppe Distefano

Totalmente anacronistica risulterebbe la scelta di risvegliare una coscienza di classe in un periodo storico che sembra piuttosto essere prerogativa della casta; un’operazione che finirebbe per scontrarsi con un muro di anni, implicitamente responsabili di un graduale allontanamento da spinte sociali e politiche ormai consegnate al passato. La società contemporanea è oggi attraversata dall’esacerbarsi di pulsioni estremiste frutto di nuovi ideologismi che tentano, con violenza nazionalista, di consolidarsi nella ricostituzione di un’unità perduta; sono deplorevoli rivendicazioni, pericolose in quanto nate dal bisogno di difendersi da una realtà che sfugge di mano e ha perso un suo centro, politico ancor prima che ideologico.

La classe operaia va in paradiso torna nel 2018 non al cinema, come fu invece e per la prima volta nel 1971 per la regia di Elio Petri e la penna di Ugo Pirro, ma sul palcoscenico nell’adattamento teatrale «liberamente tratto dal film» diretto da Claudio Longhi con la cura drammaturgica di Paolo Di Paolo e l’interpretazione di Lino Guanciale. Questa produzione ERT che inaugura il nuovo triennio, nasce da una proposta che Guanciale ha rivolto al direttore artistico Longhi: «Vedevo in quelle immagini una profezia, una rappresentazione eloquente del destino attuale del nostro paese, la capacità di tradurre sinteticamente in una sequenza di fotogrammi potentissima un’idea scomoda da accettare soprattutto a sinistra».

Foto di Giuseppe Distefano

La classe operaia va in paradiso possiede una tale stratificazione di livelli di senso da scatenare nello spettatore una reazione complessa a un messaggio altrettanto complesso, motore di riflessioni individuali sul ruolo che ciascuno di noi ricopre nella società innanzitutto come uomo (animale) politico, a prescindere dall’essere operaio, studente, sindacalista o capitalista. Oggi come negli anni Settanta, a segnare lo spartiacque tra la rappresentazione e la realtà è ancora la fatica, la quale – evitando volutamente di fare riferimento all’approccio marxista relativo all’alienazione – è l’unico crudo differenziale. Se nel film il montaggio alternato risulta essere lo specifico cinematografico funzionale alla resa, nell’adattamento teatrale si sceglie l’epicizzazione del fatto storico e politico, raccontato attraverso lo straniamento brechtiano, in un continuo entrare e uscire dalla narrazione, alternando un punto di vista interno e esterno in equilibrio tra soggetto che guarda e oggetto (fatto storico) guardato. Quel guardarsi da fuori appunto che diventa, se trasposto nel presente, un guardarsi da lontano. Lo spettacolo non dimentica la natura cinematografica (anzi forse le rimarrà fin troppo attaccato, togliendo rilevanza e autonomia al dispositivo teatrale) e la porta sulla scena dell’Arena del Sole di Bologna proiettando sul velatino non solo i titoli di coda ma anche alcune scene ed estratti del film e di sigle televisive come quelle di Carosello e Lascia o Raddoppia. Una giustapposizione filmica e teatrale nel rispetto di un teatro didattico che si serve inoltre di canzoni firmate da Fausto Amodei, lavorate dal drammaturgo Paolo Di Paolo attraverso un «travestimento» parziale, al fine di rispettare da un lato una continuità filologica, dall’altro una contestualizzazione odierna, arrangiate e suonate dal vivo da Filippo Zattini.

