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Teatrosofia #73. Platone e la commedia siciliana. Influssi di Epicarmo e Sofrone?

Teatrosofia esplora il modo in cui i filosofi antichi guardavano al teatro. Il numero 73 indaga i possibili influssi su Platone da parte del comico Epicarmo e del mimo Sofrone, entrambi autori siracusani del V secolo.

IN TEATROSOFIA, RUBRICA CURATA DA ENRICO PIERGIACOMI – collaboratore di ricerca post-doc e cultore di storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Trento – CI AVVENTURIAMO ALLA SCOPERTA DEI COLLEGAMENTI TRA FILOSOFIA ANTICA E TEATRO. OGNI USCITA PRESENTA UN TEMA SPECIFICO, ATTRAVERSATO DA UN RAGIONAMENTO CHE COLLEGA LA STORIA DEL PENSIERO AL TEATRO MODERNO E CONTEMPORANEO.

Detail from a Sicilian red figure calyx krater, a Phylax scene, Louvre Museum

Benché riconosciuto come filosofo di punta ed eccellente, gli antichi non mancarono di constatare la formazione, esperienza e conoscenza teatrale di Platone. Diogene Laerzio ci informa, a tal proposito, che egli anzi dapprincipio scrisse tragedie e poesie, per poi dedicarsi “professionalmente” alla filosofia solo dopo l’incontro con Socrate. Secondo alcune fonti, il teatro sarebbe stato persino alla base dell’attività di Platone come scrittore filosofico. L’intento di questo intervento è fornire un insieme di documenti che mettano in luce, in particolare, il suo legame con l’antica commedia siciliana, specificamente con due autori che vissero e operarono a Siracusa nel V secolo a.C.: il comico Epicarmo e il mimo Sofrone. Vedremo però come queste notizie vadano prese con estrema cautela, perché il loro contenuto oscilla tra lo storico e il romanzato.

Epicarmo non era, in realtà, un semplice comico. Secondo Aristotele, anzi, fu insieme a Formio l’inventore stesso della commedia, la quale sarebbe allora nata in Sicilia. Ora, un’attestazione esplicita di una dipendenza forte di Platone da Epicarmo proviene dall’unico frammento noto dei quattro libri Ad Aminta dello storico Alcimo, che pare operò nel IV secolo a.C. a Siracusa, presso la corte di Dionisio. Il testimone sosteneva, stando a un’ampia citazione riportata da Diogene Laerzio, che il filosofo trasse dal comico siciliano tre dottrine: 1) la divisione tra sensibile mutevole e intelligibile immutabile; 2) l’esistenza delle idee; 3) l’intelligenza degli animali. Molte altre somiglianze potevano forse essere riferite nei libri Ad Aminta di Alcimo. In ogni caso, è oscuro se l’accostamento di Platone con Epicarmo servisse a gettare discredito sul filosofo, sottolineando che egli avrebbe copiato il comico di Sicilia, o se intendesse attribuire ancora più notorietà al comico, rendendolo maestro di una tra le più illustri autorità intellettuali del tempo, o se si ponesse un altro fine ancora. Il solo elemento incontrovertibile che, a mio avviso, si può ricavare dal testo è che Alcimo volesse sottolineare l’«utilità» che i versi epicarmei fornirono all’elaborazione della dottrina platonica. Questa osservazione poteva avere una funzione sia positiva, ossia mostrare che Platone fu un autore originale che trasse giovamento dalla conoscenza di Epicarmo, sia neutra. In altri termini, si potrebbe anche supporre che lo storico si limitasse a notare l’influenza costruttiva del comico sul filosofo, senza con ciò necessariamente voler accrescere o diminuire l’importanza dell’uno sull’altro.

