Teatrosofia esplora il modo in cui i filosofi antichi guardavano al teatro. Il numero 69 evidenzia ancora una volta il sospetto verso il teatro d aparte dei filosofi classici, a partire dalle figure degli artisti di cui sono pieni gli aneddoti, le massime e le leggende legate alla figura di Anacarsi lo Scita.
IN TEATROSOFIA, RUBRICA CURATA DA ENRICO PIERGIACOMI – COLLABORATORE DI RICERCA POST DOC DELL’UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRENTO – CI AVVENTURIAMO ALLA SCOPERTA DEI COLLEGAMENTI TRA FILOSOFIA ANTICA E TEATRO. OGNI USCITA PRESENTA UN TEMA SPECIFICO, ATTRAVERSATO DA UN RAGIONAMENTO CHE COLLEGA LA STORIA DEL PENSIERO AL TEATRO MODERNO E CONTEMPORANEO.
Ancora più leggendario di Solone è il suo contemporaneo Anacarsi lo Scita. Gli antichi lo annoveravano saltuariamente nel gruppo dei Sette Sapienti e lo descrivevano come un barbaro filosofo, che volle trasferirsi in Grecia per apprendere i costumi del luogo e riportare in patria la sapienza accumulata lungo i suoi viaggi. Il mistero che avvolge la sua figura è dovuto al fatto che Anacarsi non lasciò alcuno scritto, ma anche al ricco proliferare di racconti sulla sua vita e all’attribuzione di numerose sentenze etiche, che in larga parte hanno scarsa veridicità storica. Poiché però alcuni dei suoi aneddoti e delle sue massime morali (che saranno successivamente raccolti quasi nella loro interezza da Diogene Laerzio) riguardano direttamente gli attori, o in generale l’ambito performativo, potrebbe comunque risultare interessante esaminarli, così da capire ancora meglio come la tendenza prevalente dei filosofi antichi – leggendari o meno che siano – fosse anti-performativa, ossia di sospetto verso la caratura etica e conoscitiva del teatro.
Per dominare le testimonianze senza procedere in modo troppo arbitrario, è utile studiarle seguendo il loro ordine cronologico. Anche se l’antichità di un autore non è automaticamente garanzia di affidabilità storica (un tardo testimone potrebbe aver avuto accesso a buone fonti, mentre uno molto recente potrebbe aver travisato il pensiero di Anacarsi), tale progressione ci dà almeno un quadro di come la sua figura si fosse sviluppata nel tempo.
Il testimone più antico è Aristotele, che nel libro X dell’Etica Nicomachea attribuisce ad Anacarsi il motto: «giocare al fine di impegnarsi». Il senso della massima non è chiaro, potendo indicare tanto l’invito a mescolare lo scherzo con la serietà (concetto che ricorrerà esplicitamente poco dopo nella riflessione di Ione di Chio), quanto il pensiero che bisogna lasciare spazio allo svago, per coltivare le attività serie. Tale secondo senso sembra più plausibile, oltre che grazie al contesto in cui Aristotele colloca il motto (= un’indagine sul ruolo rigenerante del divertimento dalle attività serie), anche in virtù di un altro pensiero attribuito ad Anacarsi nel Gnomologium Vaticanum, che riporta che ci si riposa per non logorarsi ed esercitare meglio l’intelligenza. E se è così, la massima dell’Etica Nicomachea solleva la domanda che segue. Il lavoro degli artisti performativi può rientrare tra i divertimenti che consentono di recuperare le forze e di indirizzarle ad attività serie?