Foto di Giuseppe Distefano

Una grande macchina scenica è l’allestimento scelto: si passa dall’interno della fabbrica B.A.N., alla casa in cui il protagonista Lulù Massa – interpretato da un “neorealista” Lino Guanciale in scena e da Gian Maria Volonté sullo schermo – vive con l’amante Lidia, nella messinscena Diana Manea, la cui interpretazione si vorrebbe meno ricalcata sul modello di quella di Mariangela Melato nel film; e poi la strada delle manifestazioni studentesche e sindacali. I cambi di scena sembrano quasi rispettare la bidimensionalità della pellicola scorrendo longitudinalmente su dei carrelli, mentre le azioni degli interpreti trovano invece prolungamento nella platea attraversata al centro e ai lati dall’organico di attori, il cui lavoro interpretativo è tutto teso verso i toni della passione e si dimentica a tratti della cruda essenzialità del quotidiano, più consonante del resto al modello brechtiano. Insieme ai protagonisti Donatella Allegro, Nicola Bortolotti, Michele Dell’Utri, Simone Francia, Eugenio Papalia, Franca Penone, Simone Tangolo.
L’orchestrazione complessiva, dalla durata di circa due ore e mezza, coinvolge lo spettatore in una visione storicizzata, rispetto alla quale si avverte un’inevitabile distanza. Il teatro de La classe operaia va in paradiso, e la sua memoria collettiva, rimane celebrato sul palcoscenico, non riesce a sfondare nella contemporaneità dimostrando che la dialettica tra passato e presente è, consequenzialmente ai fatti storici trascorsi e a come questi abbiano modificato il contesto politico sociale, discontinua.

Nella convinzione che la riproposizione teatrale di questo film non possa lasciare indifferenti, sia nel consenso che, a maggior ragione, nel dissenso, l’analisi si pone a questo punto in dialogo con il regista e direttore artistico Claudio Longhi il quale, come poi ci ha confermato lui stesso, inserisce questo spettacolo all’interno di una visione d’insieme in cui il lavoro rappresenta una personale chiave di lettura del valore politico che il teatro, come azione, ha nel nostro presente e nella sua progettualità triennale. Riportiamo di seguito un breve scambio di punti di vista.

Foto di Giuseppe Distefano

In cosa crede che il suo adattamento abbia una specificità teatrale?
Sono personalmente convinto che il gesto teatrale abbia di per sé una natura politica e che sia lo strumento antropologico per eccellenza che l’umanità si è data per riflettere su cosa voglia dire vivere insieme, per analizzarne i cosiddetti conflitti drammatici. Il teatro è di per sé un atto politico a prescindere dagli spettacoli che affrontano dichiaratamente questioni politiche.

In un intervento introduttivo durante la prima delle giornate di studio dedicate al convegno internazionale Teatri Abitatori di città, lei ha parlato di una necessaria articolazione tra il “linguaggio teatrale” e “il fare teatrale”. È la stessa domanda che si pone il personaggio di Militina (ex compagno di fabbrica di Lulù Massa ora costretto in un manicomio ndr) quando afferma: «Un uomo ha diritto di sapere quello che fa…ha diritto di sapere a che cazzo serve…?»
La volontà di concepire il teatro come riflessione sulla contemporaneità si inscrive nel progetto più ampio della Fondazione. Creare e programmare degli spettacoli vuol dire assumersi la consapevolezza di cosa si sta facendo e del come, è una riflessione tanto sul contenuto che sulla forma attuata nella pratica attraverso la coscienza di vivere in un periodo di emergenza da più punti di vista, politico, sociale e non ultimo, culturale.

Esiste una dialettica che lega insieme l’idea di precariato al proletariato rispetto anche alla condizione nella quale riversano gli artisti? E quali sono le differenze?
Le analisi devono essere sviluppate in relazione a un contesto, quella di classe è una condizione storica specifica che non appartiene all’oggi. Sono mondi e tempi diversi, cosa resta e cosa cambia? Trovo attuale la dialettica che ruota attorno alla stessa inattualità della condizione storica analizzata dal film e dallo spettacolo, nonostante questo permangono tuttavia dei tratti di profonda continuità tra le relazioni sociali e le relative dinamiche di sfruttamento dell’oggi.

Foto di Giuseppe Distefano

Politica e ideologia, qual è il peso di quest’ultima?
Il nostro è un presente che si chiede se uscire dall’ideologia sarà mai possibile, interrogandosi anche sulla sua mancanza. Comprendere cosa abbiamo perso di quel periodo storico e della sua portata ideologica è fondamentale: mi riferisco agli Anni di Piombo, agli attentati e alla derive estremiste come perdita positiva, ma non altrettanto per la perdita di consapevolezza di classe come spinta di pensiero e azione.

