MalComune è il cinquantunesimo autodramma del Teatro Povero. Intervista alla gente di Monticchiello
«Io non mi sento attore, mi sento una persona di Monticchiello che lavora per la comunità e esprime se stessa, e ci tengo, e quando devo dire delle cose che non mi appartengono, non lo faccio. Per me, e per noi, è importante che non sia veramente teatro, ma qualcosa di diverso, una libera scelta attraverso la quale portare in scena te stesso. Si chiama autodramma, ed è vero. Questo è il fondamento, il seme più produttivo». Gabriella, impiegata delle poste in pensione, parla seduta con me intorno al tavolo dell’ex-fienile diventato polo culturale del borgo; assieme a lei Denise, operatrice sociale, Vera, ex sindaco di Pienza e quindi della frazione Monticchiello e insegnante in pensione, Pierluigi, imprenditore nel settore dei vini. Pierluigi l’ho incontrato la mattina dopo la spettacolo, per caso, entrando nella salsamenteria del padre; l’ho trovato dietro al bancone, l’ho riconosciuto, lui mi ha dato due birre e io un appuntamento nella sala Aldo Nisi per una chiacchierata con gli altri “attori”.
Il Teatro Povero di Monticchiello mette in scena malComune, cinquantunesimo autodramma del borgo della Val d’Orcia e continua così il dialogo con se stesso, con la comunità civile e con quella teatrale; attraverso le drammaturgie e la regia trentennale di Andrea Cresti, ispirate di anno in anno dalle trasformazioni del paese, dalle suggestioni di un’assemblea aperta che durante l’inverno ne stabilisce il punto di partenza e nel mese di maggio accompagna e condivide la scrittura rendendola dialogica, partecipata; andando in scena in Piazza della Commenda per una ventina di giorni.
Gabriella: «Quest’inverno durante un’iniziativa abbiamo parlato di un libro intitolato L’Italia dei piccoli centri; ci siamo sentiti coinvolti da questo discorso, dallo spopolamento, dalla mancanza di servizi, ed è venuto fuori il discorso dei diversi disegni di legge volti all’accorpamento dei comuni al di sotto dei 5mila abitanti (DDL S.899, DDL Atto Camera 3420); poi nel testo l’ipotetica legge è stata esasperata e portata al paradosso».
Riconoscersi e dividersi: nell’autodramma di quest’anno una giovane coppia aspetta tre gemelli che potrebbero salvare due comuni raggiungendo la soglia minima di abitanti stabilita da una nuova spietata legge per non essere cancellati. Eppure la difficoltà nel ritrovarsi richiama un’esperienza reale ripresentata in scena, il fallimento di un gruppo di contadini nel creare una cooperativa. Quando, durante lo spettacolo, dalla piazza alle nostre spalle arrivano una quindicina di abitanti che raggiungono la scena per intervenire, come uscissero in quel momento dalle loro case con una parola da dire, si capisce che a Monticchiello il teatro arrivò cinquant’anni fa a buttare la gente fuori dalle proprie abitazioni, per diventare comunità. Che il tema dell’accorpamento sia invece realmente vivo, me ne accorgo dal confronto che si innesca tra le diverse posizioni delle donne e degli uomini che dividono con me il tavolo: aggregazione vista da alcuni come vantaggio per programmare e gestire e da altri come minor possibilità per i cittadini di avvicinarsi alla gestione amministrativa. E mi chiedo, e chiedo loro, come cambi il rapporto di una comunità, quando il teatro crea una comunità altra.
Vera: «Ci sono stati momenti in cui lo spettacolo è stato costruito e riagganciato a ciò che amministrativamente è stato fatto in quel periodo e quelli sono stati risultati importanti: i Cavalieri della nonrotella, ad esempio, ricostruiva l’entrata in vigore della legge Basaglia, e quello spettacolo ci aiutò tantissimo, come comunità, ad accogliere i dimessi dagli ospedali psichiatrici in un certo modo. Oppure Zollet, parlava di temi ambientali, dei veleni che venivano diffusi negli ambienti. Anche l’autodramma di quest’anno ha queste caratteristiche, perché è un argomento in itinere; e anche se poi c’è chi dice che non serve discutere in maniera astratta, però intanto attraverso il teatro proponiamo e vediamo i nostri diversi punti di vista, insieme a centinaia di persone, ai giornali».
