Teatrosofia esplora il modo in cui i filosofi antichi guardavano al teatro. Il numero 67 narra come i poeti spesso paragonino le manifestazioni naturali a veri e propri spettacoli, come nel caso del poemetto Etna di un anonimo poeta latino.
IN TEATROSOFIA, RUBRICA CURATA DA ENRICO PIERGIACOMI – COLLABORATORE DI RICERCA POST DOC DELL’UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRENTO – CI AVVENTURIAMO ALLA SCOPERTA DEI COLLEGAMENTI TRA FILOSOFIA ANTICA E TEATRO. OGNI USCITA PRESENTA UN TEMA SPECIFICO, ATTRAVERSATO DA UN RAGIONAMENTO CHE COLLEGA LA STORIA DEL PENSIERO AL TEATRO MODERNO E CONTEMPORANEO.
Una lunga tradizione filosofica presenta la natura come la sede di grandi spettacoli, che vale la pena studiare o di per se stessi, o per ricavarne giovamento morale. Del primo avviso furono già l’autore dell’appendice alle Leggi di Platone (= l’Epinomide, forse composto da Filippo di Opunte) e Aristotele. Essi sostengono che lo studio del “teatro della natura” – diversamente dai lavori allestiti dagli attori – si coltiva senza alcuna spesa e per il puro fine di conoscere senza interesse. L’idea che la visione degli spettacoli naturali può giovarci sul piano morale fu, invece, di Seneca, che sosteneva che capire come funziona il mondo retto dalla provvidenza divina ci permette di porci al di sopra delle nostre miserie terrene.
In questa tradizione, va annoverato anche il poemetto Etna di un anonimo autore latino. Dedicato alla spiegazione delle cause delle eruzioni del vulcano siciliano, esso è conservato nella cosiddetta Appendix vergiliana: una raccolta di componimenti poetici che per un lungo arco dell’antichità erano ascritti al giovane Virgilio. Oggi la paternità dell’Etna è lasciata prudentemente ignota. Gli studiosi risultano, invece, pressoché unanimi nel riconoscere al poeta una cultura scientifico-filosofica e nel datare l’opera nell’età senecana. Il poeta dell’Etna mostra, infatti, di imitare bene autori come Lucrezio, Ovidio, Manilio e sostiene che il Vesuvio è inattivo, dunque ignora la violenta eruzione che, nel 79 d.C., colpirà l’odierna Campania.
Il poeta paragona le eruzioni vulcaniche a meravigliosi spettacoli, in continuità con i suoi predecessori. Come Aristotele, egli ritiene che il teatro della natura sia più bello delle opere umane, quindi – ma va ammesso che il testo non le menziona esplicitamente – anche delle creazioni degli attori. I vv. 568-572 dell’Etna riportano, infatti, che tutti noi rischiamo spesso la morte, viaggiando per mare e per terra, al fine di soddisfare il nostro bisogno di vedere luoghi esotici, di ricordare il passato attraverso la visita ad antichi monumenti, di confutare le false leggende che circolano intorno a una città e di provare il piacere dello stare in mezzo alla folla, quando potremmo raggiungere maggiore appagamento contemplando gli spettacoli naturali. L’Etna stesso garantisce, peraltro, quasi tutte le esperienze che offrono le opere umane, senza in più il rischio di esporsi a morte: lo possiamo contemplare, dopo tutto, restando al sicuro in un’area sopraelevata. Il vulcano siciliano si trova in un luogo esotico, ricorda avvenimenti lontani (come il racconto dei due fratelli pii che si fermarono a salvare i genitori, durante un’eruzione di lava), attira su di sé false leggende che il poeta confuta con compiacimento all’inizio del poemetto. Solo il “bagno di folla” è negato dall’Etna e non è mai menzionato positivamente nel poemetto, ma si può supporre che l’autore non consideri desiderabile questa esperienza, o creda che lo studio della natura colmi la solitudine del ricercatore, mettendolo a contatto con molte impareggiabili meraviglie.
