Teatrosofia esplora il modo in cui i filosofi antichi guardavano al teatro. Il numero 68 narra come Democrito suppose che le arti – quindi, presumibilmente anche la recitazione – traessero origine dall’imitazione degli animali.
IN TEATROSOFIA, RUBRICA CURATA DA ENRICO PIERGIACOMI – COLLABORATORE DI RICERCA POST DOC DELL’UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRENTO – CI AVVENTURIAMO ALLA SCOPERTA DEI COLLEGAMENTI TRA FILOSOFIA ANTICA E TEATRO. OGNI USCITA PRESENTA UN TEMA SPECIFICO, ATTRAVERSATO DA UN RAGIONAMENTO CHE COLLEGA LA STORIA DEL PENSIERO AL TEATRO MODERNO E CONTEMPORANEO.
È un pregiudizio ancora vivo nella storiografica contemporanea che i primi filosofi (i cosiddetti “Presocratici”) sarebbero stati, come voleva Aristotele, indagatori delle cause o dei principi primi della realtà, e che l’iniziatore di tale ricerca sarebbe stato Talete di Mileto. La filosofia delle origini sarebbe stata così un’attività squisitamente teoretica. Solo molto dopo si sarebbero introdotte, invece, le prime riflessioni estetiche e morali. Sarebbe perciò apparentemente futile cercare nei Presocratici una riflessione pur semplicista sul teatro e sull’attore. Essa sarebbe una finezza che pensatori così “primitivi” non potevano ancora concepire, perché impegnati a fondare le basi di un sapere tutto teorico e per nulla pratico, né artistico.
Vi sono ragioni cogenti per pensare, però, che questa idea aristotelica sia una pura invenzione da sfatare. Figure quali Solone, Senofane, Ione di Chio sono chiari esempi di come già in epoca cosiddetta “presocratica” si riflettesse seriamente su questioni a metà tra l’etico e l’estetico. L’indagine di questi personaggi sul teatro e sugli attori appare essere, tuttavia, molto estemporanea e rapsodica. Un caso di indagine “sistemica” sull’argomento figura apparentemente per la prima volta in Democrito. Egli se ne occupò, infatti, da punti di vista diversi, ma correlati.
Abbiamo già visto in un precedente appuntamento come Democrito potesse aver descritto il lavoro dell’attore, anzitutto, attraverso la sua dottrina fisica atomista. Per sintetizzare al massimo, essa prevede che dagli artisti si distacchino simulacri (= masse di atomi) che danno luogo all’esperienza intensa del teatro. Questa idea era rimasta allora, però, a livello della pura ipotesi: nessuna testimonianza dice ciò anche solo indirettamente, se non forse un controverso luogo del libro IV del De rerum natura di Lucrezio. Si può però adesso provare a corroborarla mostrando come, appunto, Democrito si interessò al fenomeno performativo da altri e complementari punti di vista. Non sorprende constatare che egli se ne potrebbe essere occupato anche dalla prospettiva storica. Stando a una testimonianza del Sull’intelligenza degli animali di Plutarco, Democrito suppose, infatti, che le arti – quindi, presumibilmente anche la recitazione – traessero origine dall’imitazione degli animali. Il canto fu appreso, ad esempio, per aver imitato i versi degli uccelli. È vero che Plutarco non menziona in maniera esplicita la recitazione. Ma dato che Eliano – autore del Sulla natura degli animali in 17 libri – registra un’antica credenza dell’esistenza di uccelli che “recitano” o riproducono mimeticamente i suoni della natura, e giacché non si può escludere che Democrito fosse tra i primi studiosi della natura che osservarono il fatto, si potrebbe dedurre che, per lui, gli esseri umani delle origini appresero a recitare imitando queste bestie particolarmente intelligenti.
Una testimonianza del Sull’architettura di Vitruvio ci informa inequivocabilmente, invece, che Democrito indagò il teatro anche dalla prospettiva epistemologica. Pare che l’atomista fosse partito – insieme ad Anassagora – dagli appunti del pittore Agatarco su una sua scenografia di una tragedia di Eschilo per scrivere un testo di prospettica, attraverso cui cercò di spiegare come si producessero le illusioni che hanno luogo sul palco (per esempio, come accade che gli oggetti dipinti sul fondo della scena appaiano oggetti reali sporgenti verso lo spettatore). La fonte di Vitruvio non ci mostra solo la fine intelligenza di Democrito, ma anche un interesse profondo verso l’arte scenografica e la letteratura allora più recente sul tema.
