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Teatrosofia #72. Antifonte sofista. Contro la tristezza

Teatrosofia esplora il modo in cui i filosofi antichi guardavano al teatro. Il numero 72 indaga la capacità di Antifonte di curare attraverso le orazioni la tristezza dei suoi interlocutori.

IN TEATROSOFIA, RUBRICA CURATA DA ENRICO PIERGIACOMI – collaboratore di ricerca post-doc e cultore di storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Trento – CI AVVENTURIAMO ALLA SCOPERTA DEI COLLEGAMENTI TRA FILOSOFIA ANTICA E TEATRO. OGNI USCITA PRESENTA UN TEMA SPECIFICO, ATTRAVERSATO DA UN RAGIONAMENTO CHE COLLEGA LA STORIA DEL PENSIERO AL TEATRO MODERNO E CONTEMPORANEO.

S. Dalì, “Danza: le sette arti”, 1944

La vita intellettuale del sofista Antifonte si caratterizza per l’aver attraversato una vasta serie di discipline. Egli è ricordato soprattutto per essere l’autore di orazioni politiche, tra cui le più famose sono il Sulla verità e il Sulla concordia. Ma sappiamo anche che egli coltivò in più almeno la geometria, la gnoseologia, la divinazione attraverso i sogni e varie altre arti o tecniche, che allo sguardo di uno specialista di oggi potrebbero sembrare quasi incompatibili.

Questa vastità davvero eccezionale di interessi non è un’anomalia tra V e IV secolo a.C., vi furono infatti altri personaggi competenti in settori assai diversificati, come ad esempio Democrito. Nel nostro caso, però, la questione è complicata dal fatto che a quell’epoca operarono altri due “Antifonti”. Da un lato, abbiamo il retore Antifonte di Ramnunte, che scrisse oltre 60 discorsi (particolarmente famose sono le sue Tetralogie e un’orazione Sul coreuta) e fu ucciso dai Quattrocento; dall’altro il poeta Antifonte di Sicilia, che scrisse tragedie da solo o insieme al tiranno Dionisio di Siracusa, che poi finì per condannarlo a morte. La critica tutt’oggi dibatte – senza essere giunta a un accordo – se il nostro sofista sia una terza persona diversa, o al contrario se vada identificata con una di queste due. Se dovessimo identificarlo con il retore, avremmo un intellettuale che operò in Magna Grecia (ossia, almeno tra Ramnunte e Atene) e fu impegnato politicamente. Nel caso fosse da identificare con il tragediografo di Sicilia, avremmo un sofista/drammaturgo che coltivava l’attività filosofica insieme alla poetica.

Anche se il taglio della rubrica è dichiaratamente non-specialistico, una presa di posizione su questo dibattito filologico è in tal sede parzialmente ineludibile. Esiste una tradizione biografica, infatti, a sostegno dell’ipotesi che l’Antifonte scrittore di opere tragiche insieme a Dionisio coltivò in gioventù la tragedia e aprì a Corinto un luogo in cui esibire discorsi che miravano a una techne tes alupias (= all’arte di guarire dalla tristezza), per poi passare esclusivamente alla retorica, resosi conto che la sua attività non gli garantiva sufficiente ricchezza. Ora, se questo Antifonte è diverso dal nostro sofista, allora mancheremmo delle prove testuali a favore di un suo coinvolgimento nella tragedia, dunque verso il teatro e l’attore. I frammenti che sono certamente attribuibili a tale personaggio non comprendono, dopo tutto, resti di opere tragiche o poetiche. Se invece fosse identico all’Antifonte tragediografo, avremmo un personaggio davvero strano: uno che prima visse in gioventù a Siracusa, poi si mosse a Corinto (di nuovo, in Magna Grecia) per tentare di lucrare con la sua techne tes alupias, quindi si dedicò alla retorica in Atene, infine tornò – per ragioni misteriose – in Sicilia giusto per ricevere la condanna a morte dal tiranno.