Il poeta conviene poi con Seneca nel ritenere che lo studio delle eruzioni etnee sia di giovamento sul piano morale. Esso procura piacere, ci dota di uno statuto divino assimilandoci alle stelle, elimina le stolte paure e le relative superstizioni che derivano da una mancata conoscenza del fenomeno vulcanico. In questo senso, il poemetto dell’Etna non propone un sapere scientifico disinteressato, bensì uno capace di condurre meglio la vita: offre dei rimedi pratici ai nostri tormenti, oltre che una teoria solida e soddisfacente.
Il confronto con la tradizione rappresentata da Aristotele e Seneca evidenzia che l’autore dell’Etna non sostiene in sé nulla di innovativo. Egli manifesta una certa originalità, tuttavia, almeno per due aspetti. Il primo è che, forse, il poeta dell’Etna interpreta in senso letterale quello che Aristotele e Seneca intendevano, invece, in senso metaforico. Questi ultimi due pensatori non credevano realmente che i fenomeni della natura fossero spettacoli in senso proprio, dove cioè è possibile distinguere degli spettatori che osservano/ascoltano e degli attori che agiscono. Invece, il nostro poeta pare stabilire qualcosa del genere, almeno nei punti in cui “personifica” gli elementi naturali e attribuisce loro attività antropomorfe. Un esempio tra i tanti è il punto in cui il vento è paragonato a un condottiero che comanda al fuoco del vulcano dove andare a combattere. Sembra di trovarsi, a tutti gli effetti, di fronte a una “scena” di gruppo, in cui il corifeo-vento guida le fiamme-coro in una data direzione. Se tale interpretazione è plausibile, ne seguirà che il poeta descrive le eruzioni vulcaniche seguendo un impianto drammatico. Gli elementi sono gli attori del dramma, l’Etna il palcoscenico, la natura il regista, l’eruzione il punto di svolta della drammaturgia, lo studioso di fisica il privilegiato spettatore che guarda tutto l’accadimento con meraviglia.
Il secondo tratto originale del poeta dell’Etna è la scelta dell’Etna in sé come esempio di spettacolo naturale grandioso e meritevole di essere indagato. Generalmente, gli autori che esaltano il teatro della natura fanno riferimento ai fenomeni celesti che a quelli terrestri. Il cielo è per loro superiore alla terra, tanto che un poeta-filosofo latino come Manilio canta, nei suoi Astronomica, che l’essere umano è nato per contemplare le meraviglie del cielo e la danza delle stelle che ha luogo in alto. L’autore del nostro poemetto è, invece, del parere inverso. Contro Manilio, egli nega che i fenomeni celesti siano conoscibili, tanto che dichiara “empi” tutti coloro che tentano di penetrare i loro segreti e gli dèi che, apparentemente, abitano in alto, invitando a studiare invece meglio quanto avviene sulla terra. Le cause dell’Etna sono note e dimostrabili. Non lo stesso può dirsi dei moti celesti, che sono per natura sottratti allo sguardo umano.
Se volessimo concludere con una suggestione volutamente anacronistica, ma che rafforza il proposito etico del poeta dell’Etna, potremmo dire che egli rovescia ante litteram in senso positivo la visione pessimistica di Montale, che nella poesia Falsetto di Ossi di seppia sospira di essere «della razza / di chi rimane a terra». Egli vede in negativo questa condizione, perché pensa che la voce poetica non è in grado di spiccare il volo in alto nella vita, come la giovane Esterina. Questo radicarsi in basso è per l’autore dell’Etna, invece, un tratto positivo e qualcosa da accogliere con gioia. Gli eventi terrestri sono altrettanto misteriosi e belli di quelli celesti, con la virtù aggiuntiva di essere in sé più comprensibili.