Un indizio piccolo ed eloquente del marcato interesse dell’atomista (condiviso, in questo caso, anche dal suo maestro Leucippo) verso l’ambito performativo è poi un paragone con la tragedia e la commedia, per spiegare in che modo un cambiamento anche piccolissimo nella struttura degli atomi di un aggregato possa produrre enormi cambiamenti. Infatti, come un testo drammatico può diventare tragico da comico che era con l’alterazione anche di poche lettere di una didascalia, per esempio mutando “Samuele riconosce il figlio e lo abbraccia” in “Samuele disconosce il figlio e lo ammazza”, così un uomo in salute può all’improvviso ammalarsi di tumore al cervello, grazie al cambiamento di ordine, posizione o natura di una manciata di atomi che compongono quell’organo.
Mantenendo la debita cautela, potremmo anche supporre, partendo da un frammento in cui Democrito dichiara che Omero «creò un magnifico mondo di parole di ogni genere», cioè l’Iliade e l’Odissea, che questo paragone con la tragedia e la commedia potesse servire anche a spiegare un’altra importante dottrina democritea: la molteplicità dei mondi. Democrito paragona qui, del resto, la creazione poetica alla nascita di un cosmo, adducendo forse l’idea che i processi che determinano entrambe sono i medesimi, ossia appunto la presenza, la posizione e l’ordine di specifici elementi indivisibili (le lettere per la poesia, gli atomi per il complesso cosmico). Ne segue che, come le stesse lettere possono comporre la comica Pace di Aristofane e le tragiche Trachinie di Sofocle, così gli stessi atomi possono produrre sia un mondo dove tutti gli esseri viventi trascorrono in serenità l’esistenza in comune, sia un mondo senza sole, dove dunque non può esservi vita. Insieme, atomi e lettere compongono rispettivamente gli universi paralleli della natura e della poesia.
Di sapore più tecnico è, di contro, uno studio di Democrito dei vv. 385-393 del libro VII dell’Iliade. Pare che questo passo omerico fosse oggetto di un dibattito filologico sul significato del v. 390. L’araldo Ideo dei Troiani – venuto nel campo acheo per riferire che, al fine di interrompere la guerra in corso, Paride è disposto a cedere i beni trafugati in Grecia e ad aggiungere anche del suo, ma non a rendere Elena – si lascia qui sfuggire l’imprecazione «ma fosse [Paride] morto prima!», sollevando ai critici antichi la questione se il personaggio l’avesse pronunciata ad alta voce, forse per accattivarsi il favore degli Achei, oppure «a se stesso e sottovoce». Tra le due alternative, Democrito favorisce la seconda, per ragioni non facilmente verificabili. Alla luce dei frammenti democritei superstiti, possiamo supporre tre interpretazioni:
1) dato che Democrito pensa che una persona saggia debba parlare solo nel momento opportuno e, all’occorrenza, tacere, il saggio Ideo non manifesta al pubblico il suo odio verso Paride, ma (in quanto è in missione diplomatica ufficiale), preferisce non parlare apertamente;
2) poiché Democrito considera la parola come l’ombra dell’azione, ossia che a determinati discorsi corrisponderanno determinati atti (e.g., alla bestemmia contro gli dèi seguirà un atto di vandalismo contro i templi divini), allora conclude che Ideo non dice ad alta voce «ma fosse morto prima!», perché altrimenti avrebbe cercato in seguito di uccidere Paride (cosa che, invece, Omero non racconta mai);
3) giacché Democrito ritiene che la voce sia un aggregato atomico e che i cattivi sentimenti emanino atomi dannosi per la persona verso cui sono rivolti (ad esempio, gli invidiosi rilasciano simulacri che provocano danni all’individuo invidiato), allora deduce che Ideo non dice la sua battuta ad alta voce, per non colpire Paride con particelle nocive.
Quale che sia la lettura corretta o più plausibile, il dato interessante che merita di essere qui rilevato è che Democrito considera il v. 390 come un «a parte» del discorso di Ideo. Ciò è un fatto non trascurabile. Ci dice, infatti, che l’atomista concepiva l’Iliade come un testo teatrale, dove determinati personaggi pronunciano battute che non sempre vanno dette ad alta voce.
