Teatrosofia esplora il modo in cui i filosofi antichi guardavano al teatro. Con il numero 74 la rubrica compie tre anni e guarda al futuro. Unire storia, filosofia e teatro in un mutuo soccorso.
Arrivati ormai alla conclusione del terzo anno continuativo di ricerca di questa rubrica, è più che naturale sentire il bisogno di fermarsi un attimo, di riflettere sul proprio percorso e di problematizzarne il senso complessivo. Finora sono state ricostruite le opinioni di molti filosofi intorno al teatro e all’arte dell’attore, che vanno dal VII-VI secolo a.C. fino al I secolo d.C. circa – in maniera, va detto, spesso disordinata e non cronologica, trattandosi di un percorso di ricerca e consapevolezza anzitutto personale. Ora, che cosa farsene di questo ingombrante materiale, che continua ad ammassarsi in inesorabile progressione?
Prima di tentare di rispondere con sincerità e trasparenza alla domanda, andrebbe esplicitata una premessa.
La ricerca che Teatrosofia ha intrapreso dal 2015 a oggi ha seguito, nello stesso tempo, due direttive. La prima via è un percorso di ricostruzione di quello che gli antichi pensatori greci e latini effettivamente dissero sugli attori, senza nascondere quanto le loro opinioni potessero essere tendenziose od ostili agli artisti. Ho più spesso notato che l’atteggiamento comune dei filosofi antichi era quello del disprezzo dell’arte teatrale, spesso persino usata per spiegare fenomeni assai poco edificanti: la menzogna politica, l’incontinenza, l’obbedienza cieca alla decisione inflessibile della fortuna o di una fatalità/provvidenza divina. La seconda via seguita da Teatrosofia consiste, di contro, nell’assunzione di un atteggiamento teorico o – se vogliamo usare una parola un po’ scomoda – uno “spirituale”. Studiando le voci delle persone più intelligenti e profonde dell’antichità, forse è possibile arrivare a capire che cosa sia il teatro e in che consista l’attività che gli attori svolgono ancora oggi, con fatica e amorosa dedizione.
La prima via può essere etichettata sotto il termine “storia”. La seconda richiede, invece, un neologismo, per distinguere questo specifico desiderio di conoscenza dalla “filosofia” in senso lato, che brama tutta la sapienza e non la singola parte dedicata al teatro. Un sostantivo forse pregnante che esprime bene questo bisogno di conoscere specificamente il teatro coniando la parola “filoteatria”.
Benché queste due linee di ricerca siano molto diverse tra loro e il coltivare entrambe comporti uno sforzo notevole, ritengo che la loro complementarietà sia indispensabile. La storia da sola rischia, infatti, di tramutarsi in un esercizio inerte e senza scopo. Essa ci porta con metodo a una collazione ordinata di “fatti” e di “idee”, secondo la loro progressione diacronica. Ma non ci indica a cosa questi fatti o idee potrebbero tornare utili, aldilà del piacere personale del ricercatore e dei lettori animati da pura curiosità.
La “filoteatria” come atteggiamento non disciplinato e che prescinde da uno studio della tradizione storica corre il pericolo, invece, nel migliore dei casi, di fare delle presunte scoperte che pensatori passati avevano fatto prima di noi, nel peggiore di incorrere in errori e semplificazioni teoriche.
Per fare un unico esempio, vi è la tendenza a far filosofia dell’arte discettando di “catarsi” e della sua origine da Aristotele, senza però essersi avveduti in anticipo che tale filosofo non spiega questo concetto nella Poetica e nel libro VIII della Politica, né descrive (se non con poche/rapide allusioni) i suoi effetti educativi e morali. I cultori della “filoteatria” svolgono, dunque, in questo caso, un ragionamento che è a monte vizioso. Prendono come dato di fatto una lettura aprioristica / controversa della “catarsi” e attribuiscono al concetto delle qualità che Aristotele non aveva mai riconosciuto, deducendo delle teorie false, difettose, o parziali.
Storia e “filoteatria” dovrebbero così cercare di collaborare o di bene mescolarsi insieme. L’una offrirà un materiale oggettivo e il più possibile non controverso su cui fare delle riflessioni più generali. Viceversa, l’altra inserirà questa massa di “fatti” e di “idee” in un più preciso programma di teoria o azione, facendo così spiccare (per così dire) il volo a questo insieme di conoscenze forse curiose e critiche, ma per il resto utile solo al lettore specialista.