Sempre Aristotele ci fornisce, però, elementi per una risposta negativa. Negli Analitici secondi, egli attribuisce ad Anacarsi la sentenza altrettanto sibillina che in Scizia non vi sono flautiste, perché non ci sono viti. Ad illuminarne il significato sono i paralleli in Strabone e nei commentatori di Aristotele (tra cui Filopono), che riferiscono che Anacarsi svolgesse questo ragionamento. Se in Scizia non vi sono viti, qui non viene prodotto vino, pertanto gli Sciti non si ubriacano; e se non c’è ubriachezza, non vi sono nemmeno flautiste, visto che queste artiste suonano ai simposi dove ci si ubriaca. Ora, se il significato della sentenza è davvero questo, allora si deve escludere che Anacarsi avrebbe ammesso che gli spettacoli musicali fossero un divertimento rigenerante per passare alle cose serie. Dato che altre fonti riconoscono, anzi, al filosofo anche una condanna dell’ubriachezza, che è causa di un accesso di follia che a sua volta provoca disordine morale e intellettuale, allora anche le flautiste vengono condannate per il loro mestiere. Poiché figurano in un contesto in cui la ragione perde il suo controllo, esse contribuiscono a loro volta alla pazzia che bisogna evitare a ogni costo.
Va però detto, per inciso, che altre fonti riferiscono che: 1) Anacarsi si ubriacò una volta alla tavola di Periandro; 2) fosse costume degli Sciti bere vino puro. Se il primo punto può essere risolto supponendo che il filosofo si concedesse il diritto di ubriacarsi senza superare il limite in cui si perde la ragione, oppure volesse dare agli altri una prova di estremo autocontrollo, il secondo crea un conflitto insuperabile con quanto abbiamo visto. Solo verificando se in Scizia si bevesse o meno vino puro all’epoca di Anacarsi è possibile decidere a quale versione dare credito, ma questo è un compito che non è possibile affrontare in tal sede. Qui basta concludere che queste e altre oscillazioni sono una prova ulteriore del carattere leggendario delle storie spesso contraddittorie sul personaggio.
Dopo Aristotele, bisognerà aspettare Dione Crisostomo (I secolo d.C.) per avere un’altra massima attinente alla dimensione performativa. Quest’autore riferisce stavolta che Anacarsi condannasse le competizioni sportive dei ginnasi, dove i Greci lottano tra loro e poi si riconciliano come se nulla fosse accaduto, dunque si comportano da autentici folli. Il filosofo ironizza su queste esibizioni dicendo che la causa consiste nell’olio che i contendenti si spalmano prima di combattere. Infatti, è dopo esseri cosparsi di tale sostanza che essi cominciano a lottare, mentre è dopo essersela tolta che essi si riconciliano. Fuori da ogni ironia, questo ragionamento costituisce una presa di distanza critica di Anacarsi verso qualunque forma di esibizione in cui due o più persone stabiliscono tra loro il tacito patto di fingere un’attività, senza però svolgerla effettivamente. In questo caso, fingere di lottare con la volontà di uccidere o di far del male all’avversario, senza però voler uccidere o fare del male effettivamente.
Un simile ragionamento può essere esteso al discorso sull’attore. Poiché anche tali artisti stabiliscono tra loro e con il pubblico un patto del genere. Ad esempio, un’attrice finge di essere Medea che si lamenta del tradimento di Giasone e uccide i suoi figli, senza però essere Medea, mentre un attore simula di essere Edipo che sopporta coraggiosamente l’esilio da Tebe, ma senza essere Edipo. Ad estendere il ragionamento sugli atleti agli attori penserà, in effetti, Luciano di Samosata con la sua operetta dal titolo Anacarsi, o Dei ginnasi, dove si immagina un dialogo tra Anacarsi e Solone intorno all’educazione dei giovani. Dapprincipio, il primo svolge alcuni argomenti contro il potere educativo delle esibizioni atletiche e del loro piacere senza frutto, in altri termini nega che queste possano appunto essere lo svago diretto – come riferiva la massima riportata da Aristotele – alle cose serie. In seguito, dopo aver sentito da Solone un elogio del potere degli attori sia tragici che comici di rendere i giovani spettatori più ricettivi della virtù e spregiatori del vizio, Anacarsi deride queste figure ed aggiunge che esse non possono indurre nessuno ad agire meglio, né a lottare con coraggio. Chi dovesse del resto muoversi in battaglia come un artista di teatro non potrà vincere gli avversari, ma si coprirà semplicemente di ridicolo. Anacarsi cerca, dunque, di convincere Solone ad abbandonare il suo convincimento, dicendo che sia il teatro che l’atletismo sono arti superflue e che offrono un godimento senza frutto, degno solo di giovinastri perditempo e buoni a nulla.