Infine, a Democrito va riconosciuto uno spiccato interesse etico verso il teatro. A lui va ricondotta, del resto, la prima attestazione nota della metafora della vita come una recita, che sarà ripresa dal suo discepolo Anassarco. Per il maestro Democrito, essa ha un valore morale. Paragonando il cosmo a una grande scena, dove la nostra vita è solo una fugace comparsa, egli invita il lettore ad accettare i limiti della propria esistenza mortale, dunque ad basare la sua condotta sul senso della misura e del limite, nonché a non temere l’esistenza di un Ade dove la sua anima vagherà in eterno. Il discepolo Anassarco fa ricorso alla metafora, di contro, in senso epistemologico. Il mondo è illusorio, come illusoria è la scenografia di un’opera teatrale. Non possiamo pertanto comprenderne l’esatta natura o funzionamento, perché le nostre facoltà conoscitive sono troppo deboli e confuse per poter dire di esso qualcosa di sensato.
I passi raccolti e brevemente esaminati ci mostrano, insomma, che Democrito si interessò al teatro a partire almeno dalle seguenti discipline: la fisica, la metafisica, l’epistemologia, la storia, la critica letteraria o poetica, l’etica. Su quest’ultimo versante, vale forse la pena dire ancora qualcosa in più. Esso può mostrarci, infatti, come il teatro potesse rappresentare qualcosa di davvero essenziale per la concezione filosofica dell’atomista.
Il bello rappresenta, per Democrito, una componente essenziale del vivere bene e felicemente. È improntando la nostra condotta morale ad esso che noi apprendiamo, del resto, ad agire correttamente, ad odiare l’ingiustizia, a distinguere i piaceri dannosi da quelli benefici e ad innalzare la nostra intelligenza a livelli divini. Ora, dato che il teatro ci mette il contatto col bello, Democrito potrebbe credere che esso e i suoi attori sono capaci di perfezionare sia il nostro carattere, sia le nostre attività. Bellezza è verità, ma anche (se non soprattutto) integrità morale. Potremo pertanto divenire agenti morali puri, secondo la prospettiva democritea, amando di più il piccolo mondo del teatro, così da calarci al meglio nella scena del mondo più grande (seppur effimera) quale è la vita.
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Ci dev’essere una qualche sostanza, o una più di una, da cui le altre cose vengono all’esistenza, mentre essa permane. Ma riguardo al numero e alla forma di tale principio non dicono tutti lo stesso: Talete, il fondatore di tale forma di filosofia, dice che è l’acqua (e perciò sosteneva che anche la terra è sull’acqua): egli ha tratto forse tale supposizione vedendo che il nutrimento di tutte le cose è umido, che il caldo stesso deriva da questa e di questa vive (e ciò da cui le cose derivano è il loro principio): di qui, dunque, egli ha tratto tale supposizione e dal fatto che i semi di tutte le cose hanno natura umida – e l’acqua è il principio naturale delle cose umide (Aristotele, Metafisica, libro I, 983b17-27 = Talete di Mileto, fr. 11 A 12 DK)
Ma forse ci rendiamo ridicoli a celebrare la capacità di apprendimento degli animali, quando Democrito dichiara che noi siamo stati i loro discepoli nelle cose più grandi: del ragno nelle arti del tessere e del cucire, della rondine in quella del costruire case, e degli {uccelli} canori, {cioè} del cigno e dell’usignolo, nel canto – {ne siamo stati i discepoli} mediante imitazione (Plutarco, Sull’intelligenza degli animali, passo 974A6-10 = Democrito, fr. 68 B 154 DK)
La gazza sa imitare molto bene le voci degli altri animali, ma in particolare quella degli uomini. La cutrettola, la salpinx, il torcicollo e il corvo hanno una particolare attitudine alle seguenti imitazioni. La cutrettola sa riprodurre il nitrito del cavallo, la salpinx imita lo strumento di cui porta il nome (la tromba), il torcicollo imita il flauto, il corvo invece cerca di imitare il rumore delle gocce di pioggia (Claudio Eliano, La natura degli animali, libro VI, § 19)
Per primo Agatarco di Atene, quando Eschilo si trovò a far rappresentare una sua tragedia, costruì una scena e lasciò un commento al riguardo. Istruiti da lui, Democrito e Anassagora scrissero sulla stessa questione, {cioè} in che modo convenga che, allo sguardo {dello spettatore} e all’estensione dei raggi, una volta definito un punto determinato come centro, corrispondano le linee {del disegno} secondo una proporzione naturale, di modo che, a partire da qualcosa di indistinto, delle immagini distinte possano dare alle pitture sulla scena l’aspetto di edifici, e che le figure tracciate su superfici piane e verticali sembrino ora rientrare ora sporgere (Vitruvio, Sull’architettura, prefazione al libro VII, § 11 = Democrito, T190.1 L.)
