Mimmo Cuticchio, in una lunga intervista presso il suo laboratorio a Palermo, racconta la sua esperienza di figlio d’arte e rappresentante della tradizione dell’opera dei pupi siciliani.
Fissare il racconto di un artista come Mimmo Cuticchio, restituirne anche solo in parte l’esperienza di vita, senza essere circondati dei suoi innumerevoli pupi, senza sapere cosa significava vivere il centro storico di Palermo è quasi impossibile. Dentro il suo laboratorio a via di Bara all’Olivella inizia così, generoso, fiero e appassionato, a ripercorrere il lavoro (e i disaccordi) con il padre anch’egli puparo; in gioventù i lavori come scenografo o tuttofare per il cinema; i difficili rapporti con le politiche culturali; a più riprese emerge l’importanza del fare spettacoli per le scuole, la cui occasione contribuì all’ampliamento del repertorio, accompagnato sempre dalla curiosità nell’indagare figure e dimensioni anche molto lontani dalla tradizione dell’Opra di Pupi. Oltre due ore di un’intervista in una fresca mattina palermitana; proverò a conferirle nuova parziale traccia scritta, ricucendo artigianalmente quel che naturalmente è entrato nella conversazione. Mancano la sua voce e gli argenti delle armature e delle spade, le sete e il cotone grezzo, manca l’odore di legno e il clangore dei ferri e lo zoccolo che tiene il ritmo.
I Pupi a Palermo.
«Tra il ‘700 e l’800 nasce la tradizione dei pupi siciliani. Probabilmente se ne trova traccia anche in Cervantes, che ha portato Carlo Magno dentro il Don Chisciotte. Non so se abbia visto i pupi però. Nei primi 30 anni del ‘700 a Palermo c’erano i “Casotti di li vastasi”, ovvero dei trasportatori delle barche, dove avvenivano le “vastasate”, era un teatro delle baracche con attori anche professionisti e pur essendo un teatro del popolo piaceva anche ai regnanti. Da qui deriva l’opera dei pupi, i loro caratteri e le voci che si continuano a tramandare fino a oggi. I pupi godevano di un’estrema libertà, potevano dire cose che sarebbero state censurate agli attori dalla polizia borbonica. I paladini erano siciliani e i saraceni erano i Borboni. Però dopo le guerre, dopo i bombardamenti e gli americani la nostra storia è cambiata».
«Tra gli anni ’50 e ’60 tutti gli opranti e i pupari non solo di Palermo emigrarono, abbandonando i padri e i vecchi furono costretti a vendere i pupi. Come la famiglia Campise che si era trasferita a Torino, lasciando il padre a Caltanissetta. Tutti svendevano. Io, pensa, ho recuperato dei pupi del ’54. In questa Palermo sciacallata come un animale ucciso, i vecchi s’arrangiano alla meno peggio, chi scambia dollari, chi vende sigarette, i truffaldini si immettono nella ricostruzione e la DC diventa il grande falò che attira tutti. Quindi i pupi finiscono nelle cose vecchie, non moderne forme di attrazione come il flipper, jukebox, il biliardino, la televisione. I bambini così non andavano più dai pupi. Era cosa dei nonni».
«La chiave di volta è stata che il destino vuole che non tutto muore, qualche seme rimane sempre. Le famiglie rimaste a Palermo oltre a noi, erano gli Argento e i Mancuso, che però ora fano i costruttori di palazzi. I primi invece continuano la costruzione di pupi in corso Vittorio Emanuele. Nei paesini c’erano i Canino a Partinico, una famiglia dell’800. Invece i Munna a Monreale hanno fatto una ripresa dopo gli anni ‘70».
«Noi avevamo i canovacci, i quaderni di appunti. “Re Pipino è vecchio e si deve sposare. I baroni partono per cercare una moglie, poi in Ungheria re Filippo ha una figlia bellissima che si chiama Berta, i baroni la scelgono per farla sposare al re”. Appunti così, e poi si costruiva lo spettacolo. Io ho copiato i quaderni con le mie mani, riportando la data e la firma. 371 serate da re Pipino alla Morte di Carlo Magno passando per Roncisvalle, rigo per rigo, fatto per fatto, nome per nome. Mio padre leggeva il canovaccio, noi no. Era lui a fare tutto. Noi eravamo lì solo per aiutare, stare attenti. Era lui a sapere la storia e i segreti. Abbiamo capito che lui era un contenitore che sapeva tutto. È questo il segreto delle famiglie d’arte antiche. Anche 50 voci in una serata. Ognuno difendeva il mestiere e non insegnava niente».
Mimmo Cuticchio, figlio d’arte.
