Al Teatro Metastasio di Prato inaugura la stagione Richard II diretto da Peter Stein e interpretato da Maddalena Crippa, ora a Roma al Teatro Nazionale. Recensione
È tuttora vivida nella memoria di chi scrive l’immagine conclusiva de Il ritorno a casa di Harold Pinter, diretto da Peter Stein nel 2013: quella di una magnetica Arianna Scommegna seduta su una lisa poltrona di pelle, circondata da un gruppo di uomini mediocri sui quali, grazie a una fatale commistione di fascinazione e devozione, ha saputo progressivamente conquistare un’autorità crescente. Con una coincidenza estetica, sorprendente e paradossale, la stessa sequenza compare oggi a metà del primo atto di Richard II: assisa su un trono non più metaforico, detentrice di una sovranità sancita dalle legge, Maddalena Crippa tesse con i membri della corte relazioni di ambigua sensualità. Lascive, le mani del monarca accarezzano i corpi giovani di Bushy, Bagot e Green: sudditi e alleati, forse anche amanti, i tre lo circondano con un rispetto intriso di erotismo, vittime di un sortilegio carnale consustanziale al potere.
Più che una citazione, o una mera sovrapposizione di ricordi all’interno della teatrografia cinquantennale del maestro tedesco, i due frammenti sembrano rivelare un medesimo e speculare afflato, seppur svolto all’interno di procedimenti scenici e universi drammaturgici profondamente diversi. L’indecifrabile ascesa di Ruth a un controllo pressoché assoluto dei membri della famiglia nel capolavoro del drammaturgo premio Nobel sembra qui riflettersi in un processo di disgregazione e caduta, di perdita di quella potestas garantita dalla corona, dal lignaggio, dal diritto. E tuttavia i nuclei incandescenti affrontati da Stein, nel tempo lungo tipico delle sue regie, sono ancora una volta l’inesausta dialettica tra servo e padrone, i dispositivi di affermazione e controllo del dominio, il linguaggio come veicolo di sopraffazione e seduzione. Se ne Il ritorno a casa questi nodi concettuali si traducevano nell’ambiguo ribaltamento di dinamiche familiari e quotidiane, oggi ‑ nel Richard II presentato a Prato come evento inaugurale della stagione del Teatro Metastasio ‑ costituiscono i centri nevralgici di un’ampia riflessione sulla relazione tra legalità e legittimità del potere.
È la stessa vicenda del dramma storico shakespeariano ‑ qui ridotta, dagli originali cinque magnificamente tradotti da Alessandro Serpieri, a due atti ‑ a condurre inesorabilmente lo spettatore a interrogarsi sul fondamento della statualità. Il processo di abdicazione di re Richard II ‑ seguito alla ribellione dei Pari d’Inghilterra fomentata da Bolingbroke, duca di Hereford, e terminato infine con la prigionia del re deposto nella Torre di Londra, poi assassinato ‑ è infatti occasione per indagare quanto la legge sia una validazione sufficiente della sovranità, o se essa non debba invece basarsi quasi esclusivamente sul consenso del popolo. Il tema, tra i più densi della filosofia politica moderna e contemporanea, ha però nella tragedia del 1595 una torsione prettamente linguistica: tra i pochi testi scritti in versi da Shakespeare, Richard II sembra contraddire la paradigmatica equazione tra “parola” e “azione” caratteristica del teatro del Bardo, a tutto vantaggio della prima. Le interazioni asimmetriche tra il re e la nobiltà inglese, le dinamiche orizzontali tra gli stessi nobili, finanche i frammenti di conversazioni tra padri e figli, sembrano essere mere espressioni rituali di quella liturgia stantia attraverso la quale il potere cerca una propria, impossibile, epifania.
