È andato in scena, negli antri della Rocca Paolina di Perugia, Oh Gregor!, il «gioco scenico in una stanza» firmato da Danilo Cremonte e dagli allievi del laboratorio Human Beings. Recensione
«Il segreto di Kakfa […] sta nell’esprimere la tragedia per mezzo dell’elemento quotidiano, e l’assurdo per mezzo di quello logico». Queste sono le parole di Albert Camus nell’Appendice su Kakfa, posta a chiusura della seconda edizione (1948) del suo saggio Il mito di Sisifo.
Il filosofo francese si riferisce alla caratteristica della scrittura kafkiana per la quale l’apparizione dell’assurdo può verificarsi attraverso il posizionamento di elementi del tutto logici in sé che però, simili a specchi concavi opportunamente e a-logicamente orientati, riescono a cauterizzare la superficie liscia e lucida dei fenomeni.
Questa precisa configurazione narrativa sembra essere ripresa, a livello scenico, dallo spettacolo Oh Gregor! di Danilo Cremonte, esito di un lungo studio con gli allievi del suo laboratorio perugino Human Beings (un vero fulcro di ricerca interculturale sui linguaggi della scena, attivo dal 1994), già applaudito, durante lo scorso autunno, in Cina (al festival internazionale Shandong International Small Theatre Modern Drama Show) e nella Sala Cannoniera della Rocca Paolina di Perugia, dove qualche settimana fa è stato riproposto.
Se il titolo richiama l’invocazione (una disperazione macchiata di disgusto) che la sorella Grete rivolge al protagonista de La metamorfosi, nel gioco scenico, organizzato per quadri, diretto da Cremonte, allo svolgimento della fabula principale si intrecciano riferimenti prelevati da altri scritti. Le risonanze più forti sono quelle provenienti da La tana, uno tra gli ultimi racconti di Kafka (composto sei mesi prima della morte e pubblicato postumo nella raccolta Durante la costruzione della muraglia cinese) che narra, in prima persona, le sorti di una creatura – metà roditore e metà architetto – auto-imprigionata nel labirintico rifugio sotterraneo che si è pazientemente costruita. A infestare la sua serenità sarà un sibilo senza origine (quasi certamente una creazione della sua mente) che, propagandosi attraverso i cunicoli e gli antri, genererà l’ossessione convulsa di un agguato imminente.
Nel corso della rappresentazione, la fonosfera della Sala Cannoniera – aiutata dalla morfologia dell’ambiente, dalla cupa monumentalità della fortezza che addensa ogni eco – si fa, via via, formicolante, carica di crepitii, scalpiccii sordi e ticchettanti, sottili perturbazioni elettriche. In questo paesaggio sonoro, scricchiolante e fantasmatico insieme, si muovono – senza quasi proferire parola per tutto il tempo – i sei interpreti (e co-autori) della pièce. Si aggirano tra i pochi pezzi di arredo lignei e semplici, costante oggetto di un gioco di ri-funzionalizzazioni che, con i sobri artifici del teatro povero, si accorda bene alla funzione narrativa della quale si diceva, l’evocazione di un mistero terribile attraverso la giustapposizione di eventi e oggetti della quotidianità, l’emorragia di un orrore sotteso alla conformazione del mondo.
Ciascuno di loro assumerà, per qualche passaggio, le posture deformate dell’insetto, ne mimerà le strategie di movimento, le laboriose meccaniche di aggregazione, le tremende paure. Ma, in coerenza con un tratteggio che complica la linearità narrativa de La metamorfosi infittendone la suggestione, nella claustrofobia di un ambiente che brulica di dissonanze, si staglieranno momenti di leggiadria: l’ombreggiatura di un merletto proiettata sulle pareti di roccia, una violinista che, incardinata al centro della scena come la ballerina di un carillon, suona una serenata di Schubert (richiamando una tenue ipotesi di umanità, di elevazione), una magnetica nudità lontana, bagnata di luce calda.
La qualità quasi ipnagogica di queste immagini – connesse al proprio habitat da un legame fluttuante ma non astratto – aggiunge, insieme alle sonorità ricercate dei lieder tedeschi e delle melodie klezmer, una ricchezza di suggestione che accentua gli effetti stranianti della deposizione della parola e della dura “reificazione” che la metamorfosi simboleggia.
Come è stato Cremonte a spiegare, il focus non risiede nella rappresentazione dell’insetto, al contrario nella sua evocazione per negazione (nell’originale il termine è «ungeziefer», composto con il prefisso privativo un, letteralmente «essere insignificante» ma anche «immondo», «inadatto al sacrificio»), nebulosa e larvale. Questa indefinitezza iconologica – coerente alla posizione dello stesso Kafka che, in una lettera del 1915, vietò all’editore di utilizzare un disegno per la copertina del racconto: «L’insetto non deve essere disegnato. Non dev’essere visto nemmeno a distanza» – è contrappuntata dall’immersione della pièce in un ambiente, quello della Rocca, fortemente connotato dalla propria imponenza materica, che si fa cubicolo della trasformazione.
Il grande lavoro sui testi e sui frammenti, condotto insieme ad allievi provenienti da tutto il mondo, sembra aggiungere una particolare tridimensionalità culturale all’operazione, alcune dolenti ombreggiature sul tema del respingimento, una nota appena più vibratile all’inestricabile interrogazione sulla definizione dell’umano.
Ed è proprio la kafkiana «mancanza di meraviglia» postulata da Camus – una descrizione dell’orrore mai stupefatta e mai enfatica – che, sulla scena di Cremonte, si fa progressivamente più avvertibile, definendo, in un solo tratto, la natura proliferante dell’alienazione, l’insufficienza a fenderla del moto perpetuo del ragionamento e l’estinzione del sentimento che la osserva.
Ilaria Rossini
Sala Cannoniera, Rocca Paolina, Perugia – gennaio 2018
OH GREGOR! GIOCO SCENICO IN UNA STANZA
di e con Stefan Godonoga, Arian Imani, Axel Lepper, Rita Marinelli, Anna Poppiti, Jhans A. Serna Rayme e Waqas Ali Majeed
direzione e regia Danilo Cremonte
luci Christian Sorci
assistente Christine Lord