Ciò detto, posso tornare alla domanda da cui siamo partiti. Che cosa fare di questo materiale che continua ad ammassarsi? O per riformulare il problema, con il linguaggio che ho intanto elaborato: in che modo storia e “filoteatria” possono raggiungere una buona mescolanza, facendo sì che lo studio storico degli antichi aiuti a capire qualcosa sul teatro e sull’attore? Mi pare che tre siano le ipotesi di lavoro possibile.
La prima è guardare allo studio della tradizione filosofica antica sul teatro e sull’attore come opportunità di redigere una sorta di “sillabario teatrale”: una raccolta di definizioni e di discussioni su alcuni concetti fondamentali che gli artisti usano in realtà quotidianamente, ma che non per questo padroneggiano fino in fondo. Gli antichi insistono, ad esempio, nel proprio studio filosofico del teatro, su idee-chiave come “catarsi”, “maschera” o “persona”, “rappresentazione”, “vuoto”, e via dicendo. Studiandoli noi a nostra volta, forse potremo arrivare a padroneggiare meglio questo lessico incerto e controverso, così da imparare a parlare meglio del teatro e, di conseguenza, a crearlo.
La seconda ipotesi di lavoro è capire lo specifico del teatro in opposizione a un altro ambito di conoscenza specialistico: la filosofia. In questo senso, il fatto che più spesso i filosofi antichi attaccassero gli attori e qualificassero in termini spregiativi il loro lavoro può essere interpretato in senso positivo. Fornendoci le ragioni di un simile disprezzo, essi ci dicono, indirettamente, che nella filosofia vi è qualcosa di molto diverso dal teatro, in termini di metodo, di linguaggi, o di fini. Altrimenti, questa ostilità dei filosofi verso i teatranti semplicemente non si darebbe.
Ora, fare chiarezza su questo “qualcosa” di diverso tra il teatro e la filosofia non solo ci permetterebbe di comprendere in che cosa l’uno differisca dall’altra. Potrebbe essere un preludio per un loro potenziale incontro e scambio proficuo. Se il filosofo capisse quali sono le ragioni per cui l’attore fa, pensa vuole certe cose e, per converso, se l’attore capisse le azioni, i pensieri e i desideri del filosofo, entrambi potrebbero riuscire a collaborare e smettere di farsi guerra. Un simile scenario potrebbe dare forse luogo a una sorta di meta-disciplina: una in cui siano compresenti poesia e ragionamento, emozione e pensiero, che sono invece direttive che procedono spesso separate, o in strenua solitudine.
La terza ipotesi di lavoro ha, infine, un indirizzo etico. Capire che cosa sia il teatro attraverso la storia e la “filoteatria” non implica solo la comprensione di un’arte umana, troppo umana, che nasce e muore con noi. Le creazioni degli attori ci mettono, dopo tutto, in contatto con una dimensione superiore ed eticamente rilevante: quella della bellezza. Definire quest’ultima è arduo, ma non si errerà forse troppo nel supporre che è quella particolare “forma” che il teatro (o più in generale le attività poetiche) danno alle cose e alla vita, rendendole più perfette, piacevoli, comprensibili e durevoli. Se capiremo cosa sia più nella precisione il teatro, attraverso i filosofi antichi e gli attori, forse sapremo anche cosa fare della bellezza che esso riesce a evocare. E in questi tempi in cui tutto sembra andare alla deriva, perché si è scoperto con lucidità che non esistono valori, verità o fedi forti (come progresso, famiglia, dio) a cui ci possiamo ancora aggrappare, l’arte degli attori acquista pregnanza e importanza decisiva.
Non so se quanto è stato qui vagheggiato troverà mai una forma, o se sarà stroncato dalla difficoltà dell’impresa. Vorrei perciò chiudere con un augurio a storici, attori, critici, filosofi e altri innamorati del piccolo mondo teatro di ottenere almeno un brandello di questa bellezza, nonché di acquisire il dono di poterla riverberare sul mondo più grande, il nostro, sempre più duro e ostile:
«Io tengo una piccola imperatrice tra le mie braccia; è una cosa comprensibile e tuttavia immensa. Un giorno lei […] dominerà non solo sul piccolo mondo, ma su… tutto quanto! Su tutto quanto!» (Ingmar Bergman, Fanny e Alexander).
Enrico Piergiacomi