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Obbedienza e rivolta. Le Miniature Campianesi di Ermanna Montanari

Nella rassegna Venti d’Estate il pubblico romano ha ascoltato Ermanna Montanari leggere alcuni passi delle sue Miniature Campianesi. Pubblichiamo l’intervento di Attilio Scarpellini

foto Doppio Ristretto

«Il teatro è una poesia che si alza in piedi», diceva Federico García Lorca. E assistere a una magia simile è sempre un grande regalo. È accaduto alla Casa Internazionale delle Donne di Roma, nella rassegna Venti d’Estate, organizzata da Doppio Ristretto con l’intento di creare “connessioni tra musica e letteratura, tra politica e società, teatro e poesia”, appunto.
Miniature Campianesi, uscito qualche mese fa per Oblomov edizioni, raccoglie scritti di Ermanna Montanari, dove memorie d’infanzia e di giovinezza si risvegliano in quel minuto luogo natio che è stata (ed è ancora, per l’attrice) Campiano, in provincia di Ravenna. Stata, sì, perché nei ricordi che ne porta Montanari quel piccolo agglomerato di case e casali si declina al femminile.
Il palco eretto nella Casa (S)piazza, il cortile di questo mondo che oggi è dedicato a tutte le donne e che in passato era il doloroso confino per coloro accusate di “dubbia moralità”, è stato abitato dall’attrice e dal suo microfono e da Attilio Scarpellini, in paziente attesa di regalare a lei e al pubblico le parole di approfondimento e apertura che pubblichiamo qui di seguito. Il tutto sotto l’occhio vigile di un gatto, salito ad abitare, con placida regalità, uno di quei luoghi in cui, come diceva Gaston Bachelard, l’immagine poetica lascia emergere l’umano come «essere socchiuso», e i suoi «slanci linguistici» come «miniature dello slancio vitale».

Sergio Lo Gatto

Obbedienza e rivolta. L’infanzia dello sciamano. Libero elogio delle Miniature campianesi di Ermanna Montanari.

foto Enrico Fedrigoli

Non mi sono mai sembrati così divertenti, questi piccoli racconti, come ora che li ho sentiti leggere, ora che la voce di Ermanna Montanari è tornata ad abitarli.
Cofondatrice con Marco Martinelli, Luigi Dadina e Marcella Nonni del Teatro delle Albe, attrice, autrice, interprete e regista, Ermanna Montanari si identifica con uno dei pezzi più importanti della tradizione del teatro contemporaneo italiano – un teatro che non ho più voglia di cercare di definire ulteriormente, se non come l’unico che c’è, l’unico possibile, quello che Jacques Copeau chiamava semplicemente “teatro d’arte”: “artigiani di una tradizione vivente” – un’altra definizione di Copeau – è ciò che le Albe sono state fino ad oggi con quelle che Marco Martinelli chiama le messe in vita di un repertorio che, da Jarry ad Aristofane, da Büchner ad Artaud, dai Griot senegalesi a Dante, dalle drammaturgie originali di Martinelli ai poemi dialettali di Baldini e Spadoni, non sembra conoscere confini nel tempo e nello spazio, se non quelli di un teatro che non ha mai scambiato la propria autonomia poetica con i piatti di lenticchie della società di massa – e forse è questo che gli ha permesso di recente, nell’era della presunta scomparsa del pubblico, di mobilitare un intera città per trasformare l’inferno dantesco in cerimonia comunitaria. Di questo teatro, Ermanna Montanari è l’icona, usiamo questo termine a patto di ripulirlo dell’accezione, a un tempo passiva e seduttiva, egotica ed oggettuale, nonché profondamente luttuosa, che gli ha conferito la società dello spettacolo: la vera icona – vera icon – non rappresenta qualcosa o qualcuno che c’è, è un confine, un’apertura attraverso la quale traspare proprio quello che non c’è: l’invisibile, l’assente, l’inattuale, l’impossibile – ma nel momento di attraversare il visibile, il presente, il possibile, in una parola la mortalità, la carne.

