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Bartolini/Baronio. Curare il vuoto

Bartolini/Baronio presentano al Teatro Brancaccino e in prima nazionale Dove tutto è stato preso, nell’ambito del Festival Teatri di Vetro. Recensione

Foto di Margherita Masé

«Non sapremo mai dove inizia il mio e termina il tuo», perché una fine infatti non c’è. Il discorso portato avanti negli anni, con coerente dedizione a porsi domande per continuare a tessere la trama, già cuciva il precedente lavoro di Passi. Ora Bartolini/Baronio – Tamara Bartolini e Michele Baronio – hanno ripreso quegli stessi fili e sciogliendoli hanno deciso, nel corso di circa un anno e mezzo, di tornare a intrecciarli: Dove tutto è stato preso è l’ultimo lavoro presentato in prima nazionale nell’ambito dell’undicesima edizione del Festival Teatri di Vetro, che lo produce insieme a 369 gradi. Il festival ha accolto con fiducia il progetto degli artisti romani presentato in due serate di ottobre al Teatro Brancaccino, dopo un lungo periodo di residenze artistiche realizzate a Brescia (Idra) e Castiglioncello (Armunia) come progetto selezionato dal bando CURA2017, a Taranto (Teatro Crest), Ostia (Teatro del Lido) e a Polistena (Del bello perduto, Dracma Teatro).

Foto di Margherita Masé

La comprensione di un filo passa attraverso la sua osservazione: scoprire il groviglio dal quale sarà teso, seguirne la direttrice e ascoltarne la tensione. Ma non ce n’è solo uno. La processualità creativa di Bartolini/Baronio predilige l’attraversamento di molteplici, arrotolate, sovrapposte linee di racconto, intrecciate non esclusivamente dal duo ma da tutti quelli che hanno percorso e ripercorso i loro stessi passi. Anche per poco, in viaggio, entrando e uscendo dal reticolato. Le cinque stanze in cui è strutturata la drammaturgia scenica sono quindi abitate da voci distinte di persone incontrate in questi mesi di elaborazione: Guido, Fiora, Sergio, Massimo, Elide, Maria Federica, Nino, Chiara e Thea. Biografie che si aggiungono a quelle di Bartolini/Baronio i quali ce ne danno poi esperienza e rappresentazione nell’innesto di un unico corredo biografico e scenico. Dove tutto è stato preso è consapevolezza turbata ma reattiva del vuoto: «siamo la generazione del vuoto» dice uno dei ragazzi, intervistato dai due artisti nella «bella perché devastata» Taranto. Due sono le parole chiave quindi, la prima “vuoto” che per sua stessa natura può diventare potenziale contenitore, generare un pieno; e l’altra “preso”, come tirato via, orfano di un nido che ha perso la quotidianità dell’abitare. Lo sfratto diventa nella scrittura dello spettacolo la variabile del trauma, dalla quale far dipendere l’azione di pensiero. Non è lo sfratto del padrone di casa, non è la contingenza economico-finanziaria, è lo sfratto inteso come decidere di lasciare, o essere obbligati a lasciare: una casa, un affetto, una persona, un ricordo.

