Ospitiamo una riflessione su alcuni spettacoli e laboratori legati all’identità queer, in un contributo tratto da Endnotes, esito del workshop di critica condotto da Roberta Ferraresi in collaborazione con Alessandro Iachino nell’ambito della Biennale College Teatro 2017
Nel lungo colophon de L’opera struggente di un formidabile genio, memorabile romanzo autobiografico di Dave Eggers, compare per volontà dell’autore un «grafico dell’orientamento sessuale, dove 1 corrisponde a perfettamente eterosessuale e 10 a perfettamente gay»: una linea retta, tagliata da segmenti verticali, esprime così un caustico rifiuto di qualsiasi polarizzazione della sessualità umana, interpretata piuttosto dallo scrittore statunitense come un continuum di possibilità, sfumature, gradi. Andrea, il protagonista transgender di Stabat Mater, sembra pensare a una siffatta rappresentazione simbolica quando, dialogando con la propria psicoterapeuta, ipotizza che ogni essere umano sia «potenzialmente frocio», dunque idoneo a raggiungere, a determinate condizioni, il valore 10 della “scala di Eggers”. Questa violenta espressione, pronunciata dal personaggio della pièce scritta e diretta da Livia Ferracchiati, è però tradotta, nei sottotitoli in inglese proiettati alle Tese dei Soppalchi, con un polisemico «potentially queer». Originariamente sinonimo di “inconsueto” ed “eccentrico”, poi lemma tipico dell’hate speech, a partire dagli anni Novanta queer è stato oggetto di una riappropriazione da parte delle comunità LGBT, che hanno cominciato a identificare con esso ‑ e con la sua coessenziale ambiguità semantica ‑ un insieme di pratiche, estetiche, teorie volte a scardinare le tradizionali dicotomie implicite nella coppia oppositiva eterosessualità/omosessualità. Il tentativo critico di osservare da una prospettiva gender- e queer-oriented l’edizione 2017 della Biennale Teatro, programmaticamente dedicata alle «signore del teatro» europeo e alla loro capacità di rivitalizzare, se non addirittura rivoluzionare, i linguaggi dell’arte scenica, implica un rischio di arbitrarietà. E tuttavia i campi di indagine sui quali si è concentrata la ricerca di alcune delle registe, così come la natura dei processi creativi sottesi a molti workshop della Biennale College, costituiscono un territorio dove non solo appaiono chiaramente rintracciabili alcuni elementi di una poetica queer, ma soprattutto in cui è possibile individuare quei meccanismi di costruzione e decostruzione delle identità che gli strumenti di analisi propri della teoria critica sul sesso e sul genere hanno contribuito a decodificare.
La Trilogia sull’identità di Livia Ferracchiati, di cui sono stati presentati durante la Biennale Teatro i primi due capitoli, appare in questo senso esemplare: ponendo come esplicito nucleo tematico degli spettacoli il processo di riconquista di un’identità di genere non conforme al proprio sesso biologico, Ferracchiati sembra offrire allo spettatore, almeno in prima istanza, una possibile declinazione di un universo queer. Ciò che invece emerge ‑ soprattutto nel secondo capitolo del trittico, Stabat Mater ‑ è un’adesione a modelli più consolidati di pensiero, che potrebbero essere definiti eteronormativi. Andrea (interpretato con intensità da Alice Raffaelli) è un trentenne eterosessuale, donna soltanto a livello biologico, la cui precarietà professionale ed esistenziale fa da contraltare a un morboso rapporto con la madre (Laura Marinoni, presente in video). Colpisce il fatto che Ferracchiati agisca su questa materia magmatica offuscando il “potenziale queer” del tessuto narrativo attraverso due processi paralleli: uno prettamente testuale e uno più specificatamente estetico. La regista e drammaturga tuderte tratteggia infatti un microcosmo fortemente maschile e vagamente maschilista, nel quale le figure muliebri sono oggetti di desiderio in balia delle avances di un amante irresistibile e fedifrago, ossessionato dall’ex della fidanzata e dalle proprie performance sessuali. È però in alcune soluzioni visive che la dissimulazione del queer operata da Ferracchiati sembra più evidente: i costumi firmati da Laura Dondi rivelano in questo senso un approccio “antidecostruzionista” alla fluida questione dell’espressione di genere. Se è infatti ordinario e anonimo l’abbigliamento di Andrea ‑ un maglione e un paio di pantaloni scuri ‑ è invece connotato secondo gli stilemi più classici dell’immaginario maschile ed etero il look della fidanzata (Stella Piccioni) e della psicologa (Chiara Leoncini), in particolare nella scena conclusiva dello spettacolo. Tacchi alti, autoreggenti, body di pizzo, gonna di pelle: parallelamente al percorso di nuova acquisizione di un’identità imprigionata in un corpo percepito come estraneo, Andrea sembra portare a termine l’acquisizione di quel coacervo di fantasie ‑ ordinarie, forse addirittura grevi ‑ che il binarismo di genere gli aveva sottratto.