——————————
Tutte queste potenze e i corpi celesti che si muovono in esse, chi di moto proprio, chi perché portato in giro dai carri, nessuno di noi temerariamente creda che siano in alcuni casi dèi, in altri no, che alcuni siano figli legittimi di dèi e altri altre cose che non è neppur lecito menzionare. Noi tutti, invece, affermeremo e proclameremo che ognuno di loro è fratello dell’altro e coinvolto in una sorte analoga, e attribuiremo loro i medesimi onori, non consacrando ad uno l’anno, ad un altro il mese, ad altri, invece, nessuna parte, né un tempo nel quale possano percorrere la loro orbita, contribuendo così al compimento di quell’ordine che la Ragione, la realtà più divina, ha predisposto che fosse mostrato a noi. A tale vista, il fortunato spettatore dapprima è colto da meraviglia; poi viene spinto dal desiderio di apprendere quanto alla natura umana è possibile, nella convinzione che solo così potrà vivere la vita più nobile e felice in assoluto e, una volta morto, andarsene verso i luoghi propri della virtù. Proprio come un uomo iniziato ai misteri, in sé unitario e partecipe di un solo sapere, trascorre il resto del tempo come spettatore delle realtà più belle che la vista può offrire (Pseudo-Platone [Filippo di Opunte?], Epinomide, passo 986b-d)
Che, se la terra fosse compatta, se stesse tutta in un blocco, / non darebbe alcuno spettacolo di sé degno di esser visto / e se ne starebbe pigra e immobile, ammassata nel suo peso (Etna, vv. 155-157)
Poi, quando [i venti] si sono rafforzati con l’indugio, più velocemente premono, / spingono masse opponendovisi e ne rompono i vincoli, / qualunque cosa si ponga di traverso la oltrepassano, per l’urto / l’impeto diviene più forte, la fiamma arricchita dal molto materiale / predato risplende e, correndo nei vasti campi, li inonda. / Così i venti rinnovano spettacoli a lungo sopiti (Etna, vv. 379-384)
Questa stessa terra tuttavia già da tempo si sarebbe spenta / se furtivamente il vicino siculo monte non apportasse / materiale e legname e, attraverso uno stretto canale, / non spingesse i venti qua e là, alimentando i fuochi. / Ma questo fenomeno si presenta più chiaro se osservato / attraverso indizi e segni sicuri, né cerca di ingannare lo spettatore (Etna, vv. 444-449)
Per visitare splendide opere e templi ornati dalla ricchezze / degli uomini o richiamare alla memoria sacre antichità, / condotti per mari e per terre corriamo rasentando la morte / e avidi scalziamo le falsità delle antiche leggende / e ci fa piacere andare in giro tra tutte le genti. (…) Pensi di dover visitare queste cose e sei incerto se per terra o per mare? / Guarda la grande opera creata dalla natura artefice, non vedrai / nessuno spettacolo tanto grande tra le cose umane (Etna, vv. 568-572 e 599-601)
Allora sarà conveniente fuggire impauriti e lasciar spazio / ai divini fenomeni: osserverai ogni cosa dal sicuro di un colle (Etna, vv. 464-465)
Infatti degli ottimi figli, Anfìnomo / e suo fratello, forti di fronte ad uno stesso compito, / quando già gli incendi [dell’Etna] strepitavano nelle case vicine, / vedono che il padre attardato e la madre, ahimè, stanchi / per la vecchiaia, si sono fermati sulla soglia. / Smettila, o avida schiera, di raccogliere ricche prede: / la loro unica ricchezza sono la madre e il padre, / trascinano via questa preda e si affrettano a uscire in mezzo / al fuoco, che dà loro fiducia. O pietà, massima tra tutte le cose / e a buon diritto virtù più sicura per l’uomo! / Le fiamme si vergognarono di toccare i pii giovani / e, dovunque essi portano il passo, indietreggiano. / Felice quel giorno, benedetta è quella terra! (Etna, 624-637)
Innanzitutto la fallacia dei poeti non faccia credere ad alcuno / che questa [la fornace dell’Etna] sia la sede di un dio, che dalle tumide fauci / fuoriesca il fuoco di Vulcano, e che dalle chiuse caverne / risuoni la sua opera febbrile. Non hanno gli dèi occupazioni / tanto vili, né è lecito abbassare i celesti alle più umili attività: / regnano essi sublimi nel cielo a noi nascosto, / né si curano di trattare lavori di artefici. / Si discosta dalla prima quest’altra invenzione dei poeti: / dicono che i Ciclopi facessero uso di quelle fornaci, / quando i vigorosi sull’incudine, con numerosi colpi / di pesante martello, forgiavano il fulmine tremendo con cui / armare Giove: fola poetica spregevole e senza credito. / Un’altra molto simile empia leggenda fa derivare i vivaci fuochi dalla cima etnea dai campi Flegrei. / Tentarono un tempo i Giganti, cosa nefanda, di cacciar giù / le stelle dalla volta celeste, di annettersi il comando di Giove / fatto prigione, e di dettare legge al vinto cielo (Etna, vv. 29-45)