Purtroppo, l’operetta di Luciano è assai romanzata e riporta contenuti storicamente poco affidabili. Lo dimostra, tra le varie cose, il fatto che Solone è presentato come un difensore del valore educativo del teatro, che il Solone storico invece lo spregiava come un gioco politicamente pericoloso. A dire il vero, quest’ultimo avrebbe di fatto sposato gli argomenti che l’operetta attribuisce ad Anacarsi. E se Luciano dice il falso circa il Solone storico, egli forse falsifica anche il pensiero dell’Anacarsi storico. Sul fatto che questi potesse aver condannato il lavoro dell’attore equiparandolo all’atletismo deve dunque restare solo un’ipotesi magari plausibile, ma di certo inverificabile.
Incontriamo invece in Diogene Laerzio una sentenza critica verso il pubblico. Nell’antichità come ancora oggi, accadeva che le persone deputate a giudicare le esibizioni degli artisti di teatri e dei poeti fossero persone che artisti o poeti non sono. Allo sguardo di Anacarsi, tale prassi appariva in sé assurda. Se infatti solo un competente in una data disciplina può distinguere un altro competente da un incompetente, perché si accetta così alla leggera che siano gli incompetenti ad operare queste distinzioni e a decidere a chi dare un premio per l’eccellenza poetica? È chiaro allora che ci troviamo di fronte, secondo Anacarsi, ad un’altra consuetudine culturale in cui gli esseri umani manifestano la loro follia. Incidentalmente, va notato che tale aneddoto sarà .
L’ultima fonte che attribuisce ad Anacarsi una massima attinente all’ambito performativo è forse anche la più interessante. Si tratta stavolta del libro XIV dei Sofisti al banchetto di Ateneo di Naucrati, che racconta come il filosofo assistette all’esibizione di un giullare senza divertirsi, ma rise di gusto al vedere le movenze di una scimmia. Da ciò Anacarsi dedusse apparentemente che l’essere umano non sa per natura generare il sentimento del comico, che invece è destato spontaneamente da alcuni animali. Tale concezione sarebbe stata poi la base per invitare gli ascoltatori all’esercizio delle proprie capacità. Un essere umano che vuole risultare comico deve diventare bravo a tal punto da superare i suoi limiti naturali, ossia di ottenere con l’impegno quello che la natura gli ha negato.
Lo spoglio delle fonti antiche su Anacarsi restituisce, tutto sommato, una concezione unitaria del suo potenziale pensiero del lavoro degli artisti performativi. Il filosofo ritiene che questi ultimi siano del tutto inutili per il miglioramento di sé e anzi abbiano più spesso effetti negativi sugli spettatori. Se le flautiste contribuiscono, come si è visto, alla pazzia, attori e atleti presumibilmente fanno lo stesso, perché inducono spettatori e artisti a una follia collettiva. L’alimentare un gioco in cui si finge di fare qualcosa senza effettivamente farla sarebbe molto probabilmente apparsa, del resto, al razionalissimo Anacarsi come un’attività priva di senso e, appunto, folle. Chi vuole imparare a sconfiggere l’avversario non deve guardare gli atleti lottare, bensì cimentarsi in vera battaglie. E chi intende sia acquisire la virtù che odiare il vizio non può limitarsi a osservare Edipo esiliato, o a condannare la mancanza di autocontrollo di Medea tradita, ma agire virtuosamente e astenersi dal comportarsi viziosamente.
Si può certo dissentire dai pensieri contro il teatro che le fonti attribuiscono ad Anacarsi. Poiché però non sappiamo se esse riferiscano il vero o il falso sul personaggio, chiunque motivasse il proprio dissenso rischierà in questo caso di entrare in battaglia con un’ombra del passato.