Assodato che resta oscuro il senso profondo della sua comparazione, possiamo comunque fidarci della testimonianza di Alcimo? In altri termini, essa ha un fondamento storico? Anche tale domanda deve rimanere senza risposta, seppure si può mettere almeno un piccolo punto fermo. Epicarmo è citato due sole volte nei dialoghi platonici: una nel Gorgia e una nel Teeteto. Il dato interessante è che questo secondo testo riporti da un lato, che Platone considerasse il poeta siciliano come il massimo rappresentante della commedia, dall’altro gli attribuisse la dottrina del flusso universale della realtà. Il Teeteto entra insomma in contraddizione evidente con quanto dice Alcimo. Se lo storico argomenta che Platone trasse da Epicarmo l’esistenza delle idee, il dialogo riporta che il poeta comico ne negava precisamente l’esistenza. Questo elemento getta così dubbi sulla fedeltà storica di Alcimo, o quanto meno ci costringe a ridimensionarla. Almeno la tesi che Platone riprese da Epicarmo la dottrina delle idee si rivela falsa. Sulle altre comparazioni, invece, non abbiamo basi testuali per decidere a favore o in senso contrario.

Più numerose sono invece le attestazioni testuali concernenti il rapporto tra Platone e Sofrone. Esse riportano, con diverse varianti, la medesima informazione essenziale. Platone amava molto i mimi di Sofrone e li leggeva con attenzione non solo di giorno, ma persino di notte. Infatti, si racconta che il libro che li contenesse fosse tenuto sotto il cuscino del letto del filosofo e che questi si svegliasse spesso di colpo per poterlo consultare al bisogno. (Tale volume fu poi trovato nello stesso luogo quando Platone morì. Il che è segno di quanto Sofrone fosse amato da Platone dalla giovinezza alla vecchiaia). Inoltre, queste fonti aggiungono che la lettura dei mimi di Sofrone consentì a Platone di elaborare la prima forma di dialogo e gli fornì spunti per imitare i caratteri dei personaggi. E dato che il mimo è per sua natura una poesia drammatica o recitata, queste testimonianze offrono una conferma esterna di un’ipotesi formulata in un precedente appuntamento della rubrica: che i testi platonici siano testi “drammaturgici”, o meglio testi che mettano in scena lo spettacolo godibile di Socrate che confuta i suoi interlocutori e li sprona a indagare meglio le cose di cui parlano.

Anche qui occorre però stare attenti. Non ci sono elementi interni che consentono di confermare con assoluta certezza la validità delle fonti menzionate. Diversamente da quanto abbiamo visto per Epicarmo, infatti, Platone non cita mai Sofrone di nome. Se il filosofo amava davvero questo poeta comico e lo imitava ampiamente, egli omette di dircelo, o di farcelo intendere. I testimoni potevano allora aver costruito anche un bell’aneddoto romanzato, a partire da una tenue base storica. Quel che è sicuramente da sfumare è, invece, l’idea che Platone fosse il primo a essere indotto a scrivere dialoghi filosofici dopo aver letto Sofrone. Abbiamo notizia, infatti, di altri possibili candidati di “primi scopritori” di questo genere letterario. Alcuni ignoti sostenevano che il dialogo filosofico fu inventato da Zenone di Elea. Aristotele asseriva, di contro, forse con intento denigratore e polemico, che il suo scopritore fu un altrimenti ignoto Alessameno di Teo, che peraltro pare fosse anche il primo ad aver rappresentato delle conversazioni di Socrate con i suoi interlocutori. Anche se nemmeno queste notizie sono di per sé sicure (Diogene Laerzio era convinto, per esempio, della falsità della tesi aristotelica), esse non possono nemmeno essere svalutate in partenza. In tal caso, più che l’inventore del dialogo filosofico, Platone andrebbe considerato uno dei suoi più abili perfezionatori, che si sarebbe distinto rispetto ai suoi predecessori e concorrenti forse proprio in virtù della sua conoscenza profonda del teatro.