E qualunque meraviglia si verifichi nel vasto universo / non lasciarla confusa o nascosta nel coacervo del tutto, / ma secondo le caratteristiche disporre ognuna in un punto preciso: / questa è la divina e rasserenatrice voluttà dell’anima. / Ma questa deve essere la principale cura per l’uomo, conoscere la terra / e notare tutto ciò che Natura ha posto in essa di mirabile: / questa è per noi la cosa più affine ai celesti astri. / Infatti quale speranza, quale pazzia è più grande nei mortali / che investigare sugli dèi facendo scorrerie nel regno di Giove / e pigramente trascurare e perdere la grande opera che ci sta dinnanzi (Etna, vv. 247-256)
Ciascuno deve arricchirsi di nobili arti: quelle sono il nutrimento / dell’anima e questo è il massimo guadagno del mondo materiale, / cioè sapere cosa occulti nel suo seno la natura del suolo, / non travisare alcun fenomeno, non contemplare muti i sacri / fremiti del monte Etna e i suoi furenti spiriti, / non impallidire per un suono improvviso, non credere che da sotto / terra siano migrate le minacce celesti o che il Tartaro sia scoppiato, / conoscere che cosa gonfi i venti, cosa nutra i fuochi, / perché si faccia quiete all’improvviso e nasca la pace con solenne patto (Etna, vv. 270-281)
Se gonfi, i venti si chiamano soffi, se tranquilli, aria. / Infatti quasi nulla di per sé è la violenza della fiamma: / veloce è la sua natura e in perenne movimento, / ma ha bisogno di aiuto per espellere i corpi; di per sé / non ha alcun impeto: dove comanda il vento, gli obbedisce; / questi è il capo, e il fuoco milita sotto questo grande condottiero (Etna, vv. 213-218)
Chi potrebbe conoscere le cose celesti se non per concessione celeste, / e chi giungere alla scoperta di Dio, se non colui ch’è parte del divino? / O chi la vastità di questa volta che si estende senza fine / e il coro delle costellazioni e il tetto fiammeggiante del cosmo / e il contrasto eterno assegnato alle stelle contro altre stelle / e le terre e il mare sotto al cielo e quanto è sottomesso a entrambi / potrebbe discernere e racchiudere entro così angusto cuore, / se la natura non avesse fornito gli animi di occhi divini / e non avesse rivolto su di sé quella mente che le è imparentata / e non avesse dettato una così gran costruzione e non venisse dal cielo / ciò che al cielo invita come a un sacro scambio di affetti / e i condizionamenti individuali che gli astri ci assegnano alla nascita? (Manilio, Astronomica, libro II, vv. 115-126; trad. modificata)
Ed è per questo che il volto del cielo Iddio stesso al mondo / non sottrae e schiude i suoi lineamenti e il suo corpo / nella sua eterna rivoluzione e sé stesso imprime e presenta in lui, / perché possa farsi conoscere a fondo e istruisca chi lo guarda / sui principi del suo agire e lo costringa al rispetto delle sue leggi. / È il cosmo stesso che invita il nostro spirito verso il firmamento / e non ammette, perché non lo cela, il segreto sui suoi dettati. / Chi riterrebbe sacrilega la conoscenza di quanto non è sacrilegio osservare? / E non disprezzare le tue forze, anche se chiuse in un gracile corpo: / è sconfinato il suo potere (Manilio, Astronomica, libro IV, vv. 915-924)
[Il passo dall’Epinomide è tratto da Enrico V. Maltese (a cura di), Platone. Tutte le opere, 5 voll., Milano, Newton & Compton, 1997. Uso poi le seguenti traduzioni: 1) Maria Grazia Iodice (a cura di), Appendix vergiliana, Milano, Mondadori, 2002; 2) Simonetta Feraboli, Enrico Flores, Riccardo Scarcia (a cura di), Manilio: Il poema degli astri (Astronomica), 2 volumi, Roma, Fondazione Lorenzo Valla, 1996 / 2001]
Enrico Piergiacomi
Leggi altri articoli di TEATROSOFIA