Al Funaro di Pistoia il debutto nazionale de Il Filo di Arianna, riallestimento della prima creazione di Enrique Vargas e del Teatro de Los Sentidos. Recensione.
«In Ciclopi e Lestrigoni, no certo / né nell’irato Nettuno incapperai / se non li porti dentro / se l’anima non te li mette contro». È un foglio ocra, affisso a uno degli ingressi de Il Funaro, a recare trascritti a mano i versi di Itaca di Constantinos Kavafis: chi li legge è un Ulisse non più guerriero ma soltanto spettatore, che attende scalzo l’inizio del viaggio. Spaventato, al contempo incuriosito, il viandante sosta per qualche minuto davanti a una porta chiusa, accanto a una valigia già colma delle scarpe di chi, prima di lui, ha compiuto il medesimo tragitto: solo, nel silenzio, riflette sulle sirene e sulle ninfe che potrà incontrare, sogna i tesori – «madreperle coralli ebano e ambre» – che raccoglierà lungo il cammino. Sabbia è ciò che calpesta quando un uomo lo invita a entrare in una stanza buia, e lo accompagna vicino a uno sgabello sul quale accomodarsi. Nella penombra illuminata da poche lampade, lo sguardo del viaggiatore si posa su una tavola dove alcune ciotole sembrano contenere spezie e aromi: ma è soltanto grazie ai profumi che si sprigionano dal vasellame che può riconoscere il rosmarino, l’incenso, il sale. La sua odissea privata inizia da una cucina, dai gesti con cui l’ospite miscela filo di lana e terra, timore e mistero. Solo chi si è lasciato il passato alle spalle può forse affrontare l’oscurità: salire le scale che troneggiano sul fondo della piccola sala, per scendere poi nell’abisso.
Presentato in prima nazionale negli spazi del centro culturale pistoiese – le sale teatrali così come gli uffici, la biglietteria e il magazzino – Il Filo di Arianna costituisce la tappa iniziale della ventennale ricerca che Enrique Vargas e il Teatro de Los Sentidos hanno dedicato alla sensorialità e alle dinamiche cognitive pre-intellettuali. E come tale, il teatro di Vargas è anche eminentemente fisico: silente come chi lo esperisce, vittima volontaria di una messe di suggestioni olfattive e tattili – a tratti sottilmente erotiche – che mettono alla prova il critico e la possibilità di tradurre in parole e frasi l’ora di tempo trascorsa in un corpo a corpo con i performer e con la monumentale scenografia. È teatro immersivo, nel quale il fruitore coabita lo stesso spazio dell’attore e contribuisce alla costruzione drammaturgica, e partecipativo, al punto che lo stesso lemma “spettatore” sembra applicarsi a fatica all’intima relazione che si struttura con gli interpreti. Eppure, nonostante possa definirsi con molti degli aggettivi con cui forme di intrattenimento adesso fin troppo diffuse celano vuoti di senso e di idee – una tendenza evidenziata da Luca Lotano su queste pagine in un articolo dedicato a Anarchy di Societat Doctor Alonso – Il Filo di Arianna è in prima istanza un sofisticato dispositivo teatrale.
Resa possibile da un’impianto scenotecnico mirabile e tuttavia artigianale, priva di qualsiasi concessione a un’estetica di stampo cinematografico, la creazione di Vargas si sostiene soprattutto grazie a una coltissima scrittura che chiama in causa archetipi e topoi letterari, evidenti al di sotto del tessuto narrativo principale. Se la drammaturgia ha la propria origine nel mito di Teseo e del Minotauro, a essere indagati sembrano essere però la stessa condizione umana, il suo destino oscillante tra la nascita e la morte, il significato che in essa riveste la memoria. Una volta superate le due stanze iniziali – nelle quali, tra ricettari per la preparazione di un “uomo nuovo” e alambicchi colmi di sabbia, sembra svolgersi un’alchemica indagine sulla nostra più intima essenza – a spiegarsi al di sotto dei passi del viandante è il labirinto di Cnosso, dentro il quale, come Teseo, siamo invitati a perderci o forse a ritrovarci. Architetture di stoffa e legno, di garze e teli ricreano scale, cunicoli, scivoli, antri, cupole; guidati ora da indicazioni verbali, ora dalle mani e dai silenziosi gesti di un generoso gruppo di attori, gli spettatori – uno alla volta per un massimo di cinquantaquattro a replica, a ingressi distanziati di quattro minuti – attraversano ambienti diversi, incontrando per brevi momenti enigmatiche figure. Accecati da un’oscurità pressoché assoluta, siamo costretti a investigare l’ambiente circostante grazie a sensi primordiali e ferini: con polpastrelli e narici, con un udito da affinare metro dopo metro.
Le stanze che si succedono, collegate da stretti passaggi o addirittura da armadi colmi di vestiti – nei quali, come in tante fiabe, entriamo consapevoli che ci condurranno in universi differenti – sono abitate da sorridenti pianiste in abito da sposa, da gioiosi uomini con cui costruire piccoli modellini di città su tavoli ricoperti di sabbia, da malinconiche presenze in compagnia delle quali contemplare il silenzio e la luce di una candela. La strada che conduce verso il centro del labirinto, lì dove poter fronteggiare il mostruoso figlio di Pasifae, è però costellata di suggestioni e riferimenti psicoanalitici e antropologici: con curiosità osserviamo una valigia e le sbiadite fotografie che contiene, istantanee di un passato ormai consumato; con struggente tenerezza ci riscopriamo bambini, immersi nel buio di una vasca colma di lenticchie, abbracciati con materna cura da una donna sconosciuta. C’è spazio però anche per la scoperta dell’alterità fisica, della seduzione di un corpo toccato con dolcezza attraverso un velo, finanche della morte e di un’ancestrale sepoltura, che sperimentiamo sdraiati su una tavola basculante mentre udiamo il rumore della terra gettata sopra di noi. Non un viaggio attraverso la mera vicenda di Arianna e Teseo è quello che Enrique Vargas ci invita a compiere, piuttosto una vertiginosa discesa nella psiche e nell’inconscio collettivo che il mito illustra in controluce: privati della vista e della parola, coloro che attraversano il labirinto della compagnia catalana si riappropriano progressivamente e necessariamente degli elementi più istintuali della propria natura e di quelle stesse caratteristiche delle quali il Minotauro, per la razionale cultura greca, è spaventosa immagine. E l’incontro con l’essere spaventoso non può essere altro che quello con noi stessi.
Alessandro Iachino
Il Funaro Centro Culturale, Pistoia – settembre 2017
IL FILO DI ARIANNA
regia Enrique Vargas
drammaturgia Enrique Vargas e Teatro De Los Sentidos
assistente drammaturgia Valentina Vargas
coordinazione artistica Gabriel Hernandez
coordinazione tecnica Gabriel Hernandez, Gabriella Salvaterra
disegno dell’immaginario Gabriella Salvaterra
disegno luci Francisco J. Garcia
paesaggio olfattivo Giovanna Pezzullo
paesaggio sonoro Stephane Laidet
costumi Patrizia Menichelli
attori-ricercatori Francisco J. Garcia, Gabriel Hernandez, Stephane Laidet, Nelson Jara, Patrizia Menichelli, Giovanna Pezzullo, Gabriella Salvaterra
e con Emanuela Bianchi, Gianluca Bondi, Rossana Dolfi, Natalia García Bazán, Francesca Giaconi, Frankie Italiano, Carolina Nùñez Kock, Fabio Pennacchia
organizzazione Claudio Ponzana