Presentata la stagione Teatro di Roma per un 2017-2018 tra grandi firme e progetti speciali. Ma nell’ombra si cela la mancanza di un progetto sull’India, l’assenza reiterata del Teatro Valle, il trattamento delle compagnie indipendenti, la mancata certezza del contributo comunale.
Il teatro no, non è uguale per tutti. Il teatro è una scommessa incandescente di chi ha la vittoria in tasca e se la gioca tutta all’ultimo giro, perché se non rischi non vivi e si può rischiare solo al limite con l’idea della morte. E allora no, nessun livellamento che finga democrazia, il teatro è diseguale, asimmetrico, appare e scompare come le isole non trovate. Certo, difficile è stare dentro l’idea di rischio quando bisogna stare incasellati tra le categorie ministeriali, dentro la burocrazia della rendicontazione, la giustifica dei finanziamenti promessi, presunti, non arrivati. Ma è richiesto, a un direttore artistico, a un programmatore, di andare oltre e prendersi qualche libertà. Altrimenti ci avrebbero messo, lì, un impiegato compilatore, a far solo quadrare i conti.
E invece c’è scritto proprio che “Il teatro è uguale per tutti” su questa prossima stagione 2017-2018 del Teatro di Roma, che con le parole del presidente Emanuele Bevilacqua e del direttore Antonio Calbi si presenta nella sala del Teatro India. Qualche malizioso ci ha letto un riferimento all’affaire Eliseo che ha fatto pensare l’esatto contrario – e forse ha anche ragione, il malizioso, a ricordare le parole della lettera che il Teatro Nazionale ha mandato a proposito del Teatro di Via Nazionale. Ché non è la stessa cosa.
A prima vista brilla una stagione ricca sulla carta di questo programma. Il sipario si alzerà 550 volte su giorni 365 dell’anno che verrà. E che non è nemmeno bisestile. Ciò intende che la proposta duplicherà e triplicherà, come si conviene dalla richiesta ministeriale, ma in un Teatro Nazionale in difficoltà di organico e di risorse, che si spera dunque siano potenziati.
Saranno 24 le produzioni (contando anche le riprese) tra le quali il Re Lear di Giorgio Barberio Corsetti, l’Antigone di Federico Tiezzi, le Ombre folli di Franco Scaldati ovviamente firmate Vetrano e Randisi, ma anche il progetto italo-tedesco di Cesare Lievi, Il giorno di un Dio, sui 500 anni dalla riforma luterana; si dedicherà poi attenzione a un’artista della scena più indipendente come Eleonora Danco, autrice di dEVERSIVO, ma si allarga anche il progetto Ritratto di una Capitale che raddoppia con la prima parte del Ritratto di una Nazione – L’Italia al lavoro, Venti quadri teatrali delle Regioni del Paese, firmato sempre da Fabrizio Arcuri con la cura testuale di Roberto Scarpetti, dramaturg residente. Anche dalle ospitalità e coproduzioni arrivano nomi altisonanti come Bob Wilson, Peter Stein, Claudio Tolcachir, Konstantin Bogomolov, Romeo Castellucci ed Emma Dante. Questi ultimi due, in verità, arrivano in seconda visione dopo aver debuttato nella stagione in corso. Occasione che fa di Roma una volta di più e ormai definitivamente una provincia dell’impero, nel panorama teatrale nazionale ed europeo.
Molto è dunque in un cartellone di due teatri – Argentina e India – che soli assolvono il compito di far levare il sipario di ogni replica prevista. Molto c’è, ma troppo è inclinato il peso verso la sala principale, lasciando alla sala sul Tevere di ospitare ciò che non è abbastanza per l’Argentina, quindi privando l’India di un progetto artistico chiaro e definito, che abbia una prospettiva da anni mancante in questa e nelle precedenti direzioni. Davvero sembra che programmare India sia un peso, qualcosa da fare ma che si eviterebbe volentieri, altrimenti avremmo finalmente uno spazio che svolga la funzione di factory, di officina creativa, ossia la missione per cui è stato ideato e mai utilizzato. E non com’è oggi, lasciato a sé stesso, abbandonato a un po’ di luce nei giorni di evento e muto, inerte, quando nessuno va scoprire cosa resta dietro il suo muro di cinta.
Spazi. Già. A scorrere le pagine del programma si avrebbe speranza di trovarci un teatro chiuso da anni e promesso, rimandato, mummificato: il Teatro Valle anche quest’anno è fuori dall’orbita del teatro a Roma. Questa è la vera, grande, dolorosa notizia. E nemmeno qualcuno a cui fare domande, perché all’appello sono mancati sia la Regione che il Comune, presenti con una bella lettera, che poi ormai con la tecnologia potevano anche mandare un messaggio vocale, non ci saremmo formalizzati. Lidia Ravera promette di essere presente a tutte le prime, Luca Bergamo rinnova l’impegno a far impegnare gli impegnati a impegnarsi, ma intanto non arriva la certezza del contributo comunale, rimasto incastrato nel difficile bilancio fino a data incerta.
Ecco, cari lettori, mettiamo che voi foste i direttori del teatro, cosa avreste fatto? Livellare i cachet più alti, rinunciare a qualcosa e ridimensionare il programma? No, la soluzione è un’altra: rinegoziare i cachet delle compagnie più piccole e non sostenute da un teatro con cui immaginare scambi, quelle senza una copertura, dunque, in programma a India – già in media tra 1500-2000 euro – proponendo a tutti di andare a incasso con una percentuale 90/10 (supponendo un guadagno medio, a essere ottimisti, della metà prevista), ponendo le compagnie di fronte al fatto compiuto di non avere, diversamente, altro modo di mostrare il proprio lavoro se non a queste condizioni. Cosa dite? Che il teatro è uguale per tutti? Anche la legge lo scrive, risuona in tutti i tribunali, nei processi, nei giudizi, nelle orecchie dell’imputato, mentre ascolta pronunciare la propria condanna.
Simone Nebbia