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Rimini Protokoll. Cartoline dalla morte

Abbiamo visto (o vissuto?) Nachlass di Rimini Protokoll, un’installazione interattiva composta di 8 stanze. Che qui raccontiamo in brevi istantanee a firma multipla.

Al Teatro India di Roma, ospitato per metà da Short Theatre 12 e per metà da Romaeuropa Festival 2017, arriva Nachlass – Pièces sans personne, il complesso esperimento installativo/partecipativo della compagnia svizzera Rimini Protokoll. Il termine Nachlass indica il bagaglio, in senso lato, che un individuo lascia ai vivi al momento del proprio decesso. Come in un albergo, otto stanze affacciano sullo stesso corridoio. Ciascuna è arredata diversamente e contiene una performance automatica, della durata di 8 minuti, che “non ha bisogno di persone”. Lo spettatore diventa così il fulcro della drammaturgia, vivendo un’esperienza personale, collettiva e infinitamente ripetibile.

Istantanee da Nachlass Testi di Gaia Clotilde Chernetich, Luca Lotano, Sergio Lo Gatto, Lucia Medri, Francesca Pierri, Andrea Pocosgnich.

Richard Frackowiak
Dentro un boudoir che fa pensare a un futuro parlour à la De Sade, prendiamo posto su sgabelli posti attorno a postazioni dotate di cuffie. L’istruzione è di posizionare il viso al centro dell’oblò di fronte. Dopo un momento appare l’immagine di un uomo che racconta della propria vita, uno studioso dei processi di invecchiamento. Nella scatola magica, una luce, come in uno specchio, ci mostra il nostro volto, che poco dopo si sovrappone a quello degli altri spettatori. Con facilità si scioglie la membrana che ci separa gli uni dagli altri; osservandoci, ascoltiamo: il nulla pare aspettarci dopo la vita, un finale ermetico. Se siamo ormai certi di essere tutti sulla via della morte, è perché apprendiamo che il nostro cervello subisce un restringimento, sfumando piano piano le nostre capacità cognitive. Le pareti bianche che ci avvolgono invitano a un raccoglimento gelido che trasfigura il memento mori in una rassicurazione. Uscendo, torneremo ignari di ciò che ci scandisce, dimenticheremo quel principio di condanna che ci abita. Pronti per un’altra stanza. ​(G.C.C.)

Nadine Gros
Varcata la soglia, lo spettatore si prende l’onere di ascoltare quella preventiva elaborazione del lutto personale, gli parlerà di una messinscena che mai avrà luogo. Nella platea composta da appena due file di circa una decina di posti, si apre il sipario sul piccolo teatro. Sulla destra, poggiato su uno sgabello, un maglione candido, voluminoso, soffice. Ma la voce di Nadine Gros, non affatto morbida ma rasposa, trema nel pudore di una passione accantonata a causa delle contingenze del reale. Reale, come è la decisione di venire a patti con la propria dignità, e rispettandola porre ad essa una fine, anzi una firma. Se la morte è tanto inevitabile quanto lo è la vita stessa, cosa cambia se a entrare in scena è la fatalità della malattia? Si può scegliere di evitare quella vita che non si vuole più come realtà, per abbandonarsi alla dolcezza in cui riposa la voce di colei che, finalmente, potrà cantare in eterno. (L.M.)

Alexandre Bergerioux
Cosa decidere di lasciare e a chi? Siamo poi sicuri che quel nostro ultimo e definitivo messaggio sia quello che ricorderà la persona alla quale lo consegniamo? Se lei della nostra assenza custodisse invece un ricordo tutto suo, prescindendo da quello che noi vorremmo avesse in eredità? Un letto matrimoniale, un comodino, delle foto, un ramo che si agita dalla finestra; “il set” in cui Alexandre Bergerioux consegna alla figlia l’ultima immagine di sé. Il cinquantenne malato terminale cede il posto alla riproduzione video di un appassionato pescatore immerso tra le montagne. La realtà della malattia glissa e si cela dietro la forza di uno slancio vitale, ora riproducibile nel dispositivo video e nella voce fuori campo, registicamente diretti dall’ultima volontà paterna. La morte, vicina e imminente, diventa allora messa in scena, svelata e poi rivelata nell’angoscia di un imago mortis costruita e lontana da quella realtà che non è, ma come noi vorremmo invece fosse per i nostri cari. (L.M.)

Celal Tayip
Celal Tayip è un commerciante turco al dettaglio. Celal Tayip non riesce più a pregare. Celal Tayip pensa a quando sarà morto e prepara tutto per morire. Celal Tayip ha allestito la stanza nella quale i suoi cari pregheranno per lui, ce la fa vedere e ci fa sedere in un luogo che ne è la perfetta riproduzione: un tappeto sul quale sedersi scalzi, un ventilatore, una televisione dalla quale ci parla. Prova il vestito che indosserà una volta morto, guarda dentro la sua bara, misura le scarpe, percorre la strada che farà da morto con la macchina che lo riporterà all’aeroporto di Zurigo e poi finalmente a casa, in Turchia. Celal Tayip vivo parla di Celal Tayip morto, ci offre del Lokum, un dolce fatto con il miele turco. Cammina per le strade della Turchia, guarda le strade che non vedrà. Entra nel cimitero di Istanbul, guarda la tomba dei suoi genitori in mezzo ai quali sarà sepolto. Nascere, morire. Andare, venire. Celal Tayip non è triste quando pensa alla morte, e ci manda un soffio dal Bosforo accendendo un ventilatore. La morte aspetta, ci cammina a fianco, possiamo guardarla. Celal Tayip vive a Zurigo; nato dalla terra di Istanbul, tornerà ad essere terra. (L.L.)