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Egli disse che la vite produce tre grappoli: il primo del piacere, il secondo dell’ubriachezza, il terzo del disgusto. Esprimeva la sua meraviglia per il fatto che in Grecia gli artisti partecipano agli agoni e coloro che artisti non sono giudicano. Interrogato quale fosse il modo per odiare il vino, rispose: «Avere innanzi agli occhi le intemperanze degli ubriachi». Un altro motivo di meraviglia riguardante i Greci era questo: che mentre fanno leggi per punire la violenza, onorano gli atleti perché si battono l’un con l’altro. (…) Definiva l’olio un farmaco che produce pazzia perché gli atleti che se ne ungono impazziscono tra di loro. (…) Interrogato se nella Scizia vi fossero flauti (αὐλοί), rispose: «Neppure viti» (ἄμπελοι). (…) Ingiuriato da un giovinetto nel convito, disse: «Giovinetto, se ora che sei tenero di età non sostieni il vino, divenuto vecchio porterai l’acqua» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, libro I, §§ 103-105 = Anacarsi, Sentenze 23E-F, 26A-B, 28A-D, 30A-D, 36, 37E-F, 42B-C; trad. Gigante)
La felicità allora non risiede nel gioco: sarebbe assurdo che il fine fosse il gioco, e che si agisse e si soffrissero pene per tutta la vita al fine di giocare. Tutte le cose infatti, per così dire, le scegliamo in vista di altro, fatta eccezione per la felicità: questa è il fine. Darsi da fare e penare per il gioco è evidentemente sciocco e troppo infantile. Ma giocare al fine di impegnarsi (in qualche attività), secondo Anacarsi, sembra che sia corretto: il gioco è simile ad un riposo e gli uomini, non essendo in grado di faticare ininterrottamente, hanno bisogno di riposo; esso dunque non è un fine, poiché ha luogo invista dell’attività (Aristotele, Etica Nicomachea, libro X, passo 1176b27-1177a1 = Anacarsi, Sentenza A9; trad. Caiani)
Lo stesso [Anacarsi] si sentì chiedere, mentre giocava a dadi, perché giocasse e rispose: «Come l’arco che si è spezzato per l’eccessiva tensione torna di nuovo utile alle necessità della vita, se viene riparato, così anche il ragionamento lavora se è lasciato riposare» (Gnomologium vaticanum 17 = Ancarsi, Sentenza 10A-D; trad. mia)
Di questa natura, ad esempio, è l’argomento di Anacharsi, secondo il quale presso gli Sciti non si trovano suonatrici di flauto, dato che in quella regione non si trovano neppure viti (Aristotele, Secondi analitici, libro I, passo 78b29-31 = 23A; trad. Colli)
Aristobulo dice che, nel paese di Musicano, (…) cresce la vite da cui il vino è prodotto. Ma altri scrittori dicono che in India questa bevanda è assente. Secondo Anacarsi, dunque, il territorio indiano non ha nemmeno flauti, o altri strumenti musicali, se si escludono i cimbali, i tamburi e i castaneti, che sono usati dai giullari (Strabone, Geografia, libro XV, cap. 22, § 1 = Anacarsi, Sentenza 23B; trad. mia)
Aristotele dice che Anacarsi lo Scita adduceva questa specie di causa del fatto che non ci sono flautiste tra gli Sciti, quando rispondeva: «in quella regione non si trovano neppure viti». Infatti, ne forniva una distante. La causa prossima dell’essenza delle flautiste è che i Traci non si ubriacano, e [la causa prossima] della loro astensione dall’ubriachezza è che non ci sono viti. Il fatto è menzionato dalle testimonianze antiche (Filopono, Commento ai «Secondi analitici» di Aristotele, p. 178; trad. mia)
[Anacarsi] chiamava il vino «accesso alla follia» (Pseudo-Dionigi di Alicarnasso, Arte retorica, cap. 11, § 4 = Anacarsi, Sentenza 25)
Quando si mescolano nelle case l’anfora di vino, la prima coppa è per la salute, la seconda per il piacere, la terza per l’arroganza, la quarta per la follia (Stobeo, Florilegio, libro III, cap. 18, § 25 = Anacarsi, Sentenza 27A-H; trad. mia)