I dettagli sul rapporto della scrittura platonica con i due comici siciliani restano misteriosi e controversi. Ma il fatto che Platone considerasse Epicarmo il massimo rappresentante della commedia e la probabilità della sua conoscenza di Sofrone ci rivelano un elemento importante della sua biografia intellettuale. Platone non vide nella Sicilia solo il luogo in cui eventualmente fondare la città vagheggiata nella Repubblica, convertendo il tiranno Dionisio alla sua causa. Per lui fu anche la patria di due dei poeti comici da lui più amati e, più dubbiosamente, imitati.

———————-

E [pare] che [Platone] abbia studiato pittura e scritto poesie, prima ditirambi, poi anche canti lirici e tragedie. (…) Poi mentre si accingeva a partecipare con una tragedia all’agone, udita la voce di Socrate, dinanzi al teatro di Dioniso, bruciò l’opera esclamando: «Efesto, avanza così: Platone ha ora bisogno di te» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, libro III, § 5)

Perciò i Dori rivendicano sia la tragedia che la commedia (la commedia la rivendicano tanto i Megaresi di qui, poiché è presso di loro che è nata la democrazia, quanto quelli della Sicilia, di lì, infatti, era Epicarmo, poeta che è anteriore a Chilonide e Magnete). (…) Dunque, mentre le trasformazioni della tragedia e <ciò> che avveniva attraverso di queste non è passato inosservato, la commedia, poiché all’inizio non presa sul serio, ci è rimasta nascosta; e infatti l’arconte concesse il coro ai commedianti solo molto tempo dopo che era appannaggio di volontari. Di coloro che vengono chiamati poeti della commedia, d’altra parte, si ha ricordo solo da quando essa possiede alcune caratteristiche. Ma chi introdusse la maschera teatrale, il prologo, un maggior numero di attori, e cose di questo genere, lo si ignora. Il comporre trame, <al modo di> Epicarmo e Formide, all’origine provenne dalla Sicilia (Aristotele, Poetica, 1448a-1449b = Epicarmo, T18-19 Rodríguez-Noriega Guillén)

Anche dal poeta comico Epicarmo gran giovamento trasse e moltissimi elementi trascrisse, come dice Alcimo nei libri Ad Aminta, che sono quattro. Nel primo libro di quest’opera egli dice: «È evidente che anche Platone dica molte cose epicarmee. Si consideri: Platone definisce il sensibile ciò che mai permane né nella qualità né nella quantità, ma sempre scorre e muta; qualora si tolga il numero, le cose sensibili perdono identità, quiddità, quantità, qualità: e del sensibile è eterno il divenire, nulla l’essenza. L’intelligibile è ciò che nulla perde e nulla acquista. Questa è la natura delle cose eterne che è sempre uguale e sempre la stessa. Pertanto Epicarmo si è espresso chiaramente intorno al sensibile e all’intelligibile:

A. Sempre gli dèi furono e mai vennero meno, ciò che è eterno è uguale e lo stesso sempre.

  1. Eppure si dice che Caos degli dèi fu il primo.
  2. Come può essere? Non può come primo essere venuto di là o là venire.
  3. Dunque nulla venne per primo.
  4. Né secondo, per Zeus, almeno di ciò di cui qui ora parliamo in questo modo, ma sempre ciò era”.

E:

A. Se ad un numero dispari, o se vuoi pari, una pietruzza aggiungasi ovver anche si tolga, ti sembra esso ancora rimanere il medesimo?

  1. No, certo.
  2. E così, se alla misura di un cubito aggiungere tu vuoi o ritagliare altra lunghezza da quel che prima era, rimarrebbe ancora quella misura?
  3. No.
  4. E bada ora anche agli uomini: l’uno cresce, l’altro scema: tutti sempre in mutamento. Ciò che per natura muta e rimane nello stesso luogo sarebbe, certo, già qualcosa di diverso da ciò che è mutato. Anche tu ed io altri ieri ed oggi altri noi siamo e di nuovo altri nel futuro, e mai gli stessi secondo la stessa legge”».