«Io nasco a Gela quando mio padre era itinerante, i miei fratelli sono nati in giro per questo». «La scuola che ho affrontato io era all’antica. “Siediti qua e drizza i chiodi”, c’erano latte piene di chiodi storti, mia madre mediava, diceva di non fare tutto, mezz’ora, un’ora, poi ci mandava a giocare, studiare, e si faceva lo spettacolo la sera». «Durante gli anni Sessanta mio padre faceva molti dei suoi teatrini itineranti. Quando nel ‘68 facevo il militare, si trovavano a Cefalù, mia madre mi dice che mio padre voleva venire a Palermo per provare ad arrivare ai turisti. Così, l’anno dopo inauguriamo il Teatro di vicolo Ragusi ai Quattro canti e mio padre lo chiamerà per la prima volta Super teatro delle marionette Ippogrifo, pensa che di solito non si dava un nome ai teatrini. Prima c’erano solo i cartelloni, mentre lui si fa fare i biglietti con l’ippogrifo e li portiamo negli alberghi. Vengono i turisti, ma siccome hanno poco tempo, consigliano a mio padre di fare sempre lo stesso spettacolo, così i capigruppo lo spiegavano, tre quarti d’ora massimo un‘ora di spettacolo, compravano qualche souvenir e se ne andavano. Per mio padre e mia madre fu una miniera. Comprarono casa così a Palermo. Io avevo poco più di vent’anni». «Mio padre faceva lo spettacolo solo per i turisti però io volevo continuare a fare il ciclo dei paladini. Invece di cucinare lo stesso piatto, volevo continuare a sperimentare, ma se non hai più nessuno a chi lo fai mangiare? Ogni tanto cambiavamo episodi e i capigruppo si lamentavano perché spiegavano uno spettacolo diverso da quello che vedevano. Io, dicevo, recito, non sono solo aiutante. Così, botta e risposta tra me e mio padre, non poteva continuare e mio padre disse “fai quello che vuoi, costruisci il tuo teatro, quella è la porta”». «Mio padre era come il principe del Gattopardo, anche quando ormai il mio lavoro era riconosciuto diceva “a mmia lasciatemi fuori”, era talmente orgoglioso e di roccia, eppure era felice quando lo intervistavano, contento anche se diceva “il maestro sono sempre io!”».
Gli esordi e il cinema.
«Andato via, mi sono spostato qui in via di Bara all’Olivella, non passava nessuno perché il centro storico era emarginato, abbandonato al popolino, tutti gli altri se n’erano andati, nessuno investiva né per ristrutturare né per costruire case. Nella strada c’era soltanto un signore che costruiva scale, un torniere e una sola taverna. Io avevo affittato lo spazio a cinquemila lire che era poco anche per il periodo, perché qui ti scippavano, posteggiavi la macchina e ti rubavano la ruota di scorta, i ferri… Non erano ladri di professione, quanto poveracci che dovevano rubare per comprare un pacco di pasta. Aprii questo teatrino, sperando anche di intercettare qualcuno che passava al museo o al teatro Massimo, ma a parte quattro turisti che venivano al Salinas, la maggior parte erano bambini. È stata una fortuna, a ripensarci, perché non avendo più pubblico cosa avrei dovuto fare? Niente. Invece il fatto che venissero bambini mi permetteva di continuare a fare le rappresentazioni, tenere viva la tradizione; se non avessi fatto gli spettacoli negli anni ’70 avrei perso memoria del mio mestiere, invece in quei dieci anni ho rafforzato quello che avevo imparato perché ormai ero io che dirigevo il teatro, non ero più solo il figlio di mio padre». «Costruii così i primi pupi armati sullo stile settecentesco, nel ‘70-71 cominciai ad avere una decina, quindicina di pupi non armati, soldatini, un gigante, la principessa; mia madre mi dava una mano facendo vestitini. Fino al ’73 viaggiavo con una Seicento e mettevo sopra al portapacchi una struttura piccola di legno che avevo costruito. Andavo a Trapani, Caltanissetta, alle feste dell’Unità e nelle scuole, cominciavo a capire che stavo prendendo la mia via, aiutavo pure mio padre. Ho anche tentato di fare la comparsa, mi prendevano ma mi facevano lavorare poco mentre con gli scenotecnici facevo tutto il film, non solo uno o due giorni per 5.000 lire, ne prendevo anche 20.000, quindi ero ricco. Ho anche fatto l’aiuto costumista e lavorato col maestro di scherma, facevo il picciotto, l’aiutante, mi piaceva perché potevo lavorare e imparare. Quando ho lavorato al Viaggio con De Sica, Richard Burton e Sofia Loren, De Sica era venuto al teatrino da mio padre, perché voleva vederlo dal di dentro. Ho lavorato con Luigi Schiaccianoce per 4 o 5 film. Ero giovane, quindi fortunato, perché i giovani non perdono i sogni. Io i pupi li sognavo, li costruivo, mi hanno anche aiutato perché non ero costruttore, ero un oprante più che un puparo, ho dovuto imparare, lavoravo giorno e notte. Mio fratello Nino aiutava mio padre e Guido, il più piccolo, era con me. Quando andavamo fuori, procuravamo aiutanti a mio padre. Piano piano così inizia la storia della nostra ripresa. Anche se furono gli anni più terribili».