Che l’ubriachezza faccia anche stravedere l’ha dimostrato in modo inequivocabile con le sue parole Anacarsi, il quale ha detto chiaramente che gli ubriachi sono soggetti a false opinioni. Una volta un convitato, vedendo la moglie di Anacarsi al simposio, osservò: «Anacarsi, hai sposato una donna davvero brutta». E lui: «Pare proprio anche a me; ragazzo, versami una coppa di quello schietto, che me la veda bella» (Ateneo, I sofisti al banchetto, libro X, cap. 64 = Anacarsi, Sentenza 31A; trad. Cherubina)
Quando si trovava alla Corte di Periandro Ana carsi, come si narra, beveva moltissimo: si era portato con sé come viatico questo uso tipico del suo paese, perché é proprio degli Sciti bere il vino puro (Claudio Eliano, Storie varie, libro II, cap. 41; trad. Bevegni)
Lo scita Anacarsi pretese per sé il premio fissato da Periandro per una gara di bevute, perché era stato il primo tra tutti i commensali a ubriacarsi: egli era convinto che, come esiste un traguardo nella gara di corsa, questo fosse il traguardo per riportare la vittoria in una competizione di bevute (Ateneo, I sofisti al banchetto, libro X, cap. 50; trad. Cherubina)
Anacarsi disse che in ogni città della Grecia c’è un luogo separato – cioè i ginnasi – in cui i Greci agiscono dissennatamente ogni giorno, perché quando vanno lì si tolgono i vestiti e si cospargono di una droga. «E quando ciò accade», afferma lui stesso, «la follia si impadronisce di loro. Infatti, subito alcuni cominciano a correre, altri si buttano a terra l’un l’altro, altri ancora spalancano le braccia e lottano con un avversario fantasma, altri infine subiscono dei colpi. E», continua, «dopo essersi comportati così, si liberano della droga e, tornati di colpo sani, recuperano adesso i rapporti amichevoli tra loro e si guardano con la testa china, vergognandosi per quanto è accaduto» (Dione Crisostomo, Orazioni, discorso 32, § 44 = Anacarsi, Sentenza 37A; trad. mia)
Solone: All’inizio, dunque, infiammiamo l’animo dei fanciulli con la musica e l’aritmetica e insegnamo loro a scrivere le lettere e poi a leggerle con voce chiara. Quando poi crescono, recitiamo loro detti di uomini saggi e antiche imprese e discorsi utili che mettiamo in versi perché li possano memorizzare meglio. Ed essi, ascoltando certi atti di valore e certe imprese famose, vengono stimolati a poco a poco e sono spinti ali’ emulazione nella prospettiva di essere a loro volta celebrati e ammirati dai posteri; proprio come tra noi hanno composto molti racconti di questo genere Esiodo e Omero. (…)Riunendo inoltre i giovani nel teatro, li educhiamo pubblicamente attraverso le rappresentazioni di tragedie e di commedie nelle quali assistono allo spettacolo delle virtù e dei vizi degli antichi, perché prendano le distanze da questi ultimi e seguano invece con ardore le prime. Permettiamo agli attori comici di mettere alla berlina e di prendersi gioco di quei cittadini che sono noti per compiere azioni vili e indegne della città e questo sia nel loro stesso interesse, perché vedendosi scherniti così diventano migliori, sia nell’interesse di tutti gli altri, in modo che evitino la critica per colpe analoghe
Anacarsi: Li ho visti, Solone, gli attori tragici e comici di cui tu parli, se io li ho ben identificati. Gli uni indossavano calzari pesanti e alti, si pavoneggiavano in una veste ornata di nastri dorati e portavano sulla testa dei ridicoli caschi con una gran bocca spalancata da dove emettevano alte grida e non so come facessero a camminare con una certa sicurezza in quei calzari. Credo che la città stesse allora celebrando una festa in onore di Dioniso. Gli attori comici erano più bassi degli altri, coi piedi a terra, e sembravano uomini più normali e gridavano meno forte, ma i loro copricapo erano molto più buffi. In effetti facevano ridere tutto quanto il teatro; mentre tutti erano cupi e scuri in volto quando ascoltavano gli attori più alti. Li compativano, suppongo, per dover trascinare siffatti ceppi ai piedi!
