Al festival Teatro a Corte diversi spettacoli legati all’arte circense. Tra tutti, la compagnia francese Libertivore, colpisce con l’efficacia essenziale del suo solo di danza aerea, al Castello di Agliè. Recensione
Così mentre m’aggiro e su le morte
foglie premo col piede lungo il viale
mille imagini son da me risorte.
E tutto tace. Non il sepolcrale
silenzio rompe il suono delli squilli
non latrato di veltri. L’autunnale
luce è silente. Non canto di grilli
estivo e roco. Solo indefinito
fievole viene un suono di zampilli.
Sono di Guido Gozzano questi versi (tratti dalle Poesie Sparse) dedicati alla dimora sabauda del Castello di Agliè, e li prendiamo a guida personale nel ripercorrere uno tra i più riusciti, intensi, e delicati, spettacoli visti all’interno della tranche estiva di Teatro a Corte proprio nel giardino del castello: Hêtre, solo di danza aerea creato nel 2013 dalla compagnia francese Libertivore ad opera della coreografa e artista circense Fanny Soriano. Al suono non si inganni chi di quella lingua non abbia dimestichezza, qui il movimento è hêtre, non già être. Eppure siamo certi che questo gioco di parole, tra l’imponenza radicata di un albero come il faggio (hêtre) e le complessità che implicano il concetto dell’essere (être), non sia sfuggito in fase di creazione di questo movimento vertiginoso e continua provocazione al disequilibrio.
All’ingresso del castello ducale, sulla destra del viale, tra le «mille imagini» raccogliamo la prima, lampante nella sua essenzialità. C’è un tronco sospeso da un cavo elastico su un telo circolare bianco, qualche foglia sparuta adagiata, noi intorno; «tutto tace», fin quando archi e corde non ci conducono in un mondo altro. «Fra i mirti, fra i lauri la Regina / del luogo appare cavalcante e bionda / come bianca matrona bizantina»: scruta il suo compagno nodoso, lo circonda, lo lancia e lo fa roteare all’interno di quell’arena di spettatori (composta da una buona fetta di critici francesi chiamati ad hoc per questo focus dedicato al teatro transalpino). Assistiamo a una vita in fieri che nasce dal seme rannicchiato, si arrampica perdendo progressivamente le proprie spoglie e adattando la partitura all’essenza di questo tronco levigatissimo, curvo a sufficienza perché l’accolga in grembo, pure nella precarietà del movimento circolare.
Il rapporto fra i due fuochi di questa performance – che si avvale anche di elementi del contorsionismo oltre che dell’acrobatica – è fortissimo fin da subito. L’una guarda l’altro, la forza centrifuga combatte la gravità e lascia sospesa su una porzione minuscola la trapezista Kamma Rosenbeck che racconta della solitudine umana attraverso una ricerca continua di fuga alla stasi. Non ci accorgiamo nemmeno di quell’espressività facciale nella quale a volte si abbandona, superflua, perché la forza è tutta in quel disequilibrio, in quel senso di pericolosità estrema dell’acrobata già esaltato ai primi del novecento da Stanislavskij. «I suoi movimenti – parafrasava Franco Ruffini – devono solo essere creduti anche quando fingano quelli dell’acrobata che sta per cadere». Così la crediamo in questa danza di avvicinamento e allontanamento, parafrasi dell’intessitura di una vita di relazioni, nelle quali poter sperimentare l’erotismo della rivoluzione e la forza trainante, l’abbandono subìto o il distacco volontario. È la sirena gozzaniana, che dalla fontana lancia un richiamo «al ferrigno / Signor del luogo»; è «Leda», nel suo sogno infranto di un amore concepito con l’inganno.
Tutto prende corpo nella loro interazione, lungi dall’intrattenimento ma piena la nostra visione di uno stupore improvviso e continuo, che rimane come eco, fortunatamente, anche durante le seguenti performance, poco inclini ad esser ricordate, convinte ancora che nel castello vada a genio qualche canzonetta da mimare. Rimane più fortemente radicata nella nostra memoria di spettatori la semplicità dei suoi volteggi, ancora più che il tronfio esplodere di colori, luci e strutture sorrette da una gru in movimento, gioco per nasi all’in su della sera precedente alla Reggia di Venaria. Perché se la Compagnia Trans Express puntava all’effetto pure notevole per l’ingegno – nell’orchestrare musicisti sospesi, altri acrobati a trenta metri e parata luminescente a terra – quella meraviglia di forme lasciava spazio dopo un po’ alla ripetitività e, di conseguenza, o alla noia o al bisogno consumistico di voler ancora, sempre di più. Ma a volte basta rimanere avvinghiati a una figura che dialoga con un tronco di faggio, due metri da un suolo di foglie, e poter vivere il mistero grazie a una «rediviva Diana cavalcante».
Viviana Raciti
Visto al Castello di Agliè – luglio 2017
Écriture, mise en scène Fanny Soriano
Interprétation Kamma Rosenbeck
Musique Thomas Barrière
Costume Sandrine Rozier
Production Compagnie Libertivore