Democrito e Leucippo, invece, postulano le figure [atomiche] e fanno derivare da queste l’alterazione e la generazione, {spiegando} la generazione e la corruzione con la disaggregazione e l’aggregazione, l’alterazione con l’ordine e la posizione {delle figure}. Dato che ritenevano che la verità sta nei fenomeni e {constatando} che i fenomeni sono contrari e infiniti {per varietà}, fecero infinite le figure {stesse}, così che per i mutamenti del composto la stessa cosa si presenta contraria a persone differenti, ed {essa} si trasforma {di già} quando qualcosa di piccolo viene a mescolarsi {in essa} e, in generale, appare diversa quando {anche} un unico {fattore} sia trasposto. In effetti è dalle stesse lettere che si genera sia una tragedia sia una commedia (Aristotele, Sulla generazione e corruzione, libro I, passo 315b6-15 = Leucippo, fr. 67 A 9; Democrito, T50.2 L.)
Democrito si esprime a questo modo circa Omero: «Omero, avendo avuto in sorte una natura divina, ha creato un insieme ordinato di versi di ogni genere», come se non fosse possibile produrre parole così belle e sagge senza una natura divina e demonica (Dione Crisostomo, Su Omero [= Orazione 53], § 1; trad. leggermente modificata)
I mondi sono infiniti e differenti per gradezza: in alcuni non c’è né il sole né la luna, in altri sono più grandi che da noi, e in altri ancora sono più di uno (Pseudo-Ippolito, Confutazione di tutte le eresie, libro I, cap. 13, § 1 = Democrito, fr. 68 A 40 DK)
Atridi, e voi tutti, principi degli Achei, / Priamo mi manda e gli altri nobili Teucri, / a dire, se a voi caro e gradito tornasse, / parola d’Alessandro, per cui nacque la guerra: / i beni quanti Alessandro sopra le navi curve / portò a Troia – ma fosse morto prima! – / tutti consente a renderli, e dare altro del suo. / La legittima sposa di Menelao glorioso / dice che non darà: eppure i Teucri lo spingono (Omero, Iliade, libro VII, vv. 385-393)
La {frase} “Che fosse morto prima!” l’araldo la enuncia {quando viene menzionato Paride}, o ad alta voce per essere sentito pure dai Greci, in modo da ottenere la loro comprensione per gli altri Troiani in quanto erano anch’essi in collera {con Paride}, oppure a bassa voce e rivolto a se stesso, come riteneva Democrito che giudicava non conveniente essere detta in modo manifesto; entrambe {le interpretazioni} vanno date (Scolio all’Iliade di Omero, libro VII, v. 390 = Democrito, fr. 68 B 23 DK)
Proprio della libertà [di parola] è la franchezza, ma c’è rischio nel riconoscere il momento opportuno (Stobeo, Florilegio, libro III, cap. 13, § 46 = Democrito, fr. 68 B 226 DK).
Inoltre bisogna tenere i figli lontani dal linguaggio del vituperio, perché, secondo Democrito: «Il discorso è l’ombra dell’opera» (Plutarco, Sull’educazione dei fanciulli, passo 9f9-10A1 = Democrito, fr. 68 B 145 DK)
Democrito e poi Epicuro dicono che la voce consiste in corpi indivisibili e la chiamano – per usare le loro stesse parole – «flusso di atomi» (Aulo Gellio, Notti Attiche, libro V, cap. 15, § 8 = Democrito, T94.4 L.)
