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La macchina degli artifici. Turandot secondo Ricci/Forte

Con la regia di Ricci/Forte, il capolavoro di Giacomo Puccini è andato in scena allo Sferisterio all’interno del programma del Macerata Opera Festival 2017. Recensione

«Dritti al nucleo del dramma: il disgelo di un cuore in inverno»: con queste parole Gianni Forte e Stefano Ricci presentano il proprio debutto nel mondo operistico. Turandot  – tanto intensamente applaudita quanto discussa e contestata, oggetto e innesco di  scandalo e polemiche  è andata in scena allo Sferisterio di Macerata. L’orientalismo dell’ambientazione originaria (come da libretto, la Pechino del «tempo delle favole») è smontato fin dalle scenografie geometriche che, in apertura, intaccano lo spazio sterminato del palco: strutture mobili – moduli chiari e satinati, vetrate opache – a metà tra il container e la serra e un possente orso polare a dominare l’angolo sinistro. La fonosfera è invasa da brusii e scricchiolii amplificati, Turandot (France Dariz) matronale e circense in un abito magenta, si aggira con delicatezza meccanica per il proscenio, rivolgendo al pubblico cenni misurati. Poi i rumori cessano, la luce si abbassa e si fa più fredda, inizia la musica.

Alla parabola della conversione alla passione della giovane principessa cinese – gelida sterminatrice di tutti i suoi pretendenti attraverso il gioco beffardo dei tre enigmi, poi piegata dal sentimento impetuoso del principe tartaro Calaf (Rudy Park) e, forse ancor di più, dal sacrificio d’amore della schiava Liù (Davinia Rodriguez) – è sovrascritta una fitta rete di segni e vezzi d’autore che tendono alla restituzione dell’opera in chiave psicanalitica. L’apparato scenico asettico (curato da Nicolas Bovey) utilizza il tema della glacialità (chiassosamente simbolizzata, con una certa ironia, dalla presenza dell’orso polare) per alludere alla mania di controllo della principessa che, ossessionata dalla conservazione del proprio intatto status d’infanzia, mette sanguinosamente al bando tutto ciò che potrebbe essere foriero di crescita emozionale. Quello che è destinato ad evolvere, sfuggendo al protocollo e al diktat di immobilità di Turandot, viene dislocato e soppresso: così le piante che riempiono le teche, così i bambini (il coro di voci bianche Pueri Cantores “D. Zamberletti”) maneggiati e fucilati dai guardaspalle della principessa, in un passaggio tra i più conturbanti e discussi della messa in scena. Attorno a questi pochi riferimenti, si muove una guarnigione di mimi e figuranti: quando si addensano e si muovono sul palco, lo spazio dello Sferisterio, impossibile da dominare scenicamente, acquisisce una natura brulicante e incoerente (un drappello di uomini e donne abbigliati secondo lo stile degli Anni ’60, acrobati dalla testa di topo, valletti in scafandro blu, guardie imperiali travestite da clown) che richiama, con l’evidenza figurativa del disordine, i movimenti eccentrici dell’inconscio, a latere del trauma portante.

Alcuni momenti sono visivamente indimenticabili: il coro dei bambini disposto attorno alla teca che imprigiona una giovane sposa esamine, Turandot che si muove lenta e incredula dentro un raggio di luce dal biancore chirurgico mentre, alle sue spalle, il quadrato dei figuranti richiama plasticamente le tonalità verdeggianti di un giardino, i pochi corpi nudi che, con una partitura di movimenti incatenati, segnano la scia fluida di Calaf e si fanno quasi figura fisica della sua vibrante assertività, Liù tra i bambini che conquista, con languore un po’ oleografico, lo statuto di un’immagine mariana. L’intera costruzione è improntata all’esercizio di un pensiero registico intrinsecamente immaginativo e di un’arbitrarietà vezzosa che, mantenendo il rispetto della partitura musicale e del libretto, proiettano sul capolavoro una stupefacente luce di contemporaneità, senza tradirne il soggiacente sentimento di morte e scalpellandone con zelo persino eccessivo – se si considera, invece, la difficoltà di Puccini nello sciogliere tale nodo trasformativo – il teorema di redenzione sentimentale. Questo sistema di iperboli e ibridazioni è sorretto dalla solidità dell’impostazione di coro e orchestra, diretti da Pier Giorgio Morandi (veri appigli per i melomani, scandalizzati dalla abusante macchina degli artifici) e dalle interpretazioni dei cantanti: quelle di Liù e Turandot imperiose ed espressive nella resa delle rispettive declinazioni del femminino e quella di Calaf che, pur sapendo tenere insieme stentoreità e pregevole dizione, si rivela un po’ imprigionata dalla fisicità statica del tenore.