Ancora Alcimo continua così: «Dicono i sapienti che l’anima alcune cose senta per mezzo del corpo in quanto sente e in quanto vede, altre da se stessa discerne, per nulla servendosi del corpo: perciò le cose che sono si distinguono in sensibili ed intelligibili. Onde anche Platone diceva che quanti desiderano comprendere i princìpi del tutto devono prima discernere le idee per se stesse, come uguaglianza, unità, molteplicità, grandezza, stasi, movimento; in secondo luogo devono stabilire per se stesso il bello, il buono, il giusto e simili; in terzo luogo devono intendere quante delle idee sono relative ad altre idee, come scienza o grandezza o signoria (considerando che le nostre cose sono omonime delle idee per il fatto che ne partecipano: dico che sono giuste le cose che partecipano del giusto, belle le cose che partecipano del bello). E ciascuna delle idee è eterna, è una nozione, inoltre è imperturbabilità. Perciò dice pure che nella natura le idee stanno come archetipi e che le cose del nostro mondo in quanto loro copie sono simili alle idee. Orbene Epicarmo intorno al bene e alle idee si esprime così:

A. Suonare il flauto è una cosa?

  1. Senz’altro.
  2. Ma il suonare il flauto è anche un uomo?
  3. Nient’affatto.
  4. Ed ecco, che cosa è un suonatore di flauto? Chi ti par d’essere? Un uomo? O non è vero?
  5. Sì, appunto.
  6. Non ti sembra che così sia anche del bene? Il bene cioè, è la cosa in se stessa; chi l’abbia appreso e lo sa, questo già diventa buono. Come è suonatore di flauto chi ha appreso a suonarlo, e ballerino chi ha appreso la danza e intrecciatore chi ha appreso l’arte d’intrecciare e similmente se ha appreso qualsiasi cosa che tu voglia; egli non sarà l’arte, ma l’artista naturalmente”.

Platone nella concezione delle idee dice che se vi è memoria, le idee esistono nelle cose che sono, perché la memoria è solo di una cosa che sia in quiete e permanente e nulla è permanente fuorché le idee. (…) Come dunque Epicarmo?

“Eumeo, la saggezza non è in un solo individuo, ma tutte le creature viventi hanno anche intelligenza. Ed infatti la razza femminile delle galline, se vuoi intensamente osservare, figli non genera che già vivono, ma cova e fa che abbiano un’anima. E come si verifichi questa saggezza solo la natura sa, perché da se stessa si è educata”. Ed ancora [Epicarmo scrive]: “Nessuna meraviglia che noi così parliamo e che noi a noi stessi piacciamo e ci crediamo bellamente fatti: e infatti il cane sembra di essere la creatura più bella al cane, e un bue al bue, un asino all’asino, un porco al porco, senza dubbio”».

Questi e simili esempi per quattro libri raccoglie Alcimo, indicando l’utilità che Platone attinse da Epicarmo. Che però Epicarmo fosse consapevole della sua saggezza, è lecito dedurlo da questi versi in cui egli presagisce un suo emulo: «Come io credo, e infatti credo, questo io so chiaramente, che un giorno sarà il ricordo di queste mie parole, ancora. Uno le prenderà, le priverà del metro che hanno ora, darà loro una veste purpurea, conferirà il vario ornamento di miti; egli che è invincibile mostrerà gli altri facilmente vincibili» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, libro III, §§ 9-17 = Epicarmo, fr. 248 Rodríguez-Noriega Guillén; Alcimo, fr. 6 Jacoby)

Callicle: Ma tu non potresti continuare da te il ragionamento, o parlando tu solo, o rispondendo a te stesso?

