Synecdoche, New York è un film del 2008 di Charlie Kaufman con Philip Seymour Hoffman in cui il teatro è un’ossessione per rappresentare il mondo. Qui una riflessione tra le pieghe della rappresentazione.
Difficile (ri)vedere Synecdoche, New York, il film di Charlie Kaufman del 2008, senza pensare alla scomparsa (2014) del suo protagonista Philip Seymour Hoffman, tanto più che in Italia il film fu distribuito solo dopo la morte dell’attore, a rendergli omaggio. Difficile non vedere nella costruzione che il protagonista del film, Caden Cotard, oppone alla propria autodistruzione qualcosa del suo interprete, e non contribuire così al gioco di specchi e doppi tematizzato dal film, proiettandovi il proprio sapere spettatoriale, facendovi aderire la propria idea di realtà.
Caden è un regista teatrale affetto da disturbi neurovegetativi reali e ossessionato da altri immaginari, il quale, per superare lavori riusciti che però non lo appagano, e i propri disordini affettivi (abbandonato da moglie e figlia, e altalenante tra un’amante segretaria e un’attrice), inizia a creare un’opera-mondo riproducendo maniacalmente in teatro la sua stessa vita in tutti i dettagli. Gli attori interpretano tutte le persone che man mano conosce, la scenografia replica realisticamente esterni e interni della città dove vive, Schenectady, ma il tentativo di giungere a una qualche verità sul proprio mondo attraverso il teatro, porta invece progressivamente a un magnificarsi della finzione. Attori che interpretano i personaggi della vita reale avranno poi altri attori a interpretarli, in un moltiplicarsi di doppi dei doppi e un estendersi a dismisura della città intera, fino a rendere indiscernibile (e distruggere, seppure c’era) il confine tra realtà e finzione. Caden aspira di fatto a creare una sineddoche del proprio mondo, una parte capace di stare per il tutto. Non è un agire troppo diverso da quello di ogni regista o scrittore, magari non è diverso dallo sforzo che tutti fanno di raccontare, rappresentarsi, mettere ordine e dare senso al mondo finché ci si sta. Ciascuno costruisce i propri schemi e modelli interpretativi del reale, la propria sineddoche e i propri simboli nel tentativo – spesso inane e beffato – di tenere insieme (secondo l’etimo greco) e contenere una molteplicità di differenze sotto il segno dell’unità.
Synecdoche è costruito per (ed è, al tempo stesso, il racconto della costruzione di) immagini che si denunciano non tanto come segno delle cose cui si riferiscono, quanto della loro rappresentazione, cioè dell’operazione soggettiva che l’individuo compie per costruirsi uno schema delle cose percepite. Le prime inquadrature di Caden, infatti, ci mostrano a più riprese il protagonista che fissa il proprio riflesso in uno specchio: di fatto, non si vede, ma vede riflessa la propria immagine, ovvero la costruzione che egli attua di sé, la sua propria sineddoche. Ed è così che funzionano le immagini del film: non esistendo tra le scene legami causali facilmente individuabili, esse divengono frammenti dell’esperienza di uno sguardo che prova a mettere ordine nelle cose che osserva, vagando da un punto all’altro e senza attribuire un senso definitivo a ciò che incontra, allo stesso modo in cui il protagonista ignora (e noi con lui) quanto sia reale e quanto immaginato (malattie comprese).
Così ogni inquadratura si denuncia come rappresentazione, sforzo che Caden compie (e tutti compiamo) per dar senso, imposizione al mondo di un proprio schema e della pretesa che la realtà coincida col modello che ne forgiamo. Ma quanto più si anela a costruire rappresentazioni perfette delle cose, tanto più ce ne si allontana, quanto più ci si avvicina a qualcosa, meno la si vede: così, quando il protagonista sembra ritrovare, dopo anni, la figlia, non può che osservarla al di qua della vetrina (ancora, una superficie riflettente) dietro la quale si esibisce, sensuale e tatuata. È inattingibile e inconoscibile: come, forse, la realtà stessa? Questa, pare, la tesi postmoderna (ora, forse, fuori tempo massimo, essendo il film del 2008) alla radice delle immagini-rappresentazione del film: che l’esperienza possa ridursi alla sua costruzione, alla sua rappresentazione, che una realtà in fin dei conti non esiste. È sicuramente postmoderna la costruzione per frammenti del film, e così l’esperienza temporale schizoide di Caden, che scambia anni per giorni e quasi non si accorge di invecchiare. Ma lungi da accettare con postmoderna ironia l’idea che tutto sia costruzione e rappresentazione e che perciò ci si possa solo prestare al gioco con leggerezza, il film di Kaufman sembra porre questo assunto come tragico, non ludico. Le borgesiane finzioni di Caden non sono gioiose, ma affanni per costruire simulacri di una realtà sparita (Baudrillard).
La cupezza nichilista di fondo diventa comunque affermazione della facoltà, per quanto vana, di voler costruire, conoscere, fino alla fine, anche per vie tortuose, la propria sineddoche del mondo. È un po’ quello che forse ha fatto Philip Seymour Hoffman, alternando all’esuberanza rockettara (Almost Famous; I love radio rock) e ai timidi occhialuti e affettati (Il grande Lebowski) dei suoi ruoli da caratterista, la vibrante profondità umana di personaggi più complessi (Magnolia; The Master; Capote) non disdegnando una buona produzione di genere (Hunger Games). Nella stessa carriera attoriale e in una presenza scenica robusta, si tenevano insieme, con versatilità schizoide e intelligenza postmoderna, nevrastenie e ilarità di certa America primi anni 2000. Quasi a voler contenere tutto, quasi una sineddoche.
Antonio Capocasale
Synecdoche, New York
Paese di produzione USA
Anno 2008
Durata 124 min
Genere drammatico
Regia Charlie Kaufman
Soggetto Charlie Kaufman
Sceneggiatura Charlie Kaufman
Produttore Charlie Kaufman, Spike Jonze, Anthony Bregman, Sidney Kimmel
Produttore esecutivo Ray Angelic, William Horberg, Bruce Toll
Distribuzione (Italia) BiM Distribuzione
Fotografia Frederick Elmes
Montaggio Robert Frazen
Musiche Jon Brion
Scenografia Mark Friedberg
Costumi Melissa Toth