Una perplessità continua a sbreccare un’esperienza spettatoriale intensa e ipnotica. Si può forse riassumere in una domanda molto semplice: queste ibridazioni improntate allo spaesamento, ormai nel canone di Ricci/Forte, sono davvero coraggiose? Oppure quella sorta di ingenuità che si intravede spesso, nel disegno di una simbologia ripetuta e elementare ma contrabbandata per rivelatoria, non ha nulla di consapevole, nulla di catartico? A proteggere questo, forse strategico, riuso di simboli vistosi e leggibili da molti dubbi in merito alla sua intenzionalità concorre il carattere monumentale dell’”operazione-Turandot”, di proporzioni talmente immense da risultare – sorpassati lo scandalo o lo stupefatto piacere estetico – difficile da problematizzare. Il finale, che vede la principessa infagottata in abiti di feltro grigio fuggire fuori scena insieme a Calaf mentre il coro, affacciato su un carpet argenteo e illuminato da qualche flash, disvela i cartelli che recitano «Chi ha paura muore ogni giorno», è un buon campione dell’ingenuità di cui si diceva. Questa sollecitazione emozionale così esibita è una gigantografia che tocca ma che allo stesso tempo – prendendosi la licenza di trasportare con tanta bonaria libertà il segno politico di risonanza patria dentro gli spazi artificiali e lussureggianti della psicologia amorosa – crea un cortocircuito troppo insinuante e un vago stridore, purtroppo retorico.

Ilaria Rossini

Sferisterio – Macerata Opera Festival – agosto 2017

La principessa Turandot Iréne Theorin / France Dariz (29/07 – 4/08 – 13/08)
L’imperatore Altoum Stefano Pisani
Timur Alessandro Spina
Il principe ignoto (Calaf) Rudy Park
Liù Davinia Rodriguez
Ping Andrea Porta
Pang Gregory Bonfatti
Pong Marcello Nardis
Un mandarino Nicola Ebau
Il principe di Persia Andrea Cutrini
Ancella Catia Cursini
Ancella Linda Ferrari
Direttore Pier Giorgio Morandi

Progetto creativo Gianni Forte e Stefano Ricci

Regia Stefano Ricci

Scene e luci Nicolas Bovery

Costumi Gianluca Sbicca

Movimenti scenici Marta Bevilacqua

Maestro del coro Carlo Morganti

Maestro del coro di voci bianche Gian Luca Paolucci

Assistente alla regia Liliana Laera

Assistente alle scene Eleonora De Leo

Assistente ai costumi Gianluca Carrozza

Fondazione Orchestra Regionale delle Marche
Coro Lirico Marchigiano “Vincenzo Bellini”
Coro di voci bianche Pueri Cantores “D. Zamberletti”
Complesso di palcoscenico Banda “Salvadei”

Coproduzione con il Teatro Nazionale Croato di Zagabria

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Ilaria Rossini
Ilaria Rossini
Ilaria Rossini ha studiato ‘Letteratura italiana e linguistica’ all’Università degli Studi di Perugia e conseguito il titolo di dottore di ricerca in ‘Comunicazione della letteratura e della tradizione culturale italiana nel mondo’ all’Università per Stranieri di Perugia, con una tesi dedicata alla ricezione di Boccaccio nel Rinascimento francese. È giornalista pubblicista e scrive sulle pagine del Messaggero, occupandosi soprattutto di teatro e di musica classica. Lavora come ufficio stampa e nell’organizzazione di eventi culturali, cura una rubrica di recensioni letterarie sul magazine Umbria Noise e suoi testi sono apparsi in pubblicazioni scientifiche e non. Dal gennaio 2017 scrive sulle pagine di Teatro e Critica.

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