La regia di Stein, sulla scia di quanto operato ne Il ritorno a casa, amplifica sino al parossismo la vacua cerimonia degli omaggi e degli ossequi, esasperando con inattesi risultati comici tanto l’edificio di stilemi oratori quanto l’ordinamento di gestualità che sembrano ingabbiare i personaggi della tragedia in un ampolloso artificio. Esemplare, in questo senso, la giostra tra Bolingbroke e Mowbray, i due Pari che si accusano a vicenda dell’improvvisa morte del duca di Gloucester e che con la contesa danno origine al dramma: nella scena essenziale disegnata da Ferdinand Woegerbauer ‑ dominata da imponenti pannelli nei toni neutri del grigio e del nero, sui quali le luci di Roberto Innocenti modulano colori accesi, spaziando dal rosso all’oro ‑ il duello è una coreografia di movenze spezzate, una danza di armature e lunghe aste che si fronteggiano prima di colpire l’avversario. Algido e inaccessibile, il sovrano assiste al combattimento dall’alto, sporgendosi al di sopra della scenografia, e da lì getta nella lizza il bastone del comando, simbolo di un potere in via di implosione che replica se stesso nell’affettazione dei giuramenti e delle posizioni. Proprio la prossemica sembra acquisire nella lettura di Stein un ruolo preminente, tale da trasformare il palcoscenico in una tela sulla quale dipingere plastiche composizioni di corpi: il letto di Gaunt è il punto di fuga di una prospettiva di volti e braccia, disposti intorno al capezzale come in una pietà laica; la corte si raccoglie a semicerchio intorno al sovrano ‑ sia questi Richard II o Bolingbroke, nei primi istanti del secondo atto ‑ ricordando un corteo di santi e martiri. È all’interno di questa teoria di potenti che emerge in maniera netta il distacco ironico con cui Stein ne osserva le dinamiche, evidenziando gli aspetti surreali sottesi al vuoto protocollo delle sfide: il reiterato gesto con cui i nobili gettano a terra i propri guanti, pegno con cui annunciare i duelli, conduce così a un climax farsesco, sorprendentemente innocuo.
Anche le interpretazioni sembrano amplificare la vana ars dicendi del potere, in una messa in luce degli aspetti verbali attraverso cui si attuano i meccanismi del dominio: l’ensemble ‑ nel quale spicca Paolo Graziosi nel ruolo di Gaunt ‑ cesella il dettato shakesperiano ricorrendo ad appoggiature posticce, modulando intensità funzionali alla retorica, giustapponendo pause artefatte a una cadenza già dilatata, interrotta soltanto nei cambi scena da brevissimi inserti sonori. La voce di Maddalena Crippa conduce con maestria lo spettatore nelle pieghe dell’animo del sovrano, alternando toni da tronfio condottiero a sfumature dolenti quando, contemplando il proprio riflesso nello specchio, rinuncia al trono. Questo soliloquio ‑ quasi pirandelliano nella volontà di indagare l’identità di un uomo e la crisi che la perdita di un ruolo, a essa consustanziale, sembra comportare ‑ attraversa così la natura duplice del sovrano, al contempo singolo individuo e simbolo di un potere universale. E tuttavia proprio questo certosino lavoro attorale sembra inficiare la ricezione dello spettacolo, sfidando l’attenzione dello spettatore a riconoscere al di sotto del ritmo piano e monotono la millimetrica cura posta nel restituire il testo nella sua verità. Una verità che parla con la lingua distante, quasi glaciale, con cui il potere si rivolge alla proprie ‑ sempre diverse, sempre uguali ‑ platee.
Alessandro Iachino
Teatro Metastasio, Prato ‑ ottobre 2017
RICHARD II
di William Shakespeare
traduzione Alessandro Serpieri
riduzione e regia Peter Stein
con Maddalena Crippa, Alessandro Averone, Gianluigi Fogacci, Paolo Graziosi, Andrea Nicolini, Graziano Piazza, Almerica Schiavo, Giovanni Visentin, Marco De Gaudio, Vincenzo Giordano, Luca Iervolino, Giovanni Longhin, Michele Maccaroni, Domenico Macrì, Laurence Mazzoni
scene Ferdinand Woegerbauer
costumi Anna Maria Heinreich
luci Roberto Innocenti
assistente alla regia Carlo Bellamio
produzione Teatro Metastasio di Prato
con il contributo di Fondazione Cassa di Risparmio di Prato