Mantenendo la debita cautela e anticipando in partenza che si tratta di un’ipotesi molto ardita, ritengo che un modo per salvare le varie informazioni in nostro possesso sia il seguente. Il sofista Antifonte (a prescindere che sia a sua volta da identificare con il retore di Ramnunte, il quale comunque menziona solo di sfuggita l’attore nel discorso Sul coreuta e nelle Tetralogie) non è identico al tragediografo di Sicilia. Il motivo è il fatto che l’area geografica in cui operò fu appunto la Magna Grecia. (A riprova di ciò, basta citare la conversazione che Senofonte riferisce nei Memorabili tra il sofista e Socrate, che sappiamo non lasciò quasi mai Atene, se non per andare in guerra). Tuttavia, ciò non preclude comunque che Antifonte sofista potesse aver coltivato in gioventù il teatro e la sua techne tes alupias. In fondo, sebbene non abbiamo resti di tragedie o poesie, le fonti antiche riconoscono come egli ricorresse nei suoi discorsi al linguaggio poetico, che poteva aver benissimo acquisito componendo direttamente opere tragiche o poetiche. Quanto al fatto che alcune fonti associano l’Antifonte che praticò la techne tes alupias al tragediografo che operò presso Dionisio, si potrebbe semplicemente pensare a una confusione dei testimoni. Del resto, non tutte le fonti biografiche sul sofista autore di tragedie menzionano il suo legame col tiranno. Mentre un altro testo (= un’anonima Vita di Antifonte) dice che il primo fu tragediografo dopo aver tentato la techne tes alupias. La discordia tra i vari testimoni potrebbe davvero dipendere da una confusione tra Antifonte di Sicilia e l’Antifonte sofista, dovuta al fatto che entrambi scrissero tragedie.

Chiarita la mia posizione intorno a questo problema, si può passare a valutare l’informazione circa la techne tes alupias. Di nuovo, a prescindere che quest’ultima fu coltivata in contemporanea all’attività di drammaturgo (come riporta la maggior parte delle fonti), o che fu praticata dopo di questa (come dice l’anonima Vita di Antifonte), una cosa resta abbastanza sicura. Le sue orazioni dovevano essere discorsi “recitati” davanti a un pubblico. Le fonti ci dicono, infatti, che il sofista cercava le cause della tristezza dei suoi interlocutori e, dopo averle ascoltate, tentava una cura adeguata. Il legame di tali orazioni con il teatro e forse anche la loro diretta dipendenza da questo possono essere rinforzati, peraltro, notando che anche nelle tragedie di Euripide troviamo qualcosa di assimilabile alla techne tes alupias. Un esempio è la conversazione tra Oreste e Elettra nell’omonima Elettra, in cui il fratello cerca di liberare la sorella dal sentimento della tristezza attraverso alcuni discorsi.

Purtroppo, nessuno dei frammenti di Antifonte sofista che ci è giunto è mai indicato dalle fonti antiche come un esempio o un rimasuglio di orazione recitata secondo la techne tes alupias. Tuttavia, non andremmo forse troppo lontani immaginando che esso poteva avere una forma molto simile a quella che incontriamo nel discorso Sulla concordia. Sappiamo, infatti, che quest’opera conteneva immagini poetiche o “spettacolari”, come quella del portatore di fiaccola e della pedina di scacchi, per invitare l’ascoltatore o lettore a prendere consapevolezza del carattere vacuo, breve, sofferente e soprattutto irrevocabile delle azioni compiute in vita. Tale invito potrebbe essere interpretato, a sua volta, come un modo per porre una distanza critica rispetto alle proprie disgrazie e per non prenderle troppo sul serio, ossia appunto come un modo per bandire la tristezza. O ancora, il Sulla concordia conteneva racconti che potevano indurre a non preoccuparsi troppo dei propri mali, come quello sull’avaro spronato da un suo conoscente a sotterrare una roccia nel posto in cui aveva nascosto del denaro che gli era stato rubato: in fondo, egli non l’aveva mai usato e non prevedeva di usarlo prima di subire il furto, dunque di fatto non ha perso nulla. Tutte queste immagini e storie potevano essere, insomma, un retaggio della techne tes alupias, anche se una conferma decisiva in tal senso non è offerta dalle conoscenze in nostro possesso.

Spingersi oltre su questo tema così ingarbugliato facendo altre ipotesi e congetture è troppo rischioso. Mi accontento, pertanto, di concludere che è plausibile immaginare Antifonte come un sofista che, almeno in gioventù, fu esperto scrittore di tragedie e usò l’arte della recitazione per curare la tristezza di altri esseri umani. Per il resto, quand’anche questa ipotesi dovesse poi rivelarsi falsa a un più scrupoloso esame, almeno essa potrebbe indicare agli artisti di oggi una direzione al tempo stessa poetica e terapeutica del loro lavoro. Recitare è un atto politico, se l’aggettivo “politico” può appunto essere usato per riferirsi al tentativo dell’artista di eliminare la tristezza o altre passioni negative dalle deboli ed effimere menti umane.

