Nell’ambito della quindicesima edizione di Contemporanea Festival, è stato presentato a Prato in prima nazionale Empire di Milo Rau. Recensione
In un fondamentale passaggio di Vita activa, Hannah Arendt ricorda: «Ogni vita umana ci racconta la sua storia, e la Storia diviene alla fine il libro dei racconti dell’umanità, con tanti uomini che vi parlano e agiscono, ma senza autori concreti». Qualcosa di simile sembra costituire la cifra di Empire: a partire da una drammaturgia che della vita dei suoi stessi interpreti è narrazione, la creazione di Milo Rau attraversa gli anni dalla Seconda Guerra Mondiale a oggi, ne disegna un quadro con un pennello intinto nel sangue di esistenze individuali, e infine investiga l’essenza stessa del teatro. Una sorta di meccanismo “ipertestuale” agisce infatti nell’opera presentata in prima nazionale al Teatro Fabbricone di Prato in occasione di Contemporanea Festival: una continua rifrazione del racconto autobiografico nella Storia sovraindividuale, e delle storie nell’arte scenica.
Le icastiche affermazioni con cui si rivelano al pubblico i protagonisti dello spettacolo – «Sono un falegname»; «Mi chiamo Akillas»; «Io sono rumena»; «Io sono il più giovane» – hanno la forma canonica di una presentazione, di una risposta possibile alla paradigmatica domanda identitaria chi sei?. È una pulsione autobiografica ad animare Ramo Ali, Akillas Karazissis, Maia Morgenstern e Rami Khalaf: un’inarrestabile ossessione per il racconto, per quel riannodare i fili della memoria e cucire attraverso la parola un tessuto decifrabile, al quale forse dare finalmente un senso. Trama e ordito hanno i colori di vicende private, eppure i disegni che emergono, a mano a mano che la spola degli sguardi e delle confessioni si muove sul palcoscenico, sono quelli della Storia. Ed è anche dalla Storia verso le storie, da un contesto pubblico a uno privato, che l’opera di Rau si svolge: è un inabissarsi nei ricordi dei quattro magistrali attori, reso scenicamente dalla rotazione della facciata di un edificio, sventrato dalle bombe di una della tante guerre contemporanee, verso il suo rassicurante interno domestico.
Caffettiere e fotografie, un tavolo, un lavello, alcune sedie, dipinti e un letto. Con cura iperrealista la scenografia di Anton Lukas ricrea un’abitazione ordinaria, forse simile a quella dove Ramo Ali è cresciuto, situata ad al-Qamishli, nel nord della Siria. È la sua voce ad aprire il commosso vaso di Pandora della memoria: l’infanzia con un padre severo è uno squarcio su un passato fronteggiato soltanto da pochi mesi, da quando durante le prove dello spettacolo decide di tornare per qualche giorno a casa. Il suo è un moto epico, un nostos che anticipa i percorsi di distacco e avvicinamento, di esodo e rimpatrio, che hanno costellato le esistenze raccontate: la fuga dalla dittatura dei Colonnelli verso la Germania per il greco Karazissis; quella attraverso tutta l’Europa di Khalaf, scappato da una Siria dilaniata dalla guerra; infine le trasferte e le emigrazioni della rumena Morgenstern, cresciuta sotto il regime di Nicolae Ceaușescu e nomade per gli obblighi di una carriera internazionale nel cinema. Il flusso ininterrotto che si dipana ha la forma consueta di una “storia di vita”, al contempo affabulazione e realtà. I lunghi frammenti monologici – interpretati da seduti, pressoché costantemente, attorno al tavolo – si susseguono in una struttura articolata per capitoli: Teoria delle origini, Esilio, Ballata dell’uomo comune, Sul lutto, e Ritorno a casa. È un percorso, al contempo ontogenetico e filogenetico, che si snoda dalla nascita alla morte, e che trova nei frequenti riferimenti a due fiumi – il mitologico Tigri e il mitteleuropeo Danubio – un correlato metaforico. Da un lato, i racconti procedono quasi cronologicamente e attraversano le vite dei quattro attori dalla gioventù, alla maturità professionale, fino alla scomparsa dei genitori o degli affetti più prossimi; dall’altro, le vicende riflettono l’ascesa e il declino delle epoche e dei loro zeitgeist, delineando una geografia storica che spazia dai regimi comunisti alle Primavere arabe, dalla Shoah al terrorismo globale.
