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Finanche l’attore. Intervista a Antonio Attisani

Antonio Attisani è una figura di riferimento della cultura teatrale italiana. Studioso, critico, direttore artistico, finanche attore e professore universitario. Intervista.

Sul set del film Die Anpassung (1970)

Abbiamo raggiunto il professore Antonio Attisani nel suo studio all’Università di Torino. L’intervista che segue ha la forma di un articolo in prima persona, in cui Attisani ripercorre le fasi della sua attività teatrale, trae alcune considerazioni retrospettive, emette sentenze e formula speranze. Ci siamo inabissati nella conversazione, cosicché emergesse soltanto la sua voce.

L’attore fallito

Sostanzialmente la mia passione per il teatro si è articolata attorno a due sole figure: prima quella dell’attore, poi quella dell’attore fallito. La realizzazione piena della mia vita sarebbe consistita nel fare l’attore in scena, ma non ne sono stato capace. I motivi si potrebbero dettagliare: quello contingente è stato – a metà degli anni Settanta – la necessità di fare politica culturale in un modo più incisivo che recitando. Quello fu allora il pretesto per lasciare la scena. Poi di pretesti ne ho trovati altri, mi sono impegnato nel fare le cose che può fare un attore fallito e può anche darsi che le abbia fatte discretamente, però questa è la verità.

L’esperienza di Scena: la critica militante

Scena è arrivata nel momento in cui ho lasciato la scena. Ho creato questa scena di carta che doveva servire a far dibattere, ad alimentare criticamente il nuovo… Però è stato un disastro. Prima di tutto era una rivista che non riusciva a camminare sulle proprie gambe: si accumulavano un sacco di debiti e una serie di problemi economici hanno condotto infine alla chiusura. È stata un fallimento anche perché era “contro tutti”: aveva un taglio ipercritico sollevando continuamente malumori negli addetti ai lavori, con l’aggiunta di innamoramenti, amicizie temporanee poi naufragate, accuse di tradimento, effettivi tradimenti reciproci. Si è rivelata sbagliata l’idea di un dibattito culturale che potesse e dovesse approfondire i motivi della ricerca teatrale. Ma non c’è riuscito nessun altro. Di certo non Franco Quadri con la sua politica notarile dell’avanguardia, per cui decideva chi ne faceva parte e chi no. La sua è stata una politica lobbistica, mentre noi avevamo un obiettivo completamente diverso, forse  però lontano dalla sensibilità e dalla cultura italiana, perché la rivista non era nata per sostenere una posizione ideologica o estetica, ma per ospitare un dibattito estremo tra opzioni ritenute interessanti, anche se distanti tra loro. Non ha funzionato perché in Italia, allora come oggi, si preferisce la promozione alla critica.

Il mestiere del critico

Oggi il mestiere del critico è meno libero non per i limiti soggettivi dei singoli ma per una serie di dati oggettivi, non solo perché i critici lavorano gratuitamente e devono fare anche altro, ma per il fatto che i siti che li ospitano, i loro editori, hanno bisogno di andare d’accordo con l’ambiente che li circonda. Sono in dialogo simbiotico con l’ambiente teatrale. “Critico” è una categoria vecchia, in fondo. Bisognerebbe tornare a quello che diceva Alberto Arbasino negli anni Sessanta [cfr. il suo Situazione della critica, in Aa. Vv., Alla ricerca del nuovo teatro, «Sipario», giugno 1968]: degli artisti non dobbiamo essere amanti, dobbiamo essere amici. E all’amico si deve l’estrema franchezza, anche la crudeltà, seppure nel quadro di una condivisione. Questo in Italia non è stato possibile: o si è amanti (complici) o si è nemici. L’amicizia non esiste.

Rapporto con gli artisti

Carmelo Bene non l’ho mai frequentato personalmente perché avevo paura che ci avrei litigato, che non mi sarebbe piaciuto come persona. C’è stato un momento nella seconda metà degli anni Settanta in cui provavo una certa avversione ideologica nei suoi confronti, poi ho capito che aveva ragione lui. Ho avuto un’amicizia importante con Leo De Berardinis e, in misura minore, con Carlo Cecchi. Con Leo c’è stata un frequentazione anche intima, piena di tante cose che non ho mai scritto; ci siamo scambiati confidenze che nessuno dei due ha utilizzato pubblicamente. Quella è stata un’amicizia profonda, basata sulla franchezza, al limite della brutalità come si dovrebbe nei confronti dei figli: far sentire l’amore che provi per loro anche quando esprimi il massimo della riprovazione.