Degli idoli di Democrito (…) voi non ne tenete nessun conto e non ne fate parola, come se si trattasse di Egiensi o di Megaresi: quegli idoli} che egli dice essere emessi dai malevoli, (683A) essendo non completamente privi di sensibilità e di impulso, anzi essendo pieni della malvagità e del maleficio di coloro che li emettono, recandone l’impronta e stabilendosi e soggiornando nelle vittime del maleficio, disturbano e arrecano male al loro corpo e alla loro mente. Questo credo che sia quanto esprime l’uomo nella sua opinione {effettiva}, pur usando un linguaggio ispirato ed elevato. (Plutarco, Discorsi a tavola, libro V, passo 682F4-683A8 = Democrito, fr. 68 A 77 DK)
Il cosmo è una scena, la vita un’entrata in essa: arrivi, vedi, abbandoni (Massime di Democrate, sentenza n. 84 = Democrito, fr. 68 B 115 DK; trad. mia)
Anassarco e Monimo, poi, [eliminano il criterio di conoscenza della realtà] perché riducevano la realtà ad una scenografiae ritenevano le cose reali non diverse da quelle che ci si presentano nel sogno o nel delirio (Sesto Empirico, Contro i dogmatici, libro VII, § 88 = Anassarco, fr. 72 A 16 DK)
Bisogna sapere che la vita umana è fragile e di breve durata e mescolata a molte sciagure e difficoltà, in modo che uno si preoccupi di un possesso misurato e che la sua sofferenza sia misurata in relazione al necessario (Stobeo, Florilegio, libro IV, cap. 34, § 65 = Democrito, fr. 68 B 285 DK)
Alcuni uomini, non riconoscendo la dissoluzione della {nostra} natura mortale con la coscienza del loro male agire nella vita, passano miseramente il tempo della vita in turbamenti e in paure, inventando racconti falsi circa il tempo dopo la fine della vita (Stobeo, Florilegio, libro IV, cap. 52, § 40 = Democrito, fr. 68 B 297 DK)
In modo comune Democrito e Platone pongono la felicità nell’anima. L’uno [scil. Democrito] scrive a questo modo: “La felicità e l’infelicità è dell’anima”. “La felicità non dimora né nel bestiame né nell’oro; è l’anima la dimora del demone”. La felicità ovvero il buon animo e il ben-essere e l’armonia egli la chiama equilibrio e ‘atarassia’. Essa { egli dice} si costituisce a partire dalla definizione e discriminazione dei piaceri, e questa è la cosa più bella e più utile agli uomini (Stobeo, Florilegio, libro II, cap. 7, § 3i = Democrito, fr. 68 A 167 DK)
Nobile è essere di ostacolo a colui che si comporta in modo ingiusto, altrimenti non condividere l’ingiustizia
È bello parlare bene { di qualcuno} a proposito di azioni belle, giacché {farlo} nel caso di quelle malvagie è opera di chi è falso e ingannevole
L’amore giusto sta nd perseguire senza insolenza le cose belle
È proprio della mente divina rivolgere sempre il pensiero a qualcosa di bello (Massime di Democrate, sentenze nn. 4, 28, 38, 78 = Democrito, fr. 68 B 38, 63, 73, 112 DK)
Le grandi gioie risultano dal contemplare le opere belle (Stobeo, Florilegio, libro III, cap. 3, § 46 = Democrito, fr. 68 B 194 DK)
Bisogna perseguire non ogni piacere ma quello che ha sede nel bello (Stobeo, Florilegio, libro III, cap. 5, § 22 = Democrito, fr. 68 B 207 DK)
[Le traduzioni della testimonianza iniziale di Aristotele su Talete e della fonte di Sesto Empirico su Anassarco sono liberamente consultabili al sito: http://ancientsource.daphnet.org . Laddove non è indicato, la resa italiana delle testimonianze e dei frammenti su Democrito è di Walter Leszl (a cura di), I primi atomisti, Firenze, Olschki, 2009. Infine, la traduzione del passo di Eliano è di Francesco Maspero (a cura di), Claudio Eliano: La natura degli animali. Libri I-VIII, Milano, Rizzoli, 2002. Quando un testo democriteo è accompagnato dalla sigla “DK”, vuol dire che è tratto da Hermann Diels, Walter Kranz (Hrsg.), Die Fragmente der Vorsokratiker, Berlin, Weidmann, 1956 (lo stesso vale per le citazioni da Talete e Anassarco). Quando è seguito dalla sigla “L.”, è citato invece dalla raccolta di Walter Leszl]Enrico Piergiacomi
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