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Inferno delle Albe. L’altra metà del cielo siamo noi

Inferno costituisce la prima parte del progetto “La Divina Commedia 2017-2021” in coproduzione con Teatro Alighieri, Ravenna Teatro/Teatro delle Albe.

Foto di Cesare Fabbri

Cosa rende sopportabile l’Inferno di Dante in quel rincorrersi di endecasillabi a costruire un’architettura perfetta? L’autore quando scrive sa bene di offrire al lettore un escamotage: la possibilità di chiudere, respirare, rileggere. Prender fiato. La forza del teatro, che per alcuni è condanna, per altri pruriginoso innamoramento, è invece in un’immersione senza via di scampo. Lo sanno bene Marco Martinelli e Ermanna Montanari ideatori e registi di Inferno, Chiamata pubblica per la “Divina Commedia” di Dante Alighieri che Ravenna Festival ha prodotto insieme a Ravenna Teatro/Teatro delle Albe.

Si parte dell’idea di teatro medievale: tableaux vivants che rendono la città palcoscenico per professionisti e cittadini che li affiancano. Il teatro come spazio pubblico e solenne si avvicina quindi alle idee di teatro di massa in Russia negli anni dopo la Rivoluzione e in particolar modo a Majakovskij, che già da qualche anno ha contagiato le pratiche del Teatro delle Albe. In Eresia della felicità duecento ragazzi parlavano attraverso i suoi versi di un mondo migliore, esibendo un fragoroso turbinio di voci di anelito alla felicità.

Il cammino inizia di fronte la Tomba di Dante, due guide-Virgilio (Marco Martinelli e Ermanna Montanari) di bianco vestite accompagnano le terzine del poeta verso il finire della giornata di sole. Noi, che ci credevamo pubblico, scopriamo la vulnerabilità cui ci espone quella vicinanza e ci accorgiamo di essere parte di un coro di cittadini ravennati che ripete le parole delle guide e ne rinforza gli accenti. Dalla Tomba di Dante percorriamo insieme le strade di Ravenna, dai balconi delle case qualcuno sta a guardare e partecipa: l’eco delle parole si amplifica, un suono denso e pervasivo dimostra che la presenza dei diversi luoghi appartiene più alla dimensione relazionale che non a quella descrittiva della narrazione.

La chiesa romanica di Santa Chiara, oggi Teatro Rasi, è il luogo deputato ad accogliere l’Inferno. Siamo nella città di Dite. Solo un attimo per prendere fiato, stringere le mani dei nostri Virgilio e sentire chiudersi la porta alle spalle. “Orribili favelle” di un’orda di uomini armati ci tengono in ostaggio, un Caronte-Minosse (Roberto Magnani) recita il monologo di Renaud in Venezia salva di Simone Weil. Questo Inferno non ha cielo, sul soffitto uno specchio ci conferma il nostro essere corpi in un irrimediabile confronto con noi stessi. Per avere il conforto delle stelle dovremmo aspettare la fine. Per ora l’altra metà del cielo siamo noi, in questo luogo fatto di scale, corridoi, piccole stanze, e spazi più ampi (le scene sono di Edoardo Sanchi).

Foto di Sara Colciago

Attraverso i versi di Ezra Pound, Paolo e Francesca ci sussurrano parole all’orecchio prima di essere spazzati via dalla tempesta; ai nostri piedi, avari e scialacquatori si strappano le vesti in una battaglia dove non vi sono vincitori. Sembrano essere lì da sempre ad aspettarci Farinata degli Uberti (Luigi Dadina) e il soffio di voce di Cavalcante Cavalcanti (Gianni Plazzi) in un ambientazione che ricorda i comizi militari del Ventennio, invasa da un rosso profondo e cupo, sostenuta da musiche che sembrano essere solo basse frequenze (il compositore è Luigi Ceccarelli assieme agli allievi del conservatorio di Latina e a quelli dell’Istituto Verdi di Ravenna). Tremano le pareti, cade una tenda nera, davanti a noi si apre uno spazio sconfinato: in fondo ci sono le piccole anime che attraversano il Flegetonte, nude si accaniscono l’una sull’altra, fluttuano, senza pace. Sullo schermo primeggia tra loro Brunetto Latini: ha le fattezze di Pier Paolo Pasolini e usa le sue parole, ma “barbarie” (“la parola al mondo che amo di più”) non la pronuncia mai. Anche nella città di Dite, come nei nostri mondi, gli elementi barbarici sono gesti rivoluzionari all’interno delle dinamiche sociali: un’altra spia del lavoro delle Albe per un teatro civico e politico.

Ci affacciamo dalla balaustra per ascoltare il grido di Pier delle Vigne (Alessandro Argnani) circondato dalle Arpie, uccelli dal volto femminile che provocano lancinanti dolori ai dannati. Malacoda (Massimiliano Rassu) e i suoi diavoli ci trascinano via, ad ammirare il papa simoniaco che ci invita a farci un selfie guardandoci negli occhi, proprio come uno young pope alla moda.

