Vinicio Marchioni, al debutto con Uno zio Vanja da Anton Čechov al Teatro della Pergola di Firenze, si è soffermato con noi sui riferimenti del mestiere d’attore, sull’onestà di rappresentazione, sulla funzione del teatro, sulle proprie passioni da spettatore. Intervista.
Al casale che fu la residenza di Papa Pio V si accede per una porticina che rivela, anzi, disvela un sentiero alberato di un fascino antico. In un ritratto di El Greco datato 1600, il discusso pontefice della Controriforma appare in abiti papali e con un libro in mano, con il dito tra le pagine come a tenere il segno, non perdere cura e attenzione per quella lettura. Oggi in quel casale c’è la sede della Link Campus University, con una grande sala a finestre in mezzo alla boscaglia. È lì dentro che troviamo Vinicio Marchioni, la sua cura e la sua attenzione, al centro della sala e con tutti gli attori ad ascoltare le sue note, a pochi giorni dal debutto della sua regia dedicata a Zio Vanja di Anton Čechov
Ti ho ascoltato parlare con gli attori, dire loro come pur in uno spazio privo di oggetti reali, di appoggi fisici, tutto ciò che abbiamo è un ritmo ed è tutto quello che nutre la necessità di cercare la scena. Cos’è di questa indagine dello spazio che ti attrae?
C’è una poesia di Ennio Flaiano che definisce bene il mio modo di pensare il teatro, cioè un gioco in cui si entra in una stanza buia per cercare qualcosa che non c’è. E, proprio per questo, averla trovata (nella poesia “Un gatto” da La valigia delle Indie, Flaiano definisce così una differenza tra scienza, filosofia e teologia ndr). Si tratta di portare gli attori a un grado di concentrazione, di apertura, di incandescenza con cui riempire ciò che è sempre uno spazio vuoto: le cose non si recitano, si può trovare il modo migliore di dire una battuta, ma sono i temi incarnati che ti fanno esistere su un palco.
Sappiamo riferire alla scrittura di Čechov il rimando a una complessità di situazione, verso un pubblico che invece cerca sempre più una certa evasione. Come si riesce a porre una simile attività culturale critica di fronte a questo pubblico?
Proprio su questo tema ci siamo confrontati molto; sia con Milena Mancini, con cui studiando il testo in questi anni ho condiviso la necessità di metterlo in scena, sia con Letizia Russo che ne ha scritto poi l’adattamento. Fare Čechov, questo Čechov nel 2018 in Italia, significa parlare di crisi, del grano che non cresce, dei debiti, della proprietà che non produce più e che deve essere venduta, mi ha fatto pensare a questo paese che venda la proprietà intellettuale perché non produce, una proprietà di anima, di identità. La crisi di Zio Vanja, che vive una sorta di annientamento e dà sempre la colpa agli altri, che si sente già vecchio e ha perso la speranza di un cambiamento, è per me molto simile alla nostra precisa condizione di teatranti di oggi – che neanche pensiamo più di arrivare alla grandezza dei tempi che furono ma dalla quale forse occorre finalmente distaccarci – al punto di aver trasferito l’intero contesto, dall’iniziale azienda agricola, all’interno di un teatro. Ci siamo chiesti quale teatro fosse, se un teatro grande e borghese o un piccolo teatro di periferia, e avevamo il problema di Astrov, il medico, che nell’originale lavora sempre contro malattie antiche come la peste o il tifo; così dall’iniziale idea di semplice sovrapposizione abbiamo capito di dover spostare questo teatro in uno dei paesi maggiormente colpiti dall’ultimo terremoto nel centro Italia, così che diventasse credibile la notte del medico in un ospedale da campo a vedere la morte delle persone, degli animali, a vedere i segni del crollo. Credo sia questa volontà di rendere popolare l’immaginario a dialogare meglio con il pubblico di oggi, che si può riconoscere in qualcosa di concreto.
All’interno di Zio Vanja il passaggio in questo destino che appare immutabile, in cui la stessa azione dei protagonisti non muta, non turba, lo stato delle cose. È in questo senso allora anche il rapporto tra inanità e azione, tra infelicità e felicità, che proprio lo spostamento in un’area terremotata forse inizia a porre in discussione. C’è tuttavia nel tuo Čechov un innesco, qualcosa che affronti più nel dettaglio una possibile soluzione di una tale relazione di opposti?