Foto di Lucia Baldini

Se nella prima stanza in cui ci fanno entrare Tamara e Michele percepiamo il filosofico rimando a migliorare l’avvelenato sistema mondo  – come teorizza Thomas Bernhard nella sua opera Correzione – nella seconda ci raccontano di una casa pensata e sognata, che c’è ma non si sa dove, quel “giardino da coltivare” auspicato da Gilles Clément; l’utopia di un rifugio a misura di idee espresse da una coppia di amanti che vediamo improvvisamente giovani, poco più che ventenni, seduti entrambi su piccole sedie a cucinarsi un uovo al tegamino. «Di notte nella casa sentiva sempre il tarlo», quello del pensiero, che nella terza stanza inizia a elaborare gli spettri della realtà, il tarlo che rosicchia e mangia e sputa e poi distrugge. Crollano i muri, le travi, i tetti, crollano le parole che nella scrittura si fanno troncate dalla punteggiatura netta, dalle cesure altrettanto decise accompagnate in scena da suoni e rimbombi e rotture e crepe, aumentando il volume di quella distruzione (scene e paesaggio sonoro di Michele Baronio, suono di Michele Boreggi). Resta poi il buio e la polvere della quarta stanza. Restano le fenditure luminose tra le macerie (collaborazione alle luci di Gianni Staropoli), a parlarci delle nostre cadute e sottrazioni, dei nostri sfratti, ché solo da lì, solo dal sotto, ci si può rialzare: «bisognerebbe cercare nel terreno/ questa cosa che è stata sepolta/ ma che deve essere ancora qui/da qualche parte». Sul fondo del palcoscenico e a sinistra viene proiettato ora un video (concept Raffaele Fiorella), in cui la natura e la silhouette di un uomo che la attraversa restituiscono lo scandire di un tempo fisiologico e naturale nei suoi passaggi, nell’andare e tornare ciclico. Conducendoci così in questa quinta e ultima stanza, nell’eterno ritorno di un “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”; Bartolini/Baronio ci riportano all’origine, al grido di un parto che squarcia le pareti di una fine.

Foto di Giorgio Termini

Tamara e Michele sono artisti in grado di raccontare una storia, di ospitarci nelle loro stanze, in una scena riempita di oggetti semplici, trovati a terra, manipolati e spostati. Teatri di Vetro è per loro una casa, come lo è del resto anche Roma. Una dimensione che sin dagli inizi li accoglie, sostiene e spinge al confronto durante le prove, nella scrittura scenica che si nutre, modificandosi, dei suggerimenti e impressioni altrui. Tuttavia nelle pieghe di questa raggiunta maturità si percepisce il necessario impulso di continuare a camminare fuori, oltre i riconoscibili e protetti confini. Non si tratta di affermazione, quanto del bisogno di proseguire questi passi di cura per la parola e per l’azione scenica in altri contesti, al fine di impedire che la crescita soffochi e muoia nella saturazione. Il filo è in tensione, non facciamolo spezzare e vediamo se qualcuno, dall’altro capo, può afferrarlo.

Lucia Medri

Teatro Brancaccino, Roma – ottobre 2017

DOVE TUTTO È STATO PRESO

drammaturgia Tamara Bartolini

scene e paesaggio sonoro Michele Baronio

collaborazione al progetto / assistente alla regia / foto Margherita Masè

suono Michele Boreggi

concept video Raffaele Fiorella

collaborazioni artistiche Fiora Blasi, Alessandra Cristiani, Gianni Staropoli,

regia Tamara Bartolini/Michele Baronio

produzione Bartolini/Baronio | 369gradi

coproduzione Teatri di Vetro festival/triangolo scaleno teatro

con il supporto di Residenza IDRA (Brescia) e Armunia (Castiglioncello)

nell’ambito del progetto CURA 2017

residenze | Teatro Crest – Taranto | Del Bello Perduto Dracma Teatro Polistena (RC) |

Teatro del Lido di Ostia – Roma | Carrozzerie n.o.t – Roma

grazie agli allievi del laboratorio Biografie/Ritratti | Carrozzerie n.o.t

per i loro ritratti scritti e fotografici

progetto vincitore bando CURA 2017

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Lucia Medri
Lucia Medri
Giornalista pubblicista iscritta all'ODG della Regione Lazio, laureata al DAMS presso l’Università degli Studi di Roma Tre con una tesi magistrale in Antropologia Sociale. Dopo la formazione editoriale in contesti quali agenzie letterarie e case editrici (Einaudi) si specializza in web editing e social media management svolgendo come freelance attività di redazione, ghostwriting e consulenza presso agenzie di comunicazione, testate giornalistiche, e per realtà promotrici in ambito culturale (Fondazione Cinema per Roma). Nel 2018, vince il Premio Nico Garrone come "critica sensibile al teatro che muta".

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