Socrate: Perché mi accada quel che dice Epicarmo: «Sarò da solo capace di dire quello che prima dicevamo in due!» (Platone, Gorgia, 505d-e)

Si tratta di una dottrina assai rinomata. Questa: nessuna cosa è per se stessa una sola; tu non puoi, correttamente, dar nome a una cosa né a una sua qualità; se tu, per esempio, chiami alcuna cosa grande, ecco che essa potrà apparire anche piccola; se la chiami pesante, potrà apparire anche leggera; e così via per tutto il resto, perché niente è uno, né sostanza, né qualità. Dal mutar luogo, dal muoversi, dal mescolarsi delle cose fra loro, tutto diviene ciò che noi, adoprando un’espressione non corretta, diciamo che è; perché mai niente è, ma sempre diviene. Su questo punto tutti i filosofi, uno dopo l’altro, a eccezione di Parmenide, si deve ammettere che sono d’accordo, Protagora, Eraclito, Empedocle; e anche sono d’accordo i migliori poeti dell’uno e dell’altro genere di poesia, Epicarmo della commedia, della tragedia Omero; il quale, dicendo «Padre fu Oceano a’ numi  madre Teti» [Iliade, libro XIV, v. 201] intese dire che tutte le cose hanno origine dal flusso e dal movimento (Platone, Teeteto, 152d-e)

Pare che Platone sia stato il primo ad introdurre in Atene anche le opere del mimografo Sofrone da altri neglette e che al suo stile abbia conformato alcuni caratteri e una copia dei mimi sia stata rinvenuta sotto il suo cuscino (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, libro III, § 18 = Sofrone, testimonianza 6 Kassel-Austin)

Si tramanda questo racconto meraviglioso, secondo cui non solo [Platone] leggeva tutto il giorno i suoi mimi [scil. di Sofrone], ma anche che durante la notte mettesse il libro di quello sotto il cuscino, in modo tale che, se capitava che durante la notte gli venisse in mente un qualche pensiero, subito poteva consultare le opere del mimografo. Dunque questo autore che fu tanto amato da Platone imitò sia gli uomini che le donne, ma persino i bambini piccoli, che non sanno ancora riconoscere e chiamare né la madre, né il padre (Coricio di Gaza, Orazione 32, §§ 15-16 = Sofrone, testimonianza 7 Kassel-Austin, fr. 102 Hordern; traduzione mia)

(Platon) avait imité aussi Sophron le mimographe dans l’action dramatique de ses dialogues; on ne doit pas se fier à Aristote qui, par esprit de dénigrement, a dit dans le premier livre de sa Poétique qu’avant Platon déjà des dialogues dramatiques avaient été érits par Alexamène de Ténios (Anonimo, [Trattato su Platone], Papiro di Ossirinco 3219, fr. 1, ed. Bowman = Sofrone, testimonianza 4 Kassel-Austin; Aristotele, Sui poeti, fr. 44c Janko; traduzione mia)

 

Ma il nobile Platone… con le sue maldicenze ha fatto piazza pulita di tutti gli altri in un colpo solo, che nella Repubblica bandisce Omero e la poesia mimetica, dopo aver scritto lui stesso in modo imitativo i suoi dialoghi, dei quali peraltro non ha neanche inventato la forma. Prima di Platone, infatti, aveva scoperto questo genere di discorsi Alessameno di Teo, come ricordano Nicia di Nicea e Sozione. E Aristotele scrive nell’opera I poeti: «Non possiamo quindi negare che i cosiddetti mimi di Sofrone, che non sono in versi, siano dialoghi, o che siano imitazioni i dialoghi di Alessameno di Teo, che furono i primi di tipo socratico ad essere composti». E così il dottissimo Aristotele afferma senza riserve che Alessameno compose dialoghi prima di Platone (Ateneo di Naucrati, I sofisti al banchetto, libro XI, § 112 = Sofrone, testimonianza 3 Kassel-Austin; Aristotele, Sui poeti, fr. 44a Janko)

 