Enrico Piergiacomi

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Ma colui che aveva organizzato tutta la congiura nel modo che portò a questo risultato e che se n’era occupato da più tempo era Antifonte 1, uomo che per le sue qualità non era inferiore a nessuno degli Ateniesi del suo tempo, e il più abile nel concepire un’idea e nell’esprimere ciò che aveva pensato; non si presentava di propria volontà all’assemblea né ad alcun altro dibattito, ma era considerato con sospetto dalle masse per la sua fama di eloquenza; tuttavia egli era l’uomo che assolutamente più di ogni altro poteva aiutare chi, tra quelli che discutevano in tribunale o nell’assemblea, gli chiedesse un consiglio. E quando avvenne il cambiamento che ristabilì la democrazia, e in seguito quelli del governo dei Quattrocento, rovesciato, furono trattati severamente dal popolo e messi sotto processo, egli stesso, accusato proprio di questo fatto, di aver cioè collaborato alla costituzione dell’oligarchia, fece chiaramente la miglior difesa contro un’accusa capitale, che ci sia stata fino ai miei tempi (Tucidide, Storie, libro VIII, cap. 68, §§ 1-2 = Antifonte di Ramnunte, T11.2 Morrison; trad. Guido Donini)

E quando stiamo per essere visti e per agire in pubblico di fronte a testimoni, siamo maggiormente portati a vergognarci. Perciò anche il poeta Antifonte, stando per essere ucciso a bastonate per ordine di Dionigi e vedendo quelli che dovevano morire con lui coprirsi il viso passando attraverso le porte, disse: «Perché vi coprite? Forse che uno di costoro domani potrà vedervi!» (Aristotele, Retorica, libro II, 1385a8-13 = Antifonte di Sicilia, T1 Nauck/Snell; trad. Armando Plebe)

Si dice che [Antifonte] abbia composto delle tragedie, parte da sé, parte insieme col tiranno Dionisio. Mentre si dedicava alla poesia, compose anche «un’arte dell’assenza di tristezza», cioè una cura come quelle che i medici prescrivono agli ammalati; messo su un ambulatorio a Corinto accosto alla piazza, bandi che egli riusciva con le parole a curare gli afflitti, e, sentite le cause del male, consolava i sofferenti. Ma ritenendo poi quest’arte non degna di lui, si volse all’arte retorica (Pseudo-Plutarco, Vita dei Dieci Oratori, passo 833C5-D2 = Antifonte sofista, T6a Pendrick; trad. Maria Timpanaro Cardini, modificata)

Mentre era giovane si tenne lontano dalla politica e aprì un ambulatorio a Corinto, vicino alla piazza, per ricevere alcuni ascoltatori, e mise un’insegna fuori in cui dichiarava che aveva il potere di liberare dalla tristezza. Ma poiché Antifonte era Avido e non guadagnava abbastanza da tale attività, si mise a scrivere tragedie. Abbandonò però anche questo lavoro e si volse alla retorica (Anonimo, Vita di Antifonte §§ 5-7 = Antifonte sofista, T6b Pendrick; trad. mia)

Antifonte, abilissimo nell’arte del persuadere, e soprannominato Nestore perché riusciva a convincere a tutto quanto egli dicesse, dava pubblicamente delle lezioni sull’arte di sopprimere la tristezza, sostenendo che nessuno poteva nominare un dolore così terribile, che egli non riuscisse a eliminarlo dalla sua coscienza (libro I, cap. 15 = Antifonte sofista, T6d Pendrick; trad. Maria Timpanaro Cardini, modificata)