Solone: Ma non erano loro, mio caro, quelli che essi compativano! Il poeta probabilmente rappresentava davanti agli spettatori qualche antica sventura e metteva in versi sulla scena racconti tragici che suscitavano compassione e provocavano le lacrime del pubblico. Forse avrai veduto allora anche alcuni che suonavano l’ aulo e altri che cantavano insieme disposti in cerchio. Ebbene, neppure quei canti e quella musica con l’aula, Anacarsi, sono per noi inutili. Infiammando gli animi con tutti questi mezzi e con altri simili, noi li rendiamo migliori (Luciano, Anacarsi, §§ 21-23; trad. Angeli Bernardini)
Anacarsi: Ecco che voi metterete allora quelle armature che indossano gli attori nelle commedie e nelle tragedie e, se vi viene proposta una sortita, porrete sulla testa quei caschi con la bocca spalancata per incutere più paura ai nemici e spaventarli ben bene e infilerete senz’altro quei calzari alti. Certo, se uno deve fuggire sono leggeri e se invece dovete gettarvi al- 1’ inseguimento, per i nemici saranno difficili da evitare se voi li rincorrete con balzi così grandi. Fa’ piuttosto attenzione che queste vostre raffinate occupazioni non siano che divertimenti frivoli e niente altro che giochi di fanciulli e passatempi per giovani che non hanno niente da fare e vogliono vivere una vita facile. Se, invece, volete essere del tutto liberi e felici, avrete bisogno di praticare ben altri esercizi e di fare una vera pratica nelle armi e non scenderete a gara gli uni contro gli altri per gioco, ma contro i nemici autentici se nel momento del pericolo reale vi sta a cuore il coraggio. In una parola, insegna ai giovani a lasciar stare la polvere e l’olio, e a lanciare invece frecce e a scagliare dardi e non dar loro giavellotti leggeri che possono essere sviati dal vento, ma lascia che portino una lancia pesante che sibili quando è vibrata, e una pietra grande quanto la mano, e un’ascia a doppio taglio e uno scudo nella mano sinistra, e una corazza e un elmo (Luciano, Anacarsi, § 32; trad. Angeli Bernardini)
Mi risulta dunque che lo scita Anacarsi, una volta che in un simposio furono fatti entrare dei buffoni, rimase serio, ma quando fu introdotta una scimmia scoppiò a ridere, spiegando che questa è comica per sua natura, mentre l’uomo deve apprendere ad esserlo con l’esercizio (Ateneo, I sofisti al banchetto, libro XIV, cap. 2 = Anacarsi, Sentenza 11a; trad. Citelli, modificata)
[Le sentenze di Anacarsi sono ora disponibili in Jan Fredrik Kindstrand (ed.), Anacharsis: the Legend and the Apophthegmata, Uppsala, Almquist and Wiksell, 1981. Queste sono le traduzioni usate nel testo:
- Paola Angeli Bernardini (a cura di), Luciano: Anacarsi, o Sull’atletica, Pordenone, Biblioteca dell’Immagine, 1995;
- Claudio Bevegni (a cura di), Eliano: Storie varie, Milano, Adelphi, 1996;
- Lucia Caiani (a cura di), Aristotele: Etiche, introduzione di F. Adorno, Torino, UTET, 1996;
- Luciano Canfora (a cura di), Ateneo: I Deipnosofisti, introduzione di C. Jacob, Roma, Salerno Ed., 2001 [la trad. del libro X è di Rodolfo Cherubina, quella del libro XIV è di Leo Citelli];
- Giorgio Colli (a cura di), Aristotele: Organon, Milano, Adelphi, 2008;
- Marcello Gigante (a cura di), Diogene Laerzio. Vite dei filosofi. Volume 2, Roma-Bari, Laterza, 1998]
Enrico Piergiacomi
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