Insieme alla sua Compagnie 111, nel programma di Romaeuropa festival 2017, Aurélien Bory presenta al Teatro Argentina Espæce, uno spettacolo immaginato e costruito a partire dal libro di Georges Perec Espèces d’espaces. Recensione
“Vivere è passare da uno spazio all’altro, cercando il più possibile di non andare a sbattere” (Espèces d’espaces, Georges Perec)
Espæce, il titolo della piéce di Aurelien Bory – magico incantatore della scatola scenica e illustratore perfetto del suo profilo – è l’innesto delle parole, una sull’altra, che compongono il titolo del saggio dello scrittore francese (Espèces d’espaces in lingua originale) una contrazione che risparmia spazio e che segna, trafigge e soggettivizza quel poco che ne occupa.
Tra il 1972 e il 1974, Georges Perec, che dieci anni prima aveva dato una spiegazione della moderna civiltà capitalista attraverso i suoi oggetti nel saggio Le cose – «una storia sulla povertà mescolata inestricabilmente all’immagine della ricchezza» dirà il suo maestro Roland Barthes –, si impegna a lavorare a una sorta di bestiario, un simildizionario enciclopedico che censisce la natura di alcune «razze» nelle quali a ognuno in vita capita obbligatoriamente di imbattersi: diverse Specie di spazi. Così l’oggetto cede la sua funzione fàtica principale al vuoto intorno a sé, non è più esso stesso a parlare della cultura di massa, degli status symbol dettati dal tempo. A partire dallo sguardo che si perde nello spazio sconfinato e inutile si definisce la materia collocata al suo interno, così da essere proprio la materia a trovarsi ai margini del vuoto e mai viceversa. Il lavoro si concentra sempre più sulla voragine determinata dall’assenza, dal bianco della pagina vergine, dando incontrovertibilmente rilevanza al segno e prendendo, in forma di metafora, la piega dell’autobiografia di un abbandonato – quella di Perec è la storia di un orfano di entrambi i genitori, la madre fu deportata e morì ad Auschwitz. Una vera e propria traccia lasciata nel mondo, dove l’impressione della parola sul foglio smisurato è legata in modo imprescindibile al contorno della psiche dell’autore solo e perduto.
Davvero, il manuale di Perec potrebbe considerarsi a tutti gli effetti il manifesto per un teatro fisico a cui il regista francese sembra non aver mai smesso di guardare nel rispetto degli equilibri e dei vincoli che dagli spazi sono imposti ai corpi in scena. Su questa armonia di incastri si costruisce Espæce, presentato all’interno del programma di Romaeuropa Festival. Bory conduce una rassegna di automatismi, di gesti quotidiani e liturgie che individuano il soggetto solo quando è in relazione con un limite, con il confine, così che egli possa studiarne il perimetro e tramite la sua estensione apprendere del mondo intorno a sé. Il limite, l’impedimento, lo sbarramento sono misurazioni ed ecco che l’atto di congegnare una barriera alta quanto il boccascena del Teatro Argentina diviene immediatamente atto generativo dello spazio e lo spazio materia manipolabile.
Quindi la scena è essere vivente, ingloba gli uomini senza ingurgitarli e questi si adeguano con sorpresa e leggerezza alla sua trasformazione; nessun orpello, solo lo scheletro di un teatro semovente che si contorce e rivoluziona la sua corporatura servendosi solo delle sue ossa. Dunque, abitare lo spazio pare significhi lasciare che questo prenda possesso degli uomini fino a divenire gli uomini lo spazio stesso.
Verrebbe da obiettare, sulle prime, che questo tutt’uno tra scena e soggetto, questa ricchissima confusione tra le identità di agente e agìto, che addirittura si manifesta a partire dal nome con cui si presenta lo spettacolo, non distingua quelle specie, quelle “razze” che Perec divide in capitoli e scomposizioni del testo. Ma, è sensibilmente opportuno notare, in questo ben congegnato magma spaziale, che i cinque interpreti sono rispettivamente l’acrobata Guilhem Benoit, il danzatore Mathieu Desseigne Ravel, la contorsionista Katell Le Brenn, la cantante d’opera Claire Lefilliâtre e l’attore Olivier Martin Salvan, vere e proprie “razze teatrali” strette in una sorta di affinità elettiva che li ha condotti verso l’impressione di essere uno per l’altro dacché vivono. Allora, se «l’oggetto di questo libro non è esattamente il vuoto ma quello che vi è intorno, o dentro» nell’oggetto di questo teatro noi siamo dentro.
Francesca Pierri
Ideazione, Scene, Regia Aurélien Bory
Interpreti Guilhem Benoit, Mathieu Desseigne Ravel, Katell Le Brenn, Olivier Martin Salvan, Claire Lefilliâtre
Collaborazione artistica Taïcyr Fadel Luci Arno Veyrat
Composizione musicale Joan Cambon
Ideazione tecnica Pierre Dequivre
Costumi Sylvie Marcucci, Manuela Agnesini
Regia generale Arno Veyrat
Regia di palco Thomas Dupeyron, Mickaël Godbille
Regia luci Carole China
Regia del suono Stéphane Ley Automatismi Coline Féral
Direzione di produzione Florence Meurisse
Produzione Marie Reculon
Segreteria di comunicazione, Pubbliche relazioni Sarah Poirot
Ufficio stampa Dorothée Duplan (agenzia Plan Bey)
Canzone Winterreise (Le Voyage d’hiver) di Franz Schubert
Citazioni Georges Perec, Espèces d’espaces © Éditions Galilée, 1974
Produzione Compagnie 111 – Aurélien Bory
Coproduzione Festival d’Avignon, TNT – Théâtre national de Toulouse Midi-Pyrénées, Le Grand T théâtre de Loire-Atlantique Nantes, Le théâtre de l’Archipel – scène nationale de Perpignan, Théâtre de la Ville – Paris, Maison des Arts de Créteil, Le Parvis scène nationale de Tarbes Pyrénées
Residenze La nouvelle Digue-Toulouse, La FabricA-Avignon, TNT-Toulouse, CircA-Auch
La compagnie 111 – Aurélien Bory è convenzionata dal Ministère de la Culture et de la Communication – Direction Régionale des Affaires Culturelles de Occitanie / Pyrénées – Méditerranée, Région Occitanie / Pyrénées – Méditérranée e la Ville de Toulouse
Riceve il sostegno del Conseil Départemental de la Haute-Garonne
Foto © Aglaé Bory