Proprio nella scelta dei costumi, e nel loro utilizzo spesso inconsueto, sembra tradursi scenicamente quella destrutturazione di un netta dicotomia tra “maschile” e “femminile” che la filosofa Eve Kosofsky Sedgwick pone, nel saggio Stanze private, a necessario fulcro concettuale di un’epistemologia queer. Le creazioni di Suzan Boogaerdt e Bianca Van der Schoot, il workshop condotto da Katrin Brack, così come Tristan oder Isolde di Anna-Sophie Mahler, sembrano riflettere secondo modalità originali ‑ queer nel suo senso più vasto e inclusivo ‑ sulle questioni dell’espressione di genere e delle modalità attraverso cui l’identità si rivela all’altro da sé.
In BIMBO il duo di artiste olandesi affronta la mercificazione del corpo della donna nei media, costruendo un dispositivo scenico nel quale l’azione live di cinque performer, eseguita alle spalle del pubblico, è osservabile anche sugli schermi posti di fronte agli spettatori. Ciò che appare rilevante, secondo una prospettiva queer, è l’utilizzo provocatorio che Boogaerdt e Van der Schoot compiono delle maschere: deformati, i volti celati degli interpreti di BIMBO appaiono meri accessori di una carne ormai grottesca e disturbante. È una società priva di facce riconoscibili ed espressioni personali, quella tratteggiata nello spettacolo presentato al Teatro alle Tese, dove l’ipersessualizzazione della donna, di matrice eteronormativa, è materia di una rappresentazione che ne ricalca i più squallidi esiti e, al contempo, oggetto di critica feroce. Con collari di pelle e accessori di latex, mimando amplessi sado o interpretando ambigue scolarette, Klara Alexova, Marie Groothof, Floor van Leeuwen e le due registe ‑ qui anche in scena ‑ danno corpo a dinamiche di dominazione reciproca, proiezioni di un onnipervasivo sistema patriarcale. Lo stesso lesbismo ‑ interpretabile secondo un’ottica queer come unica possibilità affettiva riservata alle donne per sfuggire alla dominazione maschile ‑ è ormai soltanto una fantasia virile. Nel workshop che Boogaerdt e Van der Schoot hanno condotto nell’ambito della Biennale College Teatro, la riflessione sull’opera dell’artista concettuale Lee Lozano è sembrata declinarsi nella creazione di un’identità collettiva: attraverso la condivisione di informazioni relative ai propri desideri e alle proprie idiosincrasie, ricorrendo a un utilizzo costante della maschera e a un frequente scambio degli abiti indossati dai performer, il duo ha edificato, in alcuni momenti del laboratorio svolto negli spazi delle Sale d’Armi, una comunità di esseri ibridi e chimerici, inquietanti e salvifici.
Un’analoga attenzione alle potenzialità implicite nell’uso del costume ‑ si tratti anche di una semplice parrucca ‑ è alla base del laboratorio condotto dal Leone d’Oro 2017 Katrin Brack e ispirato alla figura della scultrice Charlotte Posenenske: modellato sulla sua immagine, il caschetto di capelli corvini consegnato a tutti i partecipanti al workshop a prescindere dal sesso, dall’identità di genere o dall’orientamento sessuale, è diventato lo strumento grazie al quale chiunque ha potuto, anche soltanto per pochi minuti, essere qualcuno di diverso, essere nuovo a se stesso e agli altri. È con il ricorso a maschere o parrucche che Boogaerdt, Van der Schoot e Brack agiscono secondo una cifra ascrivibile alla poetica del drag: ben più che una forma di intrattenimento, il coltissimo “travestitismo” delle performance in oggetto sonda infatti le incandescenti variabili delle identità umane.