Čechov non dice se c’è o non c’è una speranza, sembra dire che una speranza ci deve essere. E allora chiama gli uomini alla propria responsabilità, mette in moto una propulsione, fa chiedere a ognuno: cosa faccio io perché questa speranza ci sia? Già stare lì ad aspettare che qualcuno, un autore, ci dica se una speranza ci sia o no mette in una condizione di passività, ma nell’ultimo monologo, tra i più belli della storia, Čechov fa chiudere lo spettacolo alla più piccola della famiglia e permette allo spettatore di chiedersi: che teatro, che mondo di macerie stiamo lasciando a chi verrà dopo di noi? Nelle sue parole si apre uno sguardo ampio sull’uomo, per un futuro fondato sul lavoro e su una compassione verso le miserie, quelle mancanze dell’animo umano che non deve fermarsi alla commiserazione, ma liberarsi in una reazione propositiva anche capace di perdono verso sé stessi, capace di rinascita.
Sembra che la relazione tra arte e crisi sia sempre più stretta…
Penso sia necessario, in un tempo confuso come questo, in cui tutti facciamo più o meno finta che le cose vadano più o meno bene, riappropriarsi della realtà con un senso critico, tornare a riflettere su temi universali come l’amore, la morte, proprio a partire da uno degli eventi più catastrofici e significativi degli ultimi anni, per comprendere quell’azzeramento di partecipazione attiva a ciò che accade, così come rispetto a uno spettacolo teatrale. Per farlo c’è bisogno di tornare a sentire con il cuore, con lo stomaco, attraverso un passaggio fondamentale di onestà, verso sé stessi e verso le proprie azioni. E l’onestà è proprio l’unico bisogno che Čechov riconosce appartenere all’arte.
Quali sono stati in questi anni i punti di riferimento mai perduti per sostenere l’eclettismo di un attore in diversi progetti?
L’incontro fondamentale è stato quello con Antonio Latella che per Un tram che si chiama desiderio mi ha riportato in teatro dopo anni di uno strano allontanamento. Prima di fare lo spettacolo ho partecipato a una tre giorni di lavoro con lui; lì mi sono nuovamente innamorato della possibilità di stare chiusi in un posto per cercare e basta, senza un obiettivo dichiarato. Ma ancora prima un punto di riferimento grande è stato ed è ancora Roberto Latini, per me uno dei maggiori artisti che ci siano nel teatro italiano di oggi.
L’eclettismo è proprio una delle caratteristiche principali del tuo lavoro di questi anni, dal teatro al cinema, passando per le serie tv, i videoclip. Dove sai rintracciare l’equilibrio del tuo mestiere di attore in queste diverse forme espressive?
Non mi sento mai da nessuna parte. So che l’umanità ha bisogno di esplorare ancora e sempre il Mito della caverna di Platone, così come sempre avrà bisogno di vedersi rappresentata per potersi riconoscere. Čechov ha messo in scena gli uomini per come sono, non ha creato dei modelli, non li ha messi in scena per come dovrebbero essere. Per questo cerco di essere in scena senza esserci, senza che essere me tolga all’uomo rappresentato.
Un attore pone le basi del proprio mestiere sull’osservazione, della realtà, ma anche del teatro visto, amato, anche odiato. C’è uno spettacolo, una scena, che ritieni sia fondamento memorabile della tua scelta artistica?
La prima volta che sono andato a teatro, a scuola, credo fosse per La Mandragola di Machiavelli. C’erano in scena questi attori che mi sembravano giganti, enormi, belli. Poi alla fine dello spettacolo insieme alla maestra siamo andati dietro e li ho visti per come erano: piccoli, brutti. Erano normali. Lì in questa differenza, nell’abbaglio vissuto tra dentro e fuori dal palco, ritrovo in molti attori straordinari la caratteristica dell’umiltà, una sorta di metro di giudizio che mi fa capire cosa e chi sto vedendo, a chi sto dedicando la mia passione di spettatore.
Poi ho avuto la fortuna di vedere l’ultimo spettacolo di Vittorio Gassman, in cui faceva tutto quello che il pubblico gli chiedeva, una sorta di playlist recitata in inglese, francese, tedesco; ne rimasi affascinato, pensai che quell’uomo avesse dedicato tutta la vita al teatro, alla forma di rappresentazione. Tutta la vita, davvero. Non si può pretendere solo di avere da questo mestiere. E non so quanto oggi siamo disposti a quell’investimento, di vita, nel teatro.
Simone Nebbia
Tournée
Firenze
Teatro della Pergola PRIMA NAZIONALE
26 gennaio – 4 febbraio
Lanciano
Teatro Comunale
6/02/2018
Teramo
Teatro Comunale
7-8/02/2018
Sulmona
Teatro Comunale
09/2/2018
Chieti
Teatro Marrucino
10 – 11/2/2018
Roma
Ambra Jovinelli
15 – 25/2/2018
Bologna
Teatro Duse
2 – 4/3/2018
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