«Alla visualizzazione grossolana di ciò che è – dice un appunto di Antonin Artaud -il teatro, grazie alla poesia, oppone le immagini di quel che non è». Non lontano da questa precisazione, Enrico Pitozzi, nel suo libro Acusma. Figura e voce nel teatro sonoro di Ermanna Montanari, definisce l’ambito della visione teatrale, attraverso una discontinuità della percezione ordinaria: «Il teatro di Ermanna Montanari offre così alla percezione dello spettatore un modo attraverso il quale accedere, come per la prima volta, alle cose del mondo: ciò che si vede in scena è letteralmente ciò che non si può vedere nelle condizioni abituali. La scena è uno scarto leggero, quasi inavvertibile, uno sfasamento che produce una “sospensione” del fin qui visto e del fin qui sentito”». Quel che non si può vedere “nelle condizioni abituali” potrebbe essere il reale stesso. Ma è anche il principale tabù che pesa sulla scena e sulla conoscenza del mondo: non si può vedere la compresenza dei vivi e dei morti…
Ermanna Montanari in scena è esattamente questo: la catalizzatrice di una trasmutazione che non si può dare in un altro luogo se non il teatro – e, necessariamente, il luogo cruciale di questa trasmutazione, a teatro, è il corpo dell’attore. Il corpo e nel suo caso, quel corpo estremo e sottile che è il potere della voce, quella capacità che Enrico Pitozzi ha definito, con un termine preso a prestito dai pitagorici, acusmatica.

illustrazione di Leila Marzocchi

Insomma, se il lavoro dell’attore consiste nel donare se stesso – come diceva Grotowski – la voce è il dono specifico, il più carico di luce, che Ermanna Montanari fa di se stessa al pubblico: chiunque l’abbia vista in scena, in uno spettacolo diretto da Martinelli o in uno dei suoi concerti poematici scritti con la complicità delle ambientazioni musicali di Luigi Ceccarelli e della poesia romagnola di Nevio Spadoni, che incarni il doppio ruolo di Titania e di Ippolita nella versione del Sogno di una notte di mezza estate realizzata dalle Albe, o la sua Alcina o la strega Belma in Lùs, chiunque l’abbia vista in scena è rimasto magnetizzato, o forse anche spiazzato, non tanto dal virtuosismo delle gamme sonore – perché si è sempre grandi attori, o grandi artisti, oltre le tecniche – ma dalla straordinaria capacità di figurazione della sua voce nel momento in cui si unisce allo spazio. Se non le si possono staccare gli occhi di dosso è perché non si può smettere di essere portati altrove dalla sua voce. La voce e le voci, perché il lavoro di Ermanna Montanari è plurale e indisgiungibile dalla sua capacità di ascolto, dal suo “rabdomantismo” che, per altro, è anche all’origine della sua scrittura, non solo nelle Miniature. Non è un caso che, tra i molti premi che ha ricevuto, ce ne sia uno, il premio “Lo Straniero” che le è stato consegnato “in memoria di Carmelo Bene”, definendola “spericolata e formidabile attrice del teatro italiano” – che secondo me è molto meglio di migliore attrice (migliore attrice fa solo incazzare le altre attrici) – e sottolineando la sua continuità con l’opera di Bene “come sperimentatrice della possibilità e del potere della voce umana”.

La voce, le voci, e – suggerisce di nuovo Pitozzi – quella che Roland Barthes chiamava la «grana della voce»: un misto erotico, diceva il critico francese, di timbro e di linguaggio, e che, in quanto tale, è «materia di arte», un testo corporale in cui si possa sentire «la patina della consonante, la voluttà delle vocali, tutta la stereofonia della carne profonda». Questa stereofonia è Ermanna Montanari, che come gli sciamani dell’Asia centrale sembra essersi esercitata ad apprendere la lingua degli uccelli, quella lingua rigirata in gola che si parlava in illo tempore – quando la terra e il cielo erano meno distanti – ed è proprio questo legame carnale, questa fedeltà carnale alla lingua masticata, prima ancora che parlata, nelle origini che fa in modo che la lingua prima, la lingua madre della «terra sonora» (così Peter Handke definisce il teatro) di Ermanna Montanari non sia l’italiano. «Il nostro italiano mente», diceva l’ebreo triestino Italo Svevo nella Coscienza di Zeno.

