Industria Indipendente ha mostrato uno studio del suo ultimo lavoro, Lucifer, alla XX Edizione di Inequilibrio. Intervista
Mentre occupiamo i posti di un bar a Castiglioncello insieme a Erika Z. Galli e Martina Ruggeri, ordiniamo una birra e tre bevande bollenti, non ne avessimo abbastanza del caldo. In mezzo alla piazzetta antistante sta per terminare una performance all’aperto, Inequilibrio in questa ventesima edizione sembra un contenitore di fermenti artistici: molti sono nomi noti della scena contemporanea spesso ospitati da Armunia, per alcuni invece essere qui è un’importante momento di maturazione. Industria Indipendente debutterà con Lucifer al prossimo Romaeuropa Festival, all’interno di Anni Luce, la programmazione dedicata ai nuovi artisti italiani curata da Maura Teofili di Carrozzerie Not.
Il vostro percorso recente, quello più visibile, è cominciato con un pezzo di tragedia degli anni Novanta, I ragazzi del cavalcavia, prosegue con una sorta di distopia in cui un gruppo di anziani ha l’intenzione di uccidere il giovanissimo presidente degli Stati Uniti, Lullaby, e approda, oggi, a Lucifer: una strada ostinata verso l’astrazione, di allontanamento dalla realtà, dal fatto quotidiano?
I ragazzi del cavalcavia ha, in realtà, rappresentato una parentesi di racconto della cronaca, e anche in quel frangente è possibile ritrovare una sorta di astrazione. Il tessuto di base è una storia di cronaca ma ogni personaggio è stereotipato, tanto che l’esordio è l’episodio mitico dei titani che lanciano sassi per rigenerare il mondo. Sicuramente, più che un percorso verso l’astrazione, Lucifer è un nuovo inizio.
In Lucifer la dimensione del corpo è quella principale anche se poggia su una piattaforma di linguaggio ben precisa. In che modo lavorate sulla forma teatrale?
La forma è un elemento fondamentale rispetto al percorso che facciamo, per noi è centrale la dimensione formale, sia quella testuale che quella scenica, ed è come se ogni storia ci suggerisca in che forma raccontarla. Il linguaggio basico è corpo pure quello, le parole stesse sono intrise di corpo.
Sicuramente la ricerca è legata alle persone che incontriamo…
Come avete lavorato con PierGiuseppe Di Tanno per arrivare a questa sorta di identità archetipica? È un attore eclettico, ma con una formazione anche accademica.
Pier proviene da una pluralità di percorsi, ha frequentato anche moltissimo la danza, ha lavorato con Constanza Macras, ha lavorato a Bruxelles, nel Nord Europa ma anche in Italia come danzatore. Ci siamo conosciuti tre anni fa a Venezia, lavorando sull’Iliade insieme ad altre dieci persone per il Premio Scenario (Tanti affanni in petto) e lui era il capo rapsodo; dopo questo sodalizio ci siamo dette che dovevamo portarcelo dietro nel desiderio di cominciare a indagare. Erika voleva scoprire il personaggio di Lucifero, avevamo ripreso un discorso legato ai testi sacri mentre stavamo lavorando sull’Iliade e c’era la volontà da parte nostra di riflettere su un archetipo che non fosse solo una storia raccontata da noi; sentivamo l’esigenza di metterci vicino a qualcosa che appartenesse culturalmente a tutti.
Come vi siete trovati a lavorare in prova? Siete arrivate con il testo già in idea o è stata una ricerca comune?
Abbiamo sempre stimolato l’attore, portando magari degli elementi, degli oggetti, nel caso specifico abbiamo introdotto delle uova. Per un anno abbiamo lavorato solo sul corpo, sul suo esistere, sul suo stare nello spazio, su tre o quattro elementi ridotti all’essenziale: la ribellione urbana, il tipo di lingua che è anche mista, partire da una base linguistica e provare ad affrontarne altre. Pier parla benissimo francese, inglese, spagnolo. Io sono una latinista, grecista..
Perciò chi è questo Lucifero? Dove si trova precisamente? Oltre a essere un ragazzo che parla un inglese basico, violento e passa il tempo a parlare con delle uova e a schiacciarle…
La domanda che ci siamo fatte è esattamente questa. Se Lucifero esistesse, dove starebbe oggi? Allontanandoci dall’idea iconografica. Identificare il personaggio di Lucifero con il nome di Lucifero è proprio nell’intenzione di trasfigurarlo in una sorta di figurina. Non crediamo assolutamente a quella esistenza trascesa nelle Scritture. Ci domandiamo quale sia il modo per sviluppare in questa figura archetipica qualcosa da dire. Lucifero nella sua prima accezione etimologica è il portatore della luce, questa azione significa il dovere di mostrare agli uomini il luogo più basso in cui ci troviamo in questo momento, senza giudizio, volevamo portarlo a terra più che potevamo.
