Appena una settimana fa Simone Cristicchi è stato nominato direttore del Teatro Stabile d’Abruzzo, lo abbiamo raggiunto al telefono per parlare delle sue idee nella futura direzione dell’ente.
A teatro ci guardiamo come in uno specchio, e quando capita di incontrarne uno magico, oltre a guardare noi stessi riusciamo a intravedere qualcos’altro. Altre volte, più rare, questo “altro” si rivela più di un abbaglio. La conversazione con Simone Cristicchi ha l’andamento dolce eppure determinato di chi conosce bene le fessure che uno specchio nasconde.
Ti conosciamo come cantautore, poi attore, regista e autore. Ora sei direttore del Teatro Stabile d’Abruzzo. Come inciderà questo percorso sulle scelte che caratterizzeranno la tua direzione artistica?
Già da due anni sono direttore artistico di un Festival – Narrastorie – ad Arcidosso (in provincia di Grosseto, ndr). Per me è stato un vero laboratorio dove ho potuto sperimentare il mio gusto e quello del pubblico. Abbiamo lavorato soprattutto sulla narrazione: semplicemente l’attore che con la sua bravura e una bella storia, cattura l’attenzione del pubblico. La mia intenzione è dare questa impronta, tornare a un teatro che sia proponibile in molteplici contesti, anche al di fuori della sala teatrale vera e propria. Questo tipo di eventi “a centimetri zero” ha attratto migliaia di persone verso il festival, e credo possa funzionare anche per un pubblico più vasto come quello dell’Aquila. Perché quando c’è un vero talento – anche se poco conosciuto dal grande pubblico – il sortilegio del teatro rimane vivo, anche semplicemente nel raccontare una storia, con poco altro attorno. Senza nulla togliere alle produzioni imponenti e costose, in un tempo dove il virtuale è diventato la realtà, dobbiamo tornare all’essenziale, a innamorarci di questa magia senza tempo, che è l’essenza del teatro.
Mi sembra si vada oltre la logica dei grandi nomi…
Esatto, a me piacerebbe puntare su questa scuderia, con artisti che sono emersi per bravura, e che ho avuto il piacere di scegliere per Narrastorie. Sono talenti straordinari, anche se poco conosciuti, ma a cui vorrei dare un’opportunità di crescita – anche dal punto di vista produttivo. Credo che il pubblico resterà colpito ed emozionato, quanto lo sono stato io nel conoscerli. Da TSA, mi piacerebbe chiamarlo “Trattamento Sanitario per Anime”. È dell’anima del pubblico che dobbiamo prenderci cura!
A seguito di queste esperienza come riesci a immaginarti all’interno di un ente teatrale stabile?
Pur avendo una mia idea di “teatro”, a L’Aquila mi piacerebbe conoscere a fondo tutto il contesto, tenendo presente e rispettando tutte le forze in campo. Voglio rendere onore a questo incarico così prestigioso, e immagino che chi ha scelto il mio nome tra tanti, si aspetti che io porti avanti il mio punto di vista, la mia visione personale, che in questo caso è soprattutto “con-divisione”.
Il mio motto è “Dal vivavoce alla voceviva”. È un’inversione di tendenza, che non è nostalgia, ma una visione del futuro: la vivavoce si può sentire dappertutto col telefonino, mentre il suono di una voce che ha una storia da raccontare, ha un valore universale che arriva al cuore.
È la magia irripetibile del qui ed ora, che dobbiamo recuperare. A L’Aquila come in tutta Italia.
Da grande appassionato di paesi e borghi abbandonati, spesso sono venuto in Abruzzo animato da questo interesse. Ho immaginato il mio incarico di direttore, legato anche a questa mia passione per le bellezze nascoste; mi piacerebbe che il Teatro Stabile d’Abruzzo riuscisse a ramificarsi anche nei luoghi rimasti ormai silenziosi. Riportare la parola dove regna il silenzio, potrebbe essere un bell’esperimento. Una bella sfida anche questa.
Spero ci sarà curiosità e interesse per le mie scelte artistiche già dal mio primo calendario di eventi. Come direttore artistico, ho avviato da tempo una ricerca che spero possa incontrare il favore del pubblico, senza avere tuttavia la pretesa di accontentare tutti. Non per snobberia, ma per sentirmi fedele al mio intuito. Spesso mi rendo conto – con i miei spettacoli che fanno parte di molti cartelloni in tutta Italia – che i programmi dei teatri non hanno una vera visione d’insieme, ma mirano a tutti i costi ad accontentare i gusti di un pubblico variegato. Come se il teatro dovesse essere un’appendice del tubo catodico.
Il comico di turno, il fenomeno televisivo o quello conosciuto solo per le fiction… Non voglio criticare questo approccio e capisco le esigenze di molti direttori, ma io verrei meno alla mia naturale attitudine se dovessi mettere tutti d’accordo. Anche a costo di fallire nell’impresa, preferisco dare una mia visione del teatro, tenendo fede a ciò che io reputo davvero “teatro”. Nel mio percorso di artista mi sono sempre affidato all’istinto, spesso senza pensare al marketing, ma con preziosi risultati. Sono superstizioso, quindi continuerò a seguire il mio istinto anche qui, prendendomi rischi e responsabilità.
La sfida più grande per me sarà avere una platea di giovani. Per questo mi piacerebbe fare incursioni fuori dal teatro, nelle strade, nelle piazze, all’improvviso: li chiamo “Attentati teatrali”, piccole performance improvvisate per studenti – e non solo, che siano capaci di attirare l’attenzione di chi non è abituato alle performance. Vorrei lavorare sul territorio per riconquistare la fiducia di un pubblico di giovani: io sono dalla loro parte, e credo che il teatro sia in debito nei loro confronti e debba in qualche modo rimediare. Anche io sono stato maltrattato da spettacoli noiosi e autoreferenziali.
C’è stato uno spettacolo che ha cambiato la tua vita di spettatore e artista?
Naturalmente Il racconto del Vajont di Marco Paolini, per me è stato una rivelazione. E poi ancora, a soli 14 anni, mia mamma ebbe la brillante idea di farmi assistere a uno spettacolo di Gigi Proietti: uno dei suoi cavalli di battaglia al Sistina di Roma (credo fosse A me gli occhi, please). Rimasi impressionato dalla potenza di un solo uomo in scena, e per tutta la vita ho coltivato questo piccolo sogno (con le dovute differenze). Poi nel 2010 ho debuttato con il mio primo monologo Li romani in Russia: è da lì che è iniziato il mio percorso, che tutt’ora mi porta in tutti i teatri d’Italia.
Una follia che è diventata realtà.
Doriana Legge