E nelle Miniature campianesi, che è un bellissimo campionario di visioni vociferanti, di spasmi della memoria, di depositi spiritici (c’è un momento nelle pratiche spiritistiche in cui la comunicazione con l’Aldilà concretizza dei piccoli oggetti, che per lo più chiaramente c’erano già, si trovavano già in casa) si legge chiaramente che Campiano – questa miniatura della relazione di Ermanna Montanari con il mondo da cui tutto, anche il teatro, prende inizio – rifiuta l’italiano: un problema che, per altro, è stato quello di molti scrittori italiani prima di lei. Non si è mai capito bene in che lingua dovremmo scrivere, quella della massima comunicazione ci corrompe, quella della massima espressione è ormai perduta – per i nativi digitali, è addirittura sconosciuta. Ora, nel lavoro di Ermanna Montanari, la scrittura e i testi sono tutt’altro che delle novità, e il metodo di composizione delle Miniature, mi sembra esattamente lo stesso metodo, “alchemico”, che ha descritto in una conversazione del 2O11 sua e di Marco Martinelli, intitolata Il principio della forma: «Io procedo per fiammelle, e in modo rabdomantico […] procedo per sovrapposizioni, per stratificazioni. Scrivo quello che arriva. L’arrivare è determinante. Le cose che arrivano non si cercano. Così arrivano i sogni: io li scrivo, li trascrivo, almeno quel che ne resta».

illustrazione di Leila Marzocchi

Mi raccomando “quel che ne resta”, e i sogni (in sottofondo, sembra ancora risuonare un’altra indicazione di Artaud: «Non si tratta di sopprimere la parola articolata, ma di dare alle parole all’incirca l’importanza che hanno nei sogni»). La vera differenza è che qui l’arrivare non è mediato dal teatro, e a essere auscultata dalla sonda di Ermanna Montanari è la memoria personale che di tutti i corpi forse è il più doloroso, perché spesso è il più reticente a manifestarsi: eppure, anche in questa reticenza che sempre si organizza in letteratura, è il continuo riaffiorare della grana della voce a prendere puntualmente il sopravvento, con quelle sprezzature ironiche e quelle giubilazioni dialettali che a intermittenza spostano il testo, lo riassestano sull’asse del corpo. Ed è lo stesso modo in cui si riassesta la diversità del tempo, la lontananza, in un libro dove è il bagliore anacronistico a illuminare la contemporaneità, come se fosse quella, e non questa, la parte viva: il primo oggetto veramente moderno che compare dopo un certo numero di pagine che potrebbero provenire da un novecento contadino né perduto né omologato – con i suoi casali misteriosi senza luce elettrica, come quello dei nonni – è una Volkswagen ed Ermanna bambina né affascinata, ma perché le sue linee sinuose le ricordano, dice, una carrozza.

Nel contempo, è la forza dei sogni, come accade nell’infanzia dei profeti e degli sciamani, a dettare le immagini di una realtà che continua a essere sentita, da tutti, più di quanto non possa essere spiegata: chi è Ermanna Montanari? Una ragazzina esile, un po’ rifiutata, uno scarabocchio («E’ mi scaraböc», come la chiama il padre) che però riesce a convincere i suoi parenti che bisogna costruire un cancello per tenere lontane le forze oscure che ha visto agitarsi in sogno ai confini della proprietà. È la stessa ragazzina del resto che si inebria del profumo dei calicantus e in una pagina del libro appare con le braccia riempite di calle – come le bambine messicane nei quadri di Diego Rivera – e il cui divertimento preferito è interrogare la terra, affacciandosi pericolosamente all’orlo dei pozzi, per captare le voci che salgono dal fondo. Una volontà potentissima, direttamente proporzionale solo alla fragilità di chi la interpreta, abita i frammenti di un’infanzia che prefigura un destino, e il destino è una delle figure più rare che si possano incontrare oggi in letteratura, ma lo prefigura – le Miniature, per usare il linguaggio dell’autrice, sono presagi – in un miscuglio inestricabile di obbedienza e di rivolta.

Attilio Scarpellini

MINIATURE CAMPIANESI
autrice Ermanna Montanari
illustrazioni Leila Marzocchi
collana Feuilleton
pagine 108/colori
editore Oblomov Edizioni
anno 2017

ACUSMA. FIGURE E VOCI NEL TEATRO SONORO DI ERMANNA MONTANARI
autore Enrico Pitozzi
pagine 224
collana Quodlibet Studio. Corpi
editore Quodlibet
anno 2017

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