Gabrielle Von Brochowski
Photos. Objets. Burkina Faso. Mali. Giovanni Paolo II. Mia nipote. Un villaggio in Senegal. Una bambina africana che mi sorride in braccio. Tutto in una montagna di scatole, come dovessi partire, traslocare; tutta la mia vita in una stanza, impacchettata dentro il cartone, catalogata, appoggiata un giorno sull’altro, un luogo sotto l’altro. Prima che arrivi qualcuno a licenziare gli oggetti, che lo stato belga prelevi l’80% della mia eredità, quando non sarò più qui. Non buttate la mia vita, conservatela. Al di là della paura di affondare, fondare qualcosa. Una fondazione, sì, per non morire, o per farlo in maniera più semplice. Per continuare, in parte, a vivere, se non io, le mie cose. Il mio impegno, i miei soldi, continuino loro a viaggiare in Africa, ad accompagnare artisti di cui oggi non conosco il nome. L’Africa che amo, nella quale ho guidato delegazioni europee come ambasciatrice. E tu? Cosa lasci nei tuoi scatoloni? Quali viaggi, facce, progetti, impili l’una sull’altro? A Bruxelles, io sono ancora viva, continuo a vivere. Oggi, sei ancora vivo anche tu. (L.L.)

Annemarie & Güntjer Wolfarth
I dettagli del cambiarsi in notte del giorno sfuggono di frequente nelle ventiquattro ore in cui si distribuiscono, ore che certo non basterebbero a un vecchio per raccontare d’un fiato le diapositive della preoccupazione, quella di dover governare la scrivania da una poltrona strizzando la mano alla moglie. Eppure un imbrunire artificiale attenua la luce nella stanza e il tempo è verticale. Il lascito (nachlass) dei coniugi si consuma in pezzi di arredo che i corpi, oggi immateriali, hanno assestato lungo i passaggi dell’esistenza.
Ci sostituiamo al posto di uno scaltro esperto di affari, con gli occhi accomodati che si passano sguardi vicendevoli, intenti a condividere la sorpresa del da farsi. Qualcuno raccoglie l’invito di bere un bicchiere d’acqua – dopotutto è la voce del distinto indistinguibile signore a ordinarlo – tutti con la venerazione che si usa ai sepolcri, neanche il baleno del pensiero di scombinare l’ordine ragionato degli anni. (F.P.)

Michael Schwery
Siamo in un angusto scantinato grigio, da un chiodo pende la tuta da base jumper, luci a neon e tubi di alluminio fanno ricircolo di luce e d’aria, la grata sotto ai nostri piedi lascia apparire uno schermo, con la soggettiva della go-pro, dalla salita in vetta alle prime evoluzioni nel vuoto.
Ci si chiede che cosa abbiano in testa le persone che praticano gli sport estremi, quasi delle imprese mitiche. Nella dimensione del mito si entra rendendo un atto eterno, simbolico, paradigmatico; e se dietro a questa seduzione dell’ego ci fosse invece qualcosa di molto più semplice? Se chi si tuffa nel vuoto sfrecciando in caduta libera tra le vette lo facesse solo per il gusto dell’esperienza? Creare una camera di dialogo tra essere e non essere, spingere la vita a un continuo corpo a corpo con la morte, per ricordarsi che una è complemento dell’altra.
La famiglia lo aspetta a casa. Se qualcosa andasse storto, egli ha già concordato con amici l’avvio delle procedure di condoglianza. La sua coscienza si estinguerebbe, ma rimanendo pulita, protetta da un’assicurazione sulla vita. E da un tono leggero e calmo nella voce che racconta. (S.L.G.)

Jeanne Bellengi
Sparse sul tavolo, decine, forse centinaia di fotografie, di grandezze e impatto cromatico diverso, sono accatastate senza un ordine se non quello dato da chi ci ha preceduto. Siamo in una dimensione altra fatta di oggetti reali, muri di cartongesso, mobili e suppellettili disposti così come erano in origine. Questo il piccolo soggiorno di una signora francese: la sua presenza è in voce – ci invita a guardare, a riflettere -, scorre di fronte a noi una vita talvolta in bianco e nero, fatta di piccoli scatti ritagliati. Il tempo è frastagliato, parcellizzato, chi vuole può ricostruirlo, la voce ci dice di azionare una sveglia e stare in silenzio con gli occhi chiusi. Il disordine delle foto contraddice l’ordine visivo della stanza, attorno a noi la stessa carta da parati vista nelle foto, riconosciamo il tavolo, gli oggetti e i mobili, una casa allegra persa nel tempo decenni fa. Potremmo essere al posto di quelle persone ritratte: l’uomo grasso con la barba, la donna sorridente, i bambini, tutti personaggi di una vita apparentemente leggera. (A.P.)

NACHLASS – PIÈCES SANS PERSONNES
Concept Stefan Kaegi / Dominic Huber
Text Stefan Kaegi
Scenography Dominic Huber
Video Bruno Deville
Dramaturgy Katja Hagedorn
Creation assistants Magali Tosato, Déborah Helle (intern)
Scenography assistants Clio Van Aerde, Marine Brosse (intern)
Technical conception and construction Théâtre de Vidy, Lausanne
Production Théâtre de Vidy, Lausanne
Coproduction Rimini Apparat
Schauspielhaus Zürich
Bonlieu Scène nationale Annecy et la Bâtie-Festival de Genève dans le cadre du programme INTERREG France-Suisse 2014-2020
Maillon, Théâtre de Strasbourg-scène européenne Stadsschouwburg Amsterdam
Staatsschauspiel Dresden
Caroline Performing Arts

With the support of :
Pro Helvetia – Fondation suisse pour la culture Fondation Casino Barrière, Montreux
The Mayor of Berlin – Senate Chancellery – Cultural Affairs

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