Vale la pena che di lui [Socrate] non si tralascino anche le dispute eh’ egli fece col sofista Antifonte. Volendo una volta Antifonte alienargli l’animo dei discepoli, accostatosi a Socrate, presenti quelli, cosi gli disse: «Socrate, io credevo che i filosofi dovessero essere più felici degli altri; ma tu, mi perché dalla filosofia hai ricavato tutto il contrario. Perché tu vivi in tal modo, quale neppure uno schiavo, se fosse mantenuto cosi dal padrone, accetterebbe; mangi e bevi i più vili cibi e bevande, e porti un vestito non solo vile, ma sempre lo stesso d’estate e d’inverno, e stai sempre scalzo e senza tunica. Di più, non accetti denaro, il quale non solo rallegra chi l’acquista, ma fa anche si che chi lo possiede viva più liberamente e comodamente. Se dunque, come i maestri di qualsiasi attività rendono gli scolari imitatori loro, cosi renderai anche tu i tuoi discepoli, credi pure che tu sei il maestro della miseria (Senofonte, Memorabili, libro V, cap. 6, §§ 1-3 = Antifonte sofista, T1 Pendrick; trad. Maria Timpanaro Cardini)

Quando fui eletto corego per le Targèlie ed ebbi in sorte Pàntacle come istruttore e la tribù Cecròpide oltre alla mia, adempivo il mio ufficio nel modo migliore e più giusto che potessi. In primo luogo sistemai la scuola nella parte più adatta della mia casa, la stessa che avevo adibita a questo fine quando ero stato corego per le Dionisie. Poi formai il coro come meglio potevo, senza multare nessuno, senza strappare pegni a forza, senza farmi nessun nemico, ma col massimo gradimento e la massima convenienza delle due parti io ordinavo e chiedevo e i genitori m’inviavano i figli di buona voglia e con piacere. (…) Oltre a Fanòstrato nominai due altri, Aminia della tribù Erettèide, che i suoi compagni di tribù avevano designato ogni volta per l’allestimento e l’istruzione dei cori – godeva fama di persona onesta –, e il secondo della tribù Cecròpide, che regolarmente allestiva il coro della sua tribù; e ad essi aggiunsi come quarto Filippo, che aveva l’incarico di fare gli acquisti e le spese su indicazione dell’istruttore o dei suoi colleghi, perché i ragazzi fossero preparati (Antifonte di Ramnunte, Sul coreuta §§ 11-13)

A costoro, che meritano questo trattamento, rifiutatevi di prestare fede. Quanto a me, capirete dalle mie azioni precedenti che non ordisco delitti e non bramo la roba degli altri ma, al contrario, ho versato molte e forti contribuzioni, spesso sono stato trierarca, ho allestito cori splendidamente, ho soccorso con prestiti molti amici e per molti ho pagato forti cauzioni… (Antifonte di Ramnunte, Tetralogie, tetralogia I, orazione 2, § 12)

Oreste: Ma continua a parlare, affinché io sappia e possa riferire a tuo fratello notizie non gradevoli, ma che deve ascoltare.

(…) Elettra: Parlerò, se è necessario: bisogna riferire a chi ci è caro le gravi sciagure che si sono abbattute su di me e su mio padre (Euripide, Elettra, vv. 292-293 e 300-301)

La vita assomiglia a un’effimera vigilia, la lunghezza della vita alla durata, per così dire, d’un giorno; nel quale, appena dato uno sguardo alla luce, lasciamo la consegna agli altri che sopravverranno (Stobeo, Florilegio, libro IV, cap. 34, § 63 = Antifonte sofista, Sulla concordia, fr. 50 Pendrick; trad. Maria Timpanaro Cardini)

Mirabilmente si presta ad accusa ogni forma di vita, mio caro, poiché nessuna ha nulla di elevato, o di grande o di venerando: ma tutto vi è meschino, debole, transitorio, e mescolato a grandi dolori (Stobeo, Florilegio, libro IV, cap. 34, § 56 = Antifonte sofista, Sulla concordia, fr. 51 Pendrick; trad. Maria Timpanaro Cardini)

Antifonte nel libro Sulla concordia: «Non ci è concesso ricollocare la vita come una pedina», volendo dire che non si può rivivere da capo, anche se ci si pente della vita precedente. L’immagine è tolta dal gioco del tavoliere (Arpocrazione, Lessico, voce ἀναθέσθαι [“ricollocare”] = Antifonte sofista, Sulla concordia, fr. 52 Pendrick; trad. Maria Timpanaro Cardini, modificata)