Una lunga gonna in tartan è invece l’abbigliamento con cui Benjamin Brodbeck si mostra al pubblico nello spettacolo Tristan oder Isolde. Ein pastiche di Anna-Sophie Mahler: un accessorio atipico, forse marginale all’interno del tessuto drammaturgico, e tuttavia eloquente proprio in virtù della sconcertante normalità con cui è indossato. In questo sofisticato lavoro metateatrale, Mahler cerca di sciogliere un nodo autobiografico: quello relativo ai suoi otto anni come assistente alla regia di Christoph Marthaler per l’allestimento del wagneriano Tristan und Isolde a Bayreuth. L’ambivalente rapporto stabilito da Mahler con la città bavarese, nonché con l’opera stessa e la sua partitura, costituiscono nella drammaturgia di Kris Merken una cornice all’interno della quale Susanne Abelein, Bettina Grahs e la stessa Mahler ‑ anche in scena ‑ investigano il senso della vicenda dei due amanti, la sua possibile ricezione contemporanea, il significato profondo del “fare teatro”. È quasi a margine di questa meditazione, resa scenicamente in brevi monologhi rivolti al pubblico o in surreali dialoghi tra Abelein e Grahs, che Tristan oder Isolde esplora anche il labirinto dei generi. L’accenno alla segreta omosessualità di Wagner, e alla stanza rosa di Villa Wahnfried nella quale il compositore era solito indossare abiti femminili, sono gli aneddoti giustapposti a una più profonda considerazione sulle possibilità rivoluzionarie di un futuribile sfrangiarsi biologico e biografico in un indistinto caos vitale. Il destino di Tristano e Isotta, e soprattutto il loro inane desiderio di annullarsi l’uno nell’altra, forniscono l’occasione per stilare quasi una dichiarazione d’intenti queer, di cui si riportano qui ‑ in traduzione italiana ‑ alcune brevi, efficaci frasi: «Non più uomo o donna ma semplicemente un tutt’uno (…); non assumendo il ruolo che gli altri ci impongono, ma rompendo convenzioni (…): allora daremo inizio a un movimento, a un’evoluzione, che rompe con modelli di ruolo consolidati». Tristan oder Isolde spezza qualsiasi dicotomia a favore di una costruzione aperta delle identità, della quale la sostituzione di “und” (la coniugazione e nel titolo dell’opera di Wagner) con un più vago “oder“ (la coniugazione o) è suggello ed epigrafe. Una galassia di ipotesi sembra squadernarsi di fronte alla società che, in filigrana, emerge dal paesaggio umano dipinto da Mahler: un’infinita famiglia di potenziali, di aperture, di prospettive.
Alessandro Iachino
Biennale Teatro, Venezia ‑ agosto 2017
STABAT MATER
Trilogia sull’identità – Capitolo II
ideazione Livia Ferracchiati
testo e regia Livia Ferracchiati
con Chiara Leoncini, Stella Piccioni, Alice Raffaelli
e la partecipazione video di Laura Marinoni
dramaturg di scena Greta Cappelletti
aiuto regia e costumi Laura Dondi
scene e foto di scena Lucia Menegazzo
luci Giacomo Marettelli Priorelli
suono Giacomo Agnifili
riprese e montaggio Video Studio Carabas
progetto della Compagnia The Baby Walk
produzione Centro Teatrale MaMiMò e Teatro Stabile dell’Umbria – Ternifestival
residenza Campo Teatrale Milano
in collaborazione con Residenza Artistica Multidisciplinare presso Caos – Centro Arti Opificio Siri – Terni
BIMBO
regia Suzan Boogaerdt, Bianca Van der Schoot
con Suzan Boogaerdt, Bianca Van der Schoot, Klara Alexova, Marie Groothof, Floor van Leeuwen
coach Sanne van Rijn
scene e costumi Sacha Zwiers
musica Wessel Schrik
luci Gé Wegman
TRISTAN ODER ISOLDE. EIN PASTICHE
un pastiche di CapriConnection
ideazione Susanne Abelein, Rahel Hubacher, Anna-Sophie Mahler, Kris Merken
regia, vocals, violino Anna-Sophie Mahler
direzione musicale, pianoforte Stefan Wirth
con Susanne Abelein, Bettina Grahs
vocals (video) Damian Rebgetz
melodica, carillon Benjamin Brodbeck
drammaturgia Kris Merken
management, produttore Christiane Dankbar
basso, luci Benny Hauser
scene Duri Bischoff (con parti delle scene di Anna Viebrock)
costumi Nic Tillein
suono Thomas Winkler
video Florian Olloz
assistenza tecnica David Hauser
produzione Stadt Zürich Kultur, Fachstelle Kultur Kantor Zürich, Fachausschuss Theater und Tanz beider Basel, Stanley Thomas Johnson Stiftung
coproduzione Festspiele Zürich, Gessnerallee Zürich, Kaserne Basel
con il sostegno di pro Helvetia Schweizer Kulturstiftung, Stadt Zürich Kultur