Denise: «La comunità cambia nella partecipazione, il Teatro Povero è un collante, tutte le iniziative passano attraverso il teatro».
Pierluigi: «La comunità si allarga con le persone che condividono quello che si fa; la sede del Teatro Povero, il granaio, è diventato un luogo di vita comune».
Mi raccontano di come il Teatro Povero viva tutto l’anno come esperienza sociale e culturale nella sua sede, diventata nel tempo edicola-libreria, ufficio turistico, centro internet, servizio di distribuzione farmaci (nel borgo non c’è farmacia, non ci sono scuole, non c’è più nemmeno la posta), biblioteca, emporio poli-funzionale, museo Tepotrapos che ospita la mostra fotografica Humans per un’Europa senza muri. La compagnia riproduce in scena anche l’assetto demografico di un borgo che nell’ultimo anno ha visto solo una decina di nascite; nella storica taverna di Bronzone del Teatro Povero, la sera dello spettacolo, un giovane cameriere mi racconta di un’esperienza giovanile in teatro poi interrotta e che lentamente si sta riavvicinando all’assemblea; quest’anno i due protagonisti sono due giovani, ci sono alcuni bambini, e poi tutti i partecipanti più storici.
Qual è il rapporto del Teatro di Monticchiello con le nuove generazioni?
Denise: «Purtroppo non partecipano molto; partecipano sì al complesso organizzativo, in taverna, però non all’assemblea. Questo è un problema che noi ci poniamo da anni».
Gabriella: «Per ora preferiscono i lavori manuali e remunerati. C’è stato un periodo nel quali i ventenni partecipavano alle assemblee, però ora vedo i giovani un po’ distanti».
Denise: «Abbiamo un laboratorio per i bambini, si è creato un bel gruppo, ed è stato importantissimo inserirli in questo testo. Tutte le sere ci sono dei bambini diversi».
In questo sistema di drammaturgia partecipata e processo creativo comunitario, qual è il rapporto che avete con il regista?
Gabriella: «Di libertà. Ci conosciamo da tanti anni, anche nella scrittura del testo i ruoli vengono pensati e attribuiti rispetto ai nostri caratteri».
Vera: «Gli spettacoli vengono bene e riescono tanto più sono autodrammatici. È indispensabile che ci sia la capacità di ascolto da parte di chi deve scrivere il testo, nel capire le diverse sensibilità e i diversi obbiettivi. Questa certezza il regista ce l’ha sempre data».
Pierluigi: «Il rapporto con il regista è di affetto e senz’altro di fiducia; anche perché a volte non capisci tutto ciò che fai, però hai la sicurezza che qualcosa vuol dire e quindi trovi la motivazione per farlo».
A cosa serve in fondo l’autodramma, il riportare se stessi in scena?
Denise: «Alla condivisione, al poter dire qualcosa agli altri ma tutti insieme».
Vera: «A rendersi conto quando partecipi allo spettacolo se c’è consonanza o no con il pubblico rispetto alle urgenze, se il pubblico ti ascolta, ti segue, dissente. È tangibile, se il testo e la coralità dello spettacolo ragionano con gli altri che ci vengono a vedere; non è un presentare bene un testo, è un modo di allenarsi mentalmente. È una verifica del senso del discorso che porti avanti, se parli al vento, al vuoto, se hai sbagliato o se invece hai capacità di dialogo con l’altro».
Sono ormai quasi le sette di sera, usciamo per le strade di Monticchiello. Qui, uno strumento unico è nelle mani del popolo; incredibile a dirsi, è il teatro. La sfida del borgo, in una delle valli più famose d’Italia, è usare questo strumento per continuare a rinascere, e quindi resistere come comunità sociale, culturale, teatrale.
Luca Lòtano