Spunti e ostacoli: scuola e politica.
«Era comunque tutto incerto, la politica non mi aiutava per niente, perché dicevano che per queste cose non ci sono aiuti, mi dissero “sono cose da baraccone”, che quello che facevamo noi “manco era teatro”. Anche le domande per ottenere dei contributi erano ridicole, 20.000 lire l’anno, visti soltanto alla fine, bolli da 1.500. Abbandonammo l’idea.
Ho dovuto lottare non con la sopravvivenza ma coi mostri qui a Palermo. Non volevo manco più pagare la tassa all’Agis, però dovevo farlo per avere la riduzione del 40% sui treni. Finalmente al Ministero del Turismo trovai una signora gentile, Dardano, che mi aiutò a compilare la domanda; il primo anno però sbagliai e nel ‘74 non ottenni niente. Poi però dal ’75 ebbi finalmente un riconoscimento e 500.000 lire, e man mano, aumentando la produzione, le tournée, arrivarono altri riconoscimenti e premi».
«Spesso andavo nelle scuole a parlare coi direttori, non tutti avevano voglia di ospitarci perché poi pensavano fosse una perdita di tempo, non era chiaro chi dovesse pagare… Noi chiedevamo 50 lire a bambino. Non avevo bisogno di una sala grande per quattro-sei classi, anche se incassavo poco andava bene». «Era giusta l’intuizione di fare cose nuove, anche gli insegnanti mi hanno consigliato di preparare qualche spettacolo non dei paladini in modo che loro potessero tornare e così realizzai dei pupi nuovi. Questo fu molto importante perché altrimenti gli studenti sarebbero venuti una volta e basta. Dunque ho fatto cose diverse, anche tratte dagli argomenti che si studiano a scuola, ho studiato anche l’Iliade e ho realizzato quaranta pupi. Una volta imparato, ho continuato la tradizione senza ripeterla e senza perdere i valori del popolo. Avendo imparato a costruire il pupo classico, magari ora sperimento, cambio delle cose, materiali, studiando capivo che potevo fare, che potevo portare qualcosa di nuovo senza perdere il sapere che hai, io con gli stessi ferri dei pupi tradizionali costruivo pupi nuovi».
Chi continua la tradizione.
«Ho sempre detto che ci vogliono giovani che si interessino a fare sopravvivere l’opera dei pupi ed ero disposto ad insegnare il mestiere, ma non si muoveva nulla. Poi finalmente con Orlando sindaco qualcosa è cambiato. Ho avuto una crisi intorno agli anni ’80, dovevo pagare una tipografia e non avendo soldi, feci una provocazione dicendo che vendevo i pupi per pagarmi le spese e si sparse la notizia. C’era la folla di persone pronte a comprare i pupi. Alcuni li ho venduti davvero, poi quando ho capito che venivano coi soldi in tasca ho chiuso la porta e non li ho venduti più. Così Orlando intervenne e disse di fare la scuola. Il secondo anno l’assessore cambiò e mutò anche dove destinare i soldi, invece che per la scuola dovevamo spenderli in altri progetti. Il terzo anno non fu più possibile. Non si può essere servi di nessuno. Forse dai pupi ho preso anche la fierezza nella lotta alla prepotenza. Io quando faccio una cosa, se dico sì è sì, allora ai giovani dissi che non c’erano più borse di studio; alcuni potevano rimanere, altri no, cercammo di prendere soldi in più con gli spettacoli, e così rimasero in quattro. Lavoravano e si pagavano la borsa che facevamo uscire dagli spettacoli e finì il rapporto col comune». «Avevo un’allieva giapponese che veniva sempre a guardare da fuori. Lei voleva lavorare coi pupi ma non parlava italiano e poi aveva 32 anni, il limite era 28. Mi fece vedere un video di giapponesi che mi avevano intervistato su Pirandello, era rimasta talmente affascinata che era venuta qui, allora la feci entrare. È rimasta quattro anni. Dal ’97 a ora, l’unica che non è andata mai via è Tania Giordano, la prima, lei aveva finito l’Accademia di Belle Arti a Palermo, è rimasta sempre con noi, si è inserita ed è stimata, se l’è meritato. Ho un sacco di collaborazioni, adesso. È un’altra possibilità».
Viviana Raciti