Si può recitare senza necessariamente far teatro? I trattatisti della retorica antica avrebbero dato una risposta affermativa a tale domanda. Tra questi, troviamo anche l’autore dei quattro libri della Retorica a Erennio. Il testo fu per lungo tempo attribuito a Cicerone o, più recentemente, al retore Cornificio citato in Quintiliano. Oggi gli studiosi sono perlopiù inclini a sospendere il giudizio sulla questione dell’identità dell’autore e a lasciarlo anonimo.
Quel che si può sapere con relativa sicurezza è che la Retorica a Erennio è un testo imbevuto di cultura filosofica. L’autore afferma di essere dedito alla filosofia nell’incipit del libro I e nel finale del IV. In questi due stessi brani, peraltro, egli fa anche delle dichiarazioni programmatiche su quello che dovrebbe essere la recitazione. L’incipit del libro I ne fa la quinta delle parti della retorica (che includono invenzione, disposizione, elocuzione e memoria), ossia quella che serve a regolare con eleganza la voce, il volto e il gesto. Il finale del IV ripete il medesimo concetto, salvo aggiungere che la recitazione si distingue in più per la sua «gravità».
È tuttavia solo nei §§ 19-27 del libro III che la trattazione di questa quinta parte della retorica trova una sua esposizione sistematica e compiuta. L’autore comincia col dire che nessuna delle cinque parti può adire ad ergersi al di sopra delle altre. Subito dopo, tuttavia, egli presenta un interessante esperimento mentale, che serve a mostrare che la recitazione non va per questo trascurata. Se immaginassimo un’orazione ricca di invenzioni, perfetta quanto all’elocuzione, ben disposta in ogni sua parte e in cui la memoria del retore non ha alcun cedimento, ma che al tempo stesso risulta carente sotto l’aspetto recitativo, che essa non varrebbe per questo di più di un’orazione che è ben recitata e manca di questi altri quattro elementi. Entrambi i discorsi sono pessimi e andrebbero abbandonati. Non si deve recitare male un’orazione perfetta quanto ai contenuti, all’ornamento e alla disposizione, né recitarne bene un’altra che non dice nulla ed è lacunosa in tutte le altre parti. L’oratore deve apprendere a usare l’arte della retorica nella sua interezza.
Segue quindi un’ampia esposizione tecnica di come andrebbero educati la voce e il corpo, nonché quali siano gli stili recitativi, che non è possibile esaminare nel dettaglio. I punti più importanti a livello teorico che basta sottolineare è che in questa sezione l’autore della Retorica a Erennio sottolinea: 1) che nessuno prima di lui si è occupato nel dettaglio del tema; 2) che voce e corpo trovano la loro massima efficacia (o sono ben conservati) soprattutto dall’esercizio, più che dal talento innato; 3) che la natura ha fatto sì che la voce ben conservata attraverso vari espedienti (e.g. fare lunghe pause, non urlare, non conservare lo stesso tono) riesca anche più dolce alle orecchie degli ascoltatori, il che implica che il miglior modo per coinvolgere un uditorio è recitare nella maniera meno artefatta e più “naturale” possibile; 4) che il retore giungerà a emozionare l’uditorio senza essere affetto dalla passione, ma solo dando l’impressione (con la voce e col corpo) di esserlo.
Più avanti nel libro IV, l’autore della Retorica ad Erennio aggiungerà un’altra proprietà positiva della recitazione. Si tratta della possibilità che essa concede di parlare su uno stesso argomento in modo sempre diverso, guadagnando così alla causa dell’oratore la varietà dell’eloquio e la padronanza completa dell’uditorio.