Si racconta che una volta un uomo, avendo visto un altr’uomo che portava con sé molto denaro, lo pregò di prestarglielo ad interesse; ma quello rifiutò per diffidenza e poca generosità verso gli altri, e tenutosi il suo denaro, lo mise in serbo non so dove; del che accortosi un tale, glielo rubò. Passato del tempo, va il depositante del denaro e non lo trova più. Desolato della disgrazia, soprattutto perché non l’aveva prestato a colui che glielo aveva chiesto, la qual cosa non solo gliel’avrebbe serbato intatto, ma ne avrebbe fruttato dell’altro, s’imbatte nello stesso uomo di allora, e con lui deplora la sua sventura, riconoscendo d’aver sbagliato, e che ora si pente di non avergli fatto un piacere, anzi d’essere stato scortese con lui; poiché ora il suo denaro è irrimediabilmente perduto. L’altro allora gli dice di non preoccuparsi, ma di riporre una pietra nello stesso luogo e cosi di continuare a credere che il denaro sia sempre suo, e non sia affatto perduto: “Tanto, neppure quand’era tuo tu te ne servivi in alcun modo, sicché anche ora puoi far finta di non aver nulla perduto. Perché ciò di cui non abbiamo fatto uso né lo faremo, o ci sia o non ci sia, non ci fa né caldo né freddo. E quando la divinità non vuole colmare completamente di doni un uomo, gli dà la ricchezza, ma lo fa povero di senno; togliendogli questo, lo fa restar privo dell’una e dell’altro” (Stobeo, Florilegio, libro III, cap. 16, § 30 = Antifonte sofista, Sulla concordia, fr. 54 Pendrick; trad. Maria Timpanaro Cardini)

[La bibliografia usata – per le raccolte dei testi e le traduzioni – è la seguente:

1) Angelo Tonelli (a cura di), Euripide: Le tragedie, Venezia, Marsilio, 2007;

2) Armando Plebe, Manara Valgimigli (a cura di), Aristotele: Retorica, Poetica, Roma-Bari, Laterza, 1972;

3) Augustus Nauck, Bruno Snell (eds.), Tragicorum graecorum fragmenta, Hildesheim, Olms, 1964;

4) Gerard Pendrick (ed.), Antiphon the Sophist: The Fragments, Cambridge, Cambridge University Press, 2002;

5) Guido Donini (a cura di), Tucidide: Storie. Volume secondo, Torino, UTET, 1982;

6) John Sinclair Morrison, Antiphon, in Rosamond Sprague (ed.), The Older Sophists, Indianapolis/Cambridge, Hackett, 1972, pp. 106-240;

7) Maria Timpanaro Cardini, Antifonte sofista, in Gabriele Giannantoni (a cura di), I Presocratici: Testimonianze e frammenti, Roma-Bari, Laterza, 1969, pp. 982-1008

Per approfondire l’uso della techne tes alupias in Euripide, rimando a Francesca Bardi, Il dialogo terapeutico in Euripide, in «Materiali e discussioni per l’analisi dei testi classici», 50 (2003), pp. 81-113]

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Enrico Piergiacomi
Enrico Piergiacomi
Enrico Piergiacomi è cultore di storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Trento e ricercatore presso il Centro per le Scienze Religiose della Fondazione Bruno Kessler di Trento. Studioso di filosofia antica, della sua ricezione nel pensiero della prima età moderna e di teatro, è specialista del pensiero teologico e delle sue ricadute morali. Supervisiona il "Laboratorio Teatrale" dell’Università degli Studi di Trento e cura la rubrica "Teatrosofia" (https://www.teatroecritica.net/tag/teatrosofia/) con "Teatro e Critica". Dal 2016, frequenta il Libero Gruppo di Studio d’Arti Sceniche, coordinato da Claudio Morganti. È co-autore con la prof.ssa Sandra Pietrini di "Büchner, artista politico" (Università degli Studi di Trento, Trento 2015), autore di una "Storia delle antiche teologie atomiste" (Sapienza Università Editrice, Roma 2017), traduttore ed editor degli scritti epicurei del professor Phillip Mitsis dell'Università di New York-Abu Dhabi ("La libertà, il piacere, la morte. Studi sull'Epicureismo e la sua influenza", Roma, Carocci, 2018: "La teoria etica di Epicuro. I piaceri dell'invulnerabilità", Roma, L'Erma di Bretschneider, 2019). Dal 4 gennaio al 4 febbraio 2021, è borsista in residenza presso la Fondazione Bogliasco di Genova. Un suo profilo completo è consultabile sul portale: https://unitn.academia.edu/EnricoPiergiacomi

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