Dicono che il primo scrittore di dialoghi sia stato Zenone di Elea, ma Aristotele nel primo libro Dei poeti secondo le Memorie di Favorino, afferma che fu Alessameno di Stira o di Teo. A mio avviso e a pieno diritto, il vero inventore del dialogo è Platone, che per il magistero dello stile rivendica a sé il primato così della bellezza come dell’invenzione stessa. Il dialogo è un contesto di domande e risposte intorno ad una questione filosofica o politica, con una conveniente caratterizzazione dei personaggi in esso assunti e con una espressione stilistica accurata (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, libro III, § 48 = Aristotele, Sui poeti, fr. 44e Janko)

 

[Queste le raccolte di fonti e le traduzioni usate:

1) Francesco Adorno (a cura di), Platone: Gorgia, Roma-Bari, Laterza, 1997

2) Alan Keir Bowman (ed.), POxy. 3219, in AA.VV., The Oxyrhynchus Papyri. Vol. 45, London, Egypt Exploration Society, 1975;

3) Luciano Canfora (a cura di), Ateneo. I deipnosofisti: i dotti al banchetto, introduzione di Christian Jacob, Roma, Salerno, 2001;

4) Marcello Gigante (a cura di), Diogene Laerzio: Vite dei filosofi, Roma-Bari, 1962;

5) Daniele Guastini (a cura di), Aristotele: Poetica, Roma, Carocci, 2010;

6) James Hordern (ed.), Sophron’s Mimes, Oxford, Oxford University Press, 2004]

7) Felix Jacoby (Hrsg.), Die Fragmente der griechischen Historiker (FGrHist). Dritter Teil, Geschichte von Staedten und Voelkern (Horographie und Ethnographie). N. 560: Alkimos, Leiden, Brill, 1957

8) Richard Janko (ed.), Philodemus: On poems. Books 3-4: with the fragments of Aristotle «On poets», Oxford, Oxford University Press, 2011;

9) Lucía Rodríguez-Noriega Guillén (ed.), Epicarmo de Siracusa: testimonios y fragmentos, Oviedo, Universidad de Oviedo, 1996

10) Rudolf Kassel, Colin Austin (ed.), Poetae Comici Graeci. Vol. I: Comoedia dorica, Mimi, Phlyaces, Berlin, De Gruyter, 2001

11) Manara Valgimigli (a cura di), Platone: Teeteto, introduzione e note di Anna Maria Ioppolo, Roma-Bari, Laterza, 1999

Enrico Piergiacomi

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Enrico Piergiacomi
Enrico Piergiacomi
Enrico Piergiacomi è cultore di storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Trento e ricercatore presso il Centro per le Scienze Religiose della Fondazione Bruno Kessler di Trento. Studioso di filosofia antica, della sua ricezione nel pensiero della prima età moderna e di teatro, è specialista del pensiero teologico e delle sue ricadute morali. Supervisiona il "Laboratorio Teatrale" dell’Università degli Studi di Trento e cura la rubrica "Teatrosofia" (https://www.teatroecritica.net/tag/teatrosofia/) con "Teatro e Critica". Dal 2016, frequenta il Libero Gruppo di Studio d’Arti Sceniche, coordinato da Claudio Morganti. È co-autore con la prof.ssa Sandra Pietrini di "Büchner, artista politico" (Università degli Studi di Trento, Trento 2015), autore di una "Storia delle antiche teologie atomiste" (Sapienza Università Editrice, Roma 2017), traduttore ed editor degli scritti epicurei del professor Phillip Mitsis dell'Università di New York-Abu Dhabi ("La libertà, il piacere, la morte. Studi sull'Epicureismo e la sua influenza", Roma, Carocci, 2018: "La teoria etica di Epicuro. I piaceri dell'invulnerabilità", Roma, L'Erma di Bretschneider, 2019). Dal 4 gennaio al 4 febbraio 2021, è borsista in residenza presso la Fondazione Bogliasco di Genova. Un suo profilo completo è consultabile sul portale: https://unitn.academia.edu/EnricoPiergiacomi

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