A Romaeuropa Festival 2017 con Birdie, abbiamo intervistato il gruppo catalano Agrupación Señor Serrano, Leone d’Argento alla Biennale di Venezia.
Fondata a Barcellona nel 2006, Agrupación Señor Serrano rintraccia i propri modi e mezzi operativi basandosi su materiali presi dalla realtà contemporanea. Lo spettacolo è specchio di una creazione intermediale di cui si mostrano in scena i processi sottesi. Questo tipo di ricerca è valso alla compagnia il Leone d’argento per l’innovazione teatrale alla Biennale di Venezia. La compagnia attualmente è formata da Alex Serrano, Barbara Bloinche e Pau Palacios, abbiamo raggiunto al telefono quest’ultimo che – come ci tiene a dire – parla sempre a nome dell’intero gruppo.
Birdie è uno spettacolo che ha già incontrato numerosi pubblici in Europa. Negli ultimi anni lavorate molto all’estero, mentre la vostra presenza in Spagna sembra meno assidua. Quali motivi stanno dietro questa scelta?
Sì, effettivamente il nostro lavoro è visto più all’estero che in Spagna. Lo scorso anno circa l’80% dei nostri spettacoli era fuori dai confini nazionali. Negli anni passati la differenza era ancora più netta. È una scelta obbligata, in parte, ma anche voluta. Quando abbiamo iniziato a lavorare a Barcellona dal 2006 fino al 2010 avevamo circa 20/30 repliche all’anno in Spagna. All’improvviso nel 2010 siamo passati a 3. È stata una scelta politica del Partito Popolare di destra che, con la scusa della crisi, ha cominciato a tagliare tutti i fondi a quel tipo di arte contemporanea, teatro o danza, che sembravano “disturbare”. Molti festival da un anno all’altro sono scomparsi definitivamente.
In parallelo, in quello stesso periodo, stavamo provando a cambiare il nostro tipo di linguaggio scenico. Questo insieme di situazioni ci ha portato a cercare un mercato internazionale. Abbiamo cominciato a fare spettacoli dove il video, le immagini, le azioni erano più importanti della lingua parlata e quindi del contenuto testuale. Dal 2011 e per tutti questi ultimi 7 anni ci siamo dati da fare in questo senso. Poi quando abbiamo vinto il Leone d’argento per l’innovazione teatrale alla Biennale di Venezia 2015, persino i festival e i teatri spagnoli hanno cominciato a capire che magari era il caso di programmarci.
Oggi lavorate molto o quasi esclusivamente con oggetti, pupazzi, giochi e video. La scelta di mettere da parte il lavoro con gli attori da dove nasce?
Ci sono più ragioni, parliamo sempre degli anni della crisi, un periodo in cui eravamo anche in crisi creativa e stanchi di ragionare con attori e ballerini. Avevamo bisogno di un cambio, e soprattutto non volevamo che il nostro lavoro durasse fino al giorno della prima dello spettacolo, quando poi in parte diventa proprietà degli attori. Volevamo metterci in gioco e difendere con la nostra pelle quello che avevamo creato. Eravamo stati invitati in Francia, dovevamo lavorare con ballerini e attori tutti francesi, allora non parlavamo bene la lingua e, stanchi di provare a farci capire abbiamo deciso per un lavoro indipendente. È da allora che abbiamo cominciato a lavorare con video e oggetti, e ci siamo accorti della forza che riescono a trasmettere.
In questo approccio c’è anche la volontà di mostrare le dinamiche del vostro lavoro registico?
Tutto quello che serve per fare lo spettacolo, anche la regia tecnica, è visibile al pubblico. Il teatro è un trucco e quello che vogliamo fare è far vedere un risultato, ma anche come si produce questo trucco. È una cosa a cui teniamo molto. Lavoriamo col video, che è un media e quindi una costruzione… se ti presento solo il risultato di questa costruzione tu lo percepisci in un modo, se invece ti faccio vedere come stiamo costruendo questo racconto mediatico è un’altra cosa. Il racconto mediatico è sempre una costruzione non è una cosa vera o valida per sé. C’è dietro un trucco e questo è quello che ci piace mostrare.
Il vostro lavoro si svolge molto attraverso residenze artistiche e dimostrazioni aperte al pubblico prima di giungere a un risultato finale. Questa dimensione di scambio che cosa restituisce?
Quando nel 2011 abbiamo iniziato a lavorare con questo diverso tipo di linguaggio scenico abbiamo capito che era preferibile lavorare per tappe, piuttosto che scrivere tutto un testo. Questo ci permette di provare i materiali e capire se quello che stiamo raccontando sta arrivando o meno; se un’idea che noi crediamo geniale davanti al pubblico è efficace o no. È di certo un tipo di approccio che ci permette di sviluppare le idee lasciandole evolvere, sedimentandole e creando diversi strati per interpretarle. E dall’altro lato ci assicura che quello che noi vogliamo dire sia quello che sta arrivando allo spettatore.
Vi è capitato di dover cambiare decisamente rotta dopo una di queste dimostrazioni aperte?
Assolutamente sì, per esempio con Birdie che presentiamo a Romaeuropa. Dopo la prima residenza creativa, e dopo un anno di lavoro abbiamo buttato via tutto. È stato un processo molto difficile: parlavamo di migranti e rifugiati, nel periodo più pesante della crisi, e così coinvolti emozionalmente eravamo incapaci di trovare il punto di vista per trattare l’argomento. Noi facciamo un teatro che è molto documentato ma per niente documentale, nel senso che creiamo una finzione con materiali che sono veri. Lo facciamo attraverso una metafora. In Birdie parliamo delle migrazioni però in tutto lo spettacolo non si vedono migranti o rifugiati: sono animali, uccelli, notizie di giornali. Affrontiamo l’argomento facendo un passo indietro per avere una certa distanza, per non lasciarci trasportare dalle emozioni che quel tema ci provoca, provandolo a capire nella sua complessità.
Doriana Legge