Poi il bianco ospedaliero di una grande stanza silenziosa: ci aspettano Vanni Fucci e i ladri, legati con le mani dietro la schiena da una camicia di forza, sbattono la testa contro le pareti coperte di materassi. Possiamo avvicinarci con più calma e perderci nelle parole che sussurrano appena. I due Virgilio non ci hanno perso di vista, ora con più calma ci invitano nel più profondo abisso. Affondiamo nella storia di Ulisse (Alessandro Renda), che la racconta guardandoci dall’alto di questo inferno, fin sopra il soffitto dove l’ha portato un montacarichi e la sua sete di “canoscenza”. Poi, in un indimenticabile svelamento, si palesa l’abside della chiesa medievale di Santa Chiara, per accogliere la storia del conte Ugolino che parla attraverso la voce-suono di Ermanna Montanari. Al centro di Cocito c’è Lucifero, ovvero l’ipocrisia del bene: una coppia di sposi sopra una torta nuziale, sorridono e si accoltellano alle spalle.

Foto di Alessandra Dragoni

Siamo nel fondo, e non resta che risalire. I due Virgilio ci prendono per mano, uno alla volta, e ci invitano a uscire per “riveder le stelle” – attraverso una piccola porta, che è fessura nell’abisso. Col fiato corto e gola secca, esausti, diamo un ultimo sguardo a quel che lasciamo alle spalle: lassù, ai confini del mondo c’è ancora Ulisse: «[…] Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza». Sembra un fosco presagio, ma ora non resta che chiudere la porta alle spalle. Con il suo sbattere le “orribili favelle” e le musiche ataviche cessano. Abitiamo ora un giardino, con una scala blu al centro poggiata su un albero e diretta verso le stelle: “La tenebra c’è sempre stata. È la luce che è nuova” (Montanari, La camera da ricevere). Più che applaudire sorridiamo di questa immensa impresa, della pazienza della sua preparazione che ogni sera coinvolge centinaia di persone, per le quali il poeta è stato occasione di umanità e di poesia.

In questa prima parte della Commedia di Dante, così come l’hanno voluta i suoi ideatori, la parola a mostra di essere sempre dialogica e di far propria quella altrui: Ezra Pound, Pasolini, Simone Weil, Boccaccio e i commentatori della Commedia. Le loro parole unite a quelle di Dante creano la vera coreografia dello spettacolo. Perché la parola nuova esiste quando si specchia in quelle già dette, non isolandosi ma rinnovandone i termini. È una sorta di polifonia per cui non possiamo evitare di confrontarci con i modelli e la tradizione. È questo che più colpisce in questo Inferno: riconoscere le nostre attuali situazioni emotive, soprattutto quelle più sofferte, e attraverso il dolore sollecitare un più profondo indagare. Questo lavoro ci ha condotto in un percorso che della felicità fa la propria motivazione e non il proprio scopo: lo sprone a percorrere quei gironi infernali che sono specchio ustorio dei nostri possibili futuri.

Doriana Legge

Visto a Ravenna luglio 2017 – dalla Tomba di Dante al Teatro Rasi

INFERNO
chiamata pubblica per la “Divina Commedia” di Dante Alighieri

ideazione, direzione artistica e regia Marco Martinelli ed Ermanna Montanari
in scena Ermanna Montanari, Marco Martinelli, Alessandro Argnani, Luigi Dadina, Roberto Magnani, Gianni Plazzi, Massimiliano Rassu, Laura Redaelli, Alessandro Renda
musiche Luigi Ceccarelli con gli allievi della Scuola di Musica Elettronica e gli allievi della Scuola di Percussione del Conservatorio Statale di Musica Ottorino Respighi-Latina e con la partecipazione degli allievi dell’Istituto Superiore di Studi Musicali Giuseppe Verdi-Ravenna
spazio scenico Edoardo Sanchi con gli allievi del Biennio Specialistico di Scenografia per il teatro dell’Accademia di Belle Arti di Brera-Milano
costumi Paola Giorgi con Salvatore Averzano e gli allievi di Costume per lo spettacolo dell’Accademia di Belle Arti di Brera-Milano
regia del suono Marco Olivieri
disegno luci Francesco Catacchio
direzione tecnica Enrico Isola e Fagio
produzione Ravenna Festival
in coproduzione con Ravenna Teatro/Teatro delle Albe
Inferno costituisce la prima parte del progetto La Divina Commedia: 2017-2021 di Marco Martinelli e Ermanna Montanari, commissionato da Ravenna Festival in coproduzione con Teatro Alighieri, Ravenna Teatro/Teatro delle Albe

 

 

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Doriana Legge
Doriana Legge
Doriana Legge è docente di Storia del Teatro e Problemi di storiografia dello spettacolo presso l’Università degli studi dell’Aquila. Nel 2014 ha conseguito il dottorato di ricerca in Generi letterari presso il Dipartimento di Scienze Umane dell’Università degli studi dell’Aquila. Dal 2013 fa parte del comitato di redazione della rivista di studi “Teatro e Storia” edita da Bulzoni. Collabora a voci enciclopediche per il Dizionario Biografico degli Italiani della Treccani. Scrive per la rubrica teatrale dell’“Indice dei libri del mese”. È anche musicista e compositrice per cinema e teatro, autrice di sonorizzazioni che portano a indagare le immagini pensando relative drammaturgie sonore. Da gennaio 2017 collabora con Teatro e Critica. Per consultare i suoi lavori e pubblicazioni più recenti: https://univaq.academia.edu/DorianaLegge

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