A tal proposito, citando il testo, «la commozione che quel tempo perduto riesce ancora a generare» non rischia di mitizzare la classe operaia, correndo il rischio di parlare «di un’anticaglia piovuta da un’altra era»?
Il rischio di una visione eterodossa è una problematizzazione interna al film stesso che venne appunto definito dalla critica un “pasticcio”, in grado però di restituire una complessità specifica e contemporanea. Il lavoro per lo spettacolo è partito dall’assunto, condiviso con gli attori che non hanno vissuto quel periodo, di non assolvere la propria figura giustificandone il ruolo, ma porsi rispetto ad essa con una necessaria distanza disinnescando così la mitizzazione. Indubbia è poi la componente emotiva suscitata da un simile lavoro e per spiegarmi meglio prendo in prestito l’”emozione intellettuale” di cui parlava Sanguineti quando indicava quell’approccio analitico che tende a destare commozione.

Secondo lei la classe operaia quindi è un’idea collocabile nel passato o è una verità presente?
Non posso fare a meno anche stavolta di citare Sanguineti che in Come si diventa materialisti storici sottolinea come la maggior parte delle persone viva in una condizione di proletariato o sottoproletariato e non ne è a conoscenza. La consapevolezza di classe è un’idea che abbiamo perso e quindi sì, relegata al passato, la condizione invece intesa come dimensione sociale è ancora una verità del presente. Semmai oggi non sarà una classe operaia ad andare in paradiso ma il singolo operaio sì.

Lucia Medri

Arena del Sole, Bologna – febbraio 2018

LA CLASSE OPERAIA VA IN PARADISO

liberamente tratto dal film di Elio Petri
sceneggiatura Elio Petri e Ugo Pirro
di Paolo Di Paolo
regia Claudio Longhi
scene Guia Buzzi
costumi Gianluca Sbicca
luci Vincenzo Bonaffini
video Riccardo Frati
musiche e arrangiamenti Filippo Zattini
regista assistente Giacomo Pedini
assistente alla regia volontario Daniel Vincenzo Papa De Dios
con Donatella Allegro, Nicola Bortolotti, Michele Dell’Utri, Simone Francia, Lino Guanciale, Diana Manea, Eugenio Papalia, Franca Penone, Simone Tangolo, Filippo Zattini

direttore tecnico Robert John Resteghini
direttore di scena Gioacchino Gramolini
macchinisti Marco Fieni, Riccardo Betti
capo elettricista Tommaso Checcucci
fonico e tecnico video Alberto Tranchida
sarta Eleonora Terzi
amministratrice di compagnia Yumi Suzuki
scene costruite nel laboratorio di Emilia Romagna Teatro Fondazione
capo costruttore Gioacchino Gramolini
costruttori Marco Fieni (costruzioni in ferro), Sergio Puzzo, Riccardo Betti
scenografo decoratore Lucia Bramati
costumi confezionati da Bàste sartoria
grafica AMS Lab
si ringraziano per i materiali di studio e iconografici Fondazione Cineteca di Bologna, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Fondazione Gramsci Emilia-Romagna, Fondazione MAST
si ringrazia Paola Pegoraro Petri
si ringrazia Aglaia Pappas per la presenza in audio
si ringrazia il Gruppo Editoriale Minerva RaroVideo
si ringrazia il Centro Storico Fiat
produzione EMILIA ROMAGNA TEATRO FONDAZIONE
foto di scena Giuseppe Distefano

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Lucia Medri
Lucia Medri
Giornalista pubblicista iscritta all'ODG della Regione Lazio, laureata al DAMS presso l’Università degli Studi di Roma Tre con una tesi magistrale in Antropologia Sociale. Dopo la formazione editoriale in contesti quali agenzie letterarie e case editrici (Einaudi) si specializza in web editing e social media management svolgendo come freelance attività di redazione, ghostwriting e consulenza presso agenzie di comunicazione, testate giornalistiche, e per realtà promotrici in ambito culturale (Fondazione Cinema per Roma). Nel 2018, vince il Premio Nico Garrone come "critica sensibile al teatro che muta".

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