Vivere al tempo del crollo è d’altro canto il titolo che il direttore Edoardo Donatini ha individuato per la quindicesima edizione del festival: e in questo senso Empire è la cronaca commossa di esistenze edificate sulle macerie del tempo, o sotterrate da esse. Terzo capitolo di una trilogia dedicata all’Europa odierna, lo spettacolo prodotto dall’International Institute of Political Murder tratteggia un continente in perenne equilibrio tra flussi migratori e derive totalitarie, agognata Itaca per chi adesso fugge dalle guerre e Troia avvolta dalle fiamme dei campi di concentramento e delle repressioni. Quella stessa libertà che Akillas Karazissis sperimentò nei locali equivoci della «Germania di Fassbinder» è negata a Ramo Ali nel carcere di Palmira, e i disordini della rivoluzione romena di cui Maia Morgenstern è testimone con il figlio Tudor in braccio sono speculari alle violenze e alle crudeltà con cui Bashar Al-Assad spezza le vite degli oppositori.
Gli assoli rivelano desideri e angosce, successi artistici o pulsioni erotiche, componendo così una partitura di affascinante multilinguismo – curdo, greco, rumeno, arabo – che significativamente non rappresenta, nella realtà protetta del palcoscenico, alcuna barriera: i quattro si comprendono, sorridono nei momenti di ilarità o sembrano commuoversi nelle sequenze in cui le voci si incrinano, sopraffatte dal dolore. Il pubblico del Teatro Fabbricone contempla tuttavia anche le minime, involontarie reazioni, dilaganti sui volti ripresi a turno da uno degli attori e proiettati in un enigmatico bianco e nero – come già in Five Easy Pieces – su uno schermo sovrastante la scena. È su quello stesso schermo che scorrono una breve sequenza tratta da Lo sguardo di Ulisse di Theo Angelopoulos, il video amatoriale girato da Ramo Ali nel cimitero che accoglie il padre, le crude fotografie dei volti tumefatti dalla tortura del regime di Assad: l’innesto del medium audiovisivo duplica l’azione e amplifica la ricezione emotiva dello spettatore, conferendo una patina di realtà documentaristica alla già cristallina verità delle vite vissute.
Tuttavia, l’arte di Milo Rau non si esaurisce nel ricorso a un linguaggio altro e alle possibili sovrastrutture interpretative che tale commistione determina: il ritmo dilatato di Empire, non sempre di facile fruizione, è interrotto così da fulminanti sequenze di “tradizionale” teatro. Quando Morgenstern, dopo aver dichiarato i propri tormenti di madre, recita un monologo da Medea, il “teatro nel teatro” emerge all’interno di un dispositivo che sembrava offuscare i propri aspetti performativi dietro l’autobiografismo. Ciò che appare in controluce è anche una riflessione sulla natura stessa dell’arte scenica e sul legame che essa intrattiene con la condizione umana. Perché è solo nel drama, «il cui autentico significato – continua Arendt – indica che recitare è veramente un’imitazione dell’agire», che il flusso della vita può forse essere compreso e afferrato nelle sue specifiche qualità: quelle di una tragedia che, da sempre, inizia soltanto al termine dello spettacolo.
Alessandro Iachino
Teatro Fabbricone, Prato – settembre 2017
EMPIRE
concept, testo e regia Milo Rau
testo e performance Ramo Ali, Akillas Karazissis, Rami Khalaf, Maia Morgenstern
drammaturgia e ricerca Stefan Bläske, Mirjam Knapp
scenografia e costumi Anton Lukas
video Marc Stephan
musiche Eleni Karaindrou
sound design Jens Baudisch
tecnico Aymrik Pech
assistente alla regia Anna Königshofer
assistente alla scenografia e costumi Sarah Hoemske
stagista assistente alla regia Laura Locher
stagista assistente alla drammaturgia Marie Roth, Riccardo Raschi
sottotitoli Mirjam Knapp (operatore), IIPM (traduzione)
direttore della produzione Mascha Euchner-Martinez, Eva-Karen Tittmann
una produzione di IIPM – International Institute of Political Murder
in cooperazione con Zürcher Theater Spektakel, Schaubühne am Lehniner Platz Berlin e steirischer herbst festival Graz
sponsorizzato da The Senate Administration for Culture and Europe in Berlin, Capital Culture Fund Berlin, Pro Helvetia and Migros Cultural Center
gentilmente supportato da Cultural promotion Canton St. Gallen e Schauspielhaus Graz