Si potrebbe ritenere, alla luce di queste considerazioni, che la Retorica a Erennio lodi il teatro, attraverso il riconoscimento dell’importanza della recitazione. Il trattato definisce, in fondo, nel cap. 8.3 del libro I, il tipo di esposizione che presentano la tragedia (che si basa sui miti) e la commedia (che, di contro, nasce dall’immaginazione dei poeti comici). In realtà, due passi del trattato ci mostrano con chiarezza che egli intenda distinguere l’oratore dall’attore (che fu un’operazione già tentata dal Cicerone autentico), decretando l’ovvia preminenza e superiorità del primo sul secondo. Nel parlare dello stile recitativo discorsivo («eloquio dimesso e prossimo al parlare quotidiano»), che va recitato «a piena gola», l’autore sostiene che bisogna evitare di scadere «dalla maniera oratoria a quella da tragedia», ossia presumibilmente alla recitazione enfatica e ad altissima voce propria degli attori tragici antichi. Nel descrivere invece il movimento del corpo che risulta convincente per esprimere le idee prospettate dall’orazione, egli sostiene che occorre evitare gli eccessi in cui incorrono gli «istrioni», che recitano con «grazia appariscente» o «sguaiataggine». Questi due passi mostrano, insomma, che la recitazione è propria sia degli oratori che degli attori e che solo i primi hanno appreso a praticarla bene. Se il teatro implica allora la pratica del recitare, non per questo la pratica del recitare implica la presenza del teatro. Poiché vi può essere recitazione efficace che non incorre negli stessi vizi tipici della scena.
Tale conclusione negativa può essere tuttavia rovesciata in positivo. La Retorica ad Erennio ha il merito di mostrare che recitazione e teatro sono in sé cose diverse. L’una è un mezzo espressivo che può essere usata da differenti categorie professionali, come appunto i retori e gli attori. Il teatro invece – questo la Retorica ad Erennio non lo coglie – è poesia, che poco ha a che fare con l’esposizione di concetti in discorsi chiari e appassionanti. Esso è dunque qualcosa di più della recitazione, anche se sembra innegabile che non possa essere evocato senza attori sinceri che recitano.
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Sebbene, impedito dalle faccende domestiche 1, possa a inala pena dedicar sufficiente tempo allo studio, e quello pure che mi è dato di agio, più volentieri sia solito impiegarlo nella filosofia, tuttavia il tuo desiderio, Gaio Erennio, mi ha spinto a trattare l’arte oratoria, perché non pensassi, o che non avessi voluto compiacerti, o che avessi scansato la fatica ([Anonimo], Retorica ad Erennio, libro I, cap. 1, § 1)
Ché per l’amicizia – cui costituisce origine la parentela e la rinsalderà del resto la dottrina filosofica 174 -, e con piacere ci esercitiamo insieme; e non disperiamo di noi, per la ragione che anche ci siamo portati avanti discretamente – e vi sono altre cose migliori, alle quali molto più intensamente aspiriamo nella vita, onde, ancorché non avessimo raggiunto nel parlare il grado che vogliamo, rimarrebbe poco a desiderare per una piena perfezione di vita – ; e ne abbiamo la strada che seguire, perché in questi libri non è stato trascurato nulla della dottrina retorica. Si è dimostrato infatti come bisogna trovare le idee per tutti i generi di cause; si è detto in che modo conviene disporre; si è insegnato in qual maniera bisogna porgere; si è dato precetto con qual metodo possiamo ricordare; si è dimostrato con quali modi si procura una perfetta elocuzione. Se ci atteniamo a questi precetti, ingegnosamente e agevolmente troveremo, disporremo distintamente e ordinatamente, porgeremo con gravità ed eleganza, ricorderemo fermamente e durevolmente, e parleremo ornatamente e soavemente. Dunque, nell’arte retorica non v’è nulla d’altro. Raggiungeremo tutti questi risultati, se seguiremo le regole dell’insegnamento con la diligenza dell’esercizio (Ibidem, libro I, cap. 56, § 69)
