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Biancofango. Le diversità elettive

Biancofango in anteprima a Romaeuropa Festival 2017 con Io non ho mani che mi accarezzino il viso, al debutto al Teatro Elfo Puccini di Milano. Recensione

Biancofango
Ph. Piero Tauro

C’è una profondità che un uomo sa raggiungere solo se permette ai sentimenti altrui di albergare assieme ai propri, nel cuore di una palpitazione aritmica, in apparenza, ma che invece compensa diseguaglianze e si fa suono armonico, ordinato in una forma compenetrata. Accade, tale miracolo, per coloro che siano in grado di farsi attraversare come fossero veicolo di esperienze, di emozioni, di una ricchezza vasta e indefinita: gli attori, capaci di stare qui e altrove, in sé e in altri, oggi e in un tempo remoto, inaffidabile. Una vocazione, la loro, una missione di accoglienza perché sia possibile l’interpretazione, non già di un personaggio, ma del mondo, per tramite della propria qualità mimetica. Se ne porta il segno una scelta coraggiosa, quella di Biancofango, compagnia ormai decennale che accoglie la domanda sul concetto di rappresentazione e sull’appartenenza dei sentimenti esibiti, abissali, irredenti. Io non ho mani che mi accarezzino il viso, citazione da una raccolta del poeta David Maria Turoldo e di una sequenza fotografica di Mario Giacomelli, è ora – non uno spettacolo ma – teatro nella sua forma più intima, in anteprima al Teatro India per Romaeuropa Festival 2017 e al debutto al Teatro Elfo Puccini di Milano.

C’è una domanda, urgente e densa, posta ai due attori che saranno in scena e che presiede alla creazione artistica: quali parole appartenenti ai personaggi della storia letteraria teatrale risuonano nella propria intimità umana? Aida Talliente e Andrea Trapani scelgono, accolgono la domanda e la dispongono per la regia di Francesca Macrì lungo la porosità della propria cute esistenziale: Santa Giovanna dei Macelli di Brecht e Woyzeck di Büchner. L’affinità elettiva è quasi all’inverso, perché avvertita non senza i pericoli di rivelare una fragilità che saprebbe minare la riuscita della rappresentazione; è un rischio infame quello di perdere l’attore dentro il personaggio perché di esso afferma una radice, è un’empatia frastornata che disperde gli atomi di lucidità, sintetizzati dentro il contenitore fragile fatto in egual modo di violenza e di debolezza.

Biancofango
Ph. Piero Tauro

Il dialogo che nasce, ora fitto ora rado, tra i due attori, produce una frattura sempre più evidente tra le due entità, nello spazio che le luci perimetrali e gravi di Gianni Staropoli (qui intervistato) disegnano con l’ormai acclarata qualità poetica, capaci di liberare la tragicità di attore e personaggio in una contemporaneità sorprendente. Ecco che allora il testo vivo per evocazione non riesce a uscire di scena: ciò che risuona in Woyzeck è detto per bocca di Andrea (Trapani), ciò che appare di Giovanna è sull’espressione di Aida (Talliente), vittime dei personaggi ma colpevoli di parole ormai macchiate, sporcate dalla loro organica evidenza di uomini e donne nell’alterità della rappresentazione.

Biancofango si conferma come una tra le realtà più sensibili allo sviluppo di un linguaggio di attore che sia connaturato a una competenza drammaturgica; ma questa vocazione già manifesta nell’intero percorso creativo, da Fragile Show e In punta di piedi fino al più recente Porco Mondo, segna un cambiamento stilistico deciso, necessario: una sofferenza dolente e appuntita si mescola alle intenzioni registiche, rintracciando familiarità spiccate (e spesso dichiarate) con il teatro di Danio Manfredini; alle assonanze dolci si succedono dissonanze isterizzate, si rincorrono e si tolgono di volta in volta il campo, che si tratti di parole strappate alle bocche o di musica, dolce o persuasiva, che penetra fino ai più desolati angoli di una scena spoglia. Allo stesso modo lo spazio dipinto da Macrì e Staropoli, abitato dal suono di Umberto Fiore, vira da luminosità fredde a un calore vasto ma sospeso, seguendo le diramazioni indicate dai blocchi testuali che gli attori offrono e soffrono, di qua e di là dai personaggi. In un ambiente di questa natura, ad un tempo dimesso e rivoltoso, violato e violento, il senso di suono e parole nidifica nei corpi degli attori, i loro spasmi e i desideri, l’umanità delicata, priva dell’arrendevole giudizio della decadenza.

Simone Nebbia

Teatro India, Romaeuropa Festival 2017

IO NON HO MANI CHE MI ACCAREZZINO IL VISO
Drammaturgia Francesca Macrì, Andrea Trapani
Regia Francesca Macrì
Con Aida Talliente, Andrea Trapani
Scene Teatro della Tosse
Luci Gianni Staropoli
Suono Umberto Fiore
Collaborazione al progetto Aida Talliente
Direzione tecnica Massimiliano Chinelli
Produzione Teatro dell’Elfo, Fattore K, Fondazione Luzzati – Teatro della Tosse
In collaborazione con Armunia, La Città del Teatro di Cascina, La Corte Ospitale, Teatri di Vetro, Twain Residenza di Spettacolo dal Vivo a Ladispoli

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Simone Nebbia
Simone Nebbia
Professore di scuola media e scrittore. Animatore di Teatro e Critica fin dai primi mesi, collabora con Radio Onda Rossa e ha fatto parte parte della redazione de "I Quaderni del Teatro di Roma", periodico mensile diretto da Attilio Scarpellini. Nel 2013 è co-autore del volume "Il declino del teatro di regia" (Editoria & Spettacolo, di Franco Cordelli, a cura di Andrea Cortellessa); ha collaborato con il programma di "Rai Scuola Terza Pagina". Uscito a dicembre 2013 per l'editore Titivillus il volume "Teatro Studio Krypton. Trent'anni di solitudine". Suoi testi sono apparsi su numerosi periodici e raccolte saggistiche. È, quando può, un cantautore. Nel 2021 ha pubblicato il romanzo Rosso Antico (Giulio Perrone Editore)

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