Il luogo più basso, allora, non è quello morale ma una sorta di subproletariato.
L’abbiamo immaginato su un sorta di basement, più che essere americano ci sembra che lui faccia l’americano. Abbiamo cercato di pensare anche alla figura del diavolo come a colui al quale è permesso tornare indietro, conoscere le lingue, poter essere femminile, maschile, delicato, dolce, tremendo e terribile. In realtà dentro di lui c’è non tanto la conoscenza della verità ma la conoscenza del comportamento umano, uno sorta di autocoscienza. È avulso dal giudizio, impara a provare il bene, il male, la rabbia e il dolore attraverso il contatto con questi piccoli personaggi (li crea in scena con quello che resta delle uova, carta e altri residui, ndr.) ma è tutto in divenire.
Le sue manifestazioni fisiche sono potenti, violente, sporche; sembra voler utilizzare qualsiasi possibilità corporea, anche quelle socialmente più represse, ma non sembra avere capacità o necessità di giudicarsi.
No e non lo farà mai. Non potevamo permetterci (nessuno potrebbe) di dare voce al diavolo. Lo spettacolo ha richiesto tempo perché intendevamo immergerci in una situazione, conoscerla ed esplorarla portandoci Pier, avendo il suo carattere da una parte e quello del personaggio dall’altra. Lucifero è sempre stato giudicato, è il primo essere che rivendica il desiderio di essere imperfetto, noi gli diamo una seconda possibilità.
Le uova distrutte. C’è in questo un giudizio rispetto alla mitologia della vita, che in questo momento imperversa, la difesa della vita a tutti i costi?
Un giudizio in questo senso non c’è, quando abbiamo introdotto l’elemento uovo (come spesso ci capita), è arrivato da un sogno. È stato un pensiero, un’idea, un’immagine…
Siete delle surrealiste.
Quando è arrivato il segno siamo andate a capire il perché dell’arrivo di questo segno. L’uovo è una cellula femminile, uno stratagemma evoluzionistico, il feto che sta fuori dal corpo e ha varie membrane protettive. Allo stesso tempo è un essere indistruttibile, facendo forza su i due poli opposti l’uovo non si rompe. Ci interessava, perciò, avvicinare a questo essere totalmente scomposto, sgrammaticato, ma anche allo stesso tempo molto forte (Lucifero, ndr.), la figura dell’uovo. Replicare lui stesso, la nostra storia o la sua.
Dopo l’anteprima con questo primo studio come proseguirà il lavoro fino al debutto a Romaeuropa? Accennavate a una seconda parte più testuale rispetto a questa performativa.
Ci sarà uno switch, non possiamo anticipare nulla se non dirvi che abbiamo letto Emil Cioran e tra tutte le letture indagate il suo pensiero era molto attinente alla tematiche che stavamo indagando. C’è un tentativo di staccarsi dalla terra e tendere al cielo.
Adesso quanto margine di improvvisazione c’è?
Abbiamo una partitura molto precisa ma con un margine di possibilità interno molto ampio. Inizialmente avevamo l’immagine di un figlio chiuso in uno scantinato a inventare qualsiasi cosa per distrarsi, da qui la componente giocosa e infantile che l’attore mantiene in scena. Lo lasciamo libero nel suo agire, di andare in luogo in cui né lui né noi andremmo.
La dimensione del bambino ci suggerisce l’ultima domanda. Che idea del teatro avevate da piccole e che idea ne avete adesso?
Ci siamo formate da spettatrici.
Erika. Mia madre faceva teatro con le amiche in una parrocchia del paese, mi ricordo che andava a provare portandomi e io ne ero affascinata e divertita. Crescendo ho sviluppato interesse nell’andare a vedere gli spettacoli. Inizialmente facevamo performance, video, scrivevamo. Successivamente abbiamo capito l’importanza di poter utilizzare il corpo nell’espressione.
Martina. Non andavo a teatro con i miei, ma ero molto curiosa di tutto, infatti cercavo nella letteratura la mia catarsi, era questo che sostituivo al teatro. Chiaramente col tempo impari la tua grammatica scenica, che noi ci permettiamo di cambiare ogni volta attraverso le idee che circolano nella nostra relazione.
Utilizziamo moltissimo video e fotografia. I video sono di supporto al lavoro, la potenza dell’immagine fa uscire fuori una possibilità di riscrittura corporea in ogni situazione. La possibilità teatrale è una possibilità finale, tutte le altre forme d’arte con cui lavoriamo e con cui cerchiamo di fare una ricerca sono logiche; il teatro vive di più passaggi, della possibilità di incontrarsi, della difficoltà relativa alla messa in scena.
Francesca Pierri, Andrea Pocosgnich
Castiglioncello, Luglio, Inequilibrio Festival 2017