Bisogna dunque che l’oratore possieda invenzione, disposizione, elocuzione, memoria, recitazione. L’invenzione è il travamento degli argomenti veri o verisimili che rendano la causa persuasiva. La disposizione è l’ordine e la distribuzione delle idee, la quale dimostra quel che va posto in ciascun punto. L’elocuzione è l’adattamento delle parole appropriate e delle idee all’invenzione. La memoria è la ferma acquisizione nella mente delle idee e delle parole, e della disposizione [di esse]. La recitazione è il regolar con eleganza la voce, il volto, il gesto. Tutte queste doti potremo raggiungere con tre mezzi: arte, imitazione, esercizio (ibidem, libro I, cap. 2, § 3)
Molti hanno sostenuto che la recitazione sia sommamente utile all’oratore e che valga moltissimo a persuadere. Io per me non direi senza esitanza che una delle cinque parti possa moltissimo, né francamente confermerei che sia eccelsamente grande il giovamento nella recitazione. Infatti, appropriate invenzioni ed eleganti elocuzioni, e disposizioni delle parti della causa secondo arte, e una memoria fedele di tutti questi elementi, non potranno valere senza il porgere di più che il porgere da solo senza queste qualità. Per cui, e perché nessuno di questo tema ha trattato diligentemente – tutti infatti hanno ritenuto che a stento si potrebbe scrivere con evidenza della voce e del volto e del gesto, attenendo queste cose ai nostri sensi -, e perché con gran premura questa parte ci si deve procurare per parlare, non pare che tutta la materia vada considerata trascuratamente (ibidem, libro III, cap. 11, § 19)
Quante volte alla natura non si deve gratitudine proprio meritamente ! Come accade in questo riguardo: quel che diciamo, infatti, che giova per serbare la voce, riguarda pure la dolcezza della dizione, sicché, quel che giova alla nostra voce, riesce pure gradito al desiderio dell’ascoltatore (ibidem, libro III, cap. 12, § 21)
Diremo la stessa cosa, non allo stesso modo – ché questo propriamente sarebbe rintronare l’ascoltatore e non rifinire il tema – ma in diversa maniera. Muteremo in tre modi: con le parole, con la recitazione, con la modulazione. (…) Con la recitazione muteremo se, ora nel tono conversevole, ora in quello veemente, ora in questa ora in quella forma di voce e di gesto, mutando le stesse cose con le parole, avremo cambiato più accentuatamente anche la dizione. Questo né si potrebbe scrivere proprio adeguatamente né è poco evidente ; perciò non abbisogna di esempio (ibidem, libro IV, cap. 42, § 54-55)
Il medesimo pensiero quindi in questi tre modi muteremo nel parlare: con le parole, col proferire, con la modulazione; ma con la modulazione in due forme: col dialogismo e coll’infervoramento. (ibidem, cap. 43, § 56)
Quello che è basato sull’esposizione di fatti ha tre parti: mito, storia, immaginazione. Il mito è quello che contiene fatti né veri né verisimili, come sono quelli che sono stati trasmessi dalle tragedie. La storia è un fatto accaduto, ma lontano dalla nostra memoria. L’immaginazione è un fatto inventato, che tuttavia sarebbe potuto accadere, come i soggetti delle commedie. Il tipo di narrazione che è basato sulle persone, deve presentare vivacità di linguaggio, diversità di caratteri, severità dolcezza, speranza timore, sospetto rimpianto, finzione, compassione, variazioni di casi, mutamento di fortuna, inatteso disagio, improvvisa gioia, lieto fine degli eventi (ibidem, libro I, cap. 8, § 13)
Il tono discorsivo è eloquio dimesso e prossimo al parlare quotidiano. (…) Il tono discorsivo, quando lo si tiene nella compostezza, converrà emettere la voce, quanto più calma e dimessa possibile, a piena gola; in modo tuttavia da non trascendere dalla maniera oratoria a quella da tragedia (ibidem, libro III, capp. 13-14, §§ 23-24)
Il movimento del corpo è un certo regolare il gesto e il volto, che rende più convincenti le idee che si esprimono; conviene dunque che nel volto si esprima verecondia e austerità, che nel gesto non sia né grazia appariscente né sguaiataggine, per non parere che siamo istrioni o attori (ibidem, libro III, cap. 15, § 26)
[Le citazioni sono tratte da Filippo Cancelli (a cura di), [Marco Tullio Cicerone]: La retorica a Gaio Erennio, Milano, Mondadori, 1991]