Però tutte e due le cose sono necessarie, non instupidirli con l’amore e non abbrutirli con la severità. Anche con qualcun altro è stato così, per esempio con il Théâtre du Radeau o il Workcenter. Definirli amici è riduttivo: sono famiglie elettive, siamo voluti diventare fratelli, ma questa è una cosa che non ha mai limitato la libertà critica tra noi. Solo che ci sono alcune regole per esercitare e proteggere questa libertà: nell’intimità ci sono cose che ci diciamo e che rimangono tra noi, eppure le nostre visioni reciproche modificano la nostra vita. Vere amicizie in una vita non se ne possono avere tante: tre, quattro, cinque, poi basta. Quindi, sì, l’amicizia e poi un’altra cosa che forse mi è chiara solo adesso: lo studio. Arbasino, sempre in quell’articolo, dice un’altra cosa sacrosanta: si può essere critici soltanto per alcuni anni. Non può essere un mestiere della vita. Si può fare per pochi anni come esercizio, ma poi si deve passare a un fronte più propositivo e per me è stato così, anche per incidente. Nel senso che, anche quando avrei voluto continuare, non potevo più, mi avevano emarginato. Sono successe diverse cose: dopo aver fatto il critico su testate radicali come il trimestrale Ombre Rosse oppure per Reporter o LottaContinua non mi avrebbero preso nemmeno alla Gazzetta di Brisighella. Mi sono arrangiato per un po’, qualche collaborazione qua e là, ma ero io a supplicare i direttori, anche perché non avevo altre entrate, tiravo avanti con molta difficoltà. Dopo qualche anno, per disperazione, ho accettato la direzione del Festival di Santarcangelo.

La direzione artistica

Un altro fallimento clamoroso. I festival non mi sono mai piaciuti: sono una manifestazione di falsa coscienza da parte di chi li organizza. E non mi riferisco alle singole persone di buona volontà, molto spesso personalità straordinarie che fanno miracoli, ma proprio al cosiddetto sistema che alimenta un meccanismo politico a buon mercato. Un festival richiede un investimento non rilevante, il lavoro è concentrato in poco tempo e dà il massimo riscontro di immagine; per le istituzioni “immagine” significa sempre “consenso elettorale”. Il lavoro da fare, invece, sarebbe quello continuativo. Nel 1981 a Santarcangelo mi hanno cacciato subito, a calci in culo, su richiesta dei gruppi italiani del Terzo Teatro. Poi i responsabili istituzionali mi hanno richiamato nel 1989 e ho accettato perché mi hanno detto che si sarebbe costruito un teatro residenziale e si sarebbe passati all’attività permanente. C’era persino il plastico di questo teatro, abbiamo celebrato la posa della prima pietra con l’architetto e le autorità. Oggi in quell’area c’è un supermercato! Questa è l’ambiguità delle amministrazioni di sinistra, quelle democratiche, le meno peggio. Le altre non fanno niente, o porcherie. Quindi sono andato a Santarcangelo con quella prospettiva destinata a svanire nel corso del tempo. Ho tenuto botta per cinque anni. Di nuovo, stavo cordialmente antipatico praticamente a tutti gli addetti ai lavori, perché il festival, così come lo avevo concepito, non ha mai avuto una funzione meramente promozionale. Ogni anno c’era qualche scandalo – o per via dei tibetani o per via del teatro-carcere con Mario Tuti (liquidato come “stragista fascista”) o altro ancora –  che danneggiava anche ciò che si sarebbe dovuto sostenere, perché già i critici venivano poco e malvolentieri,e quelli che venivano scrivevano più degli scandali che delle proposte artistiche. Da questo punto di vista è stato un po’ un pasticciaccio, però abbiamo smosso le acque. C’è tanta gente che se lo ricorda, sono stati anni vivaci e si cercava di fare qualcosa durante tutto l’anno. Ci siamo occupati della Bosnia. Abbiamo fatto cicli di film, spettacoli, produzioni, ospitalità, tutto con pochissimi soldi, quasi niente. È venuto il Théâtre du Radeau, altre compagnie straniere – per due anni si è realizzato un magnifico progetto con Remondi e Caporossi a capo di una compagnia di venti giovani. In effetti s’è fatto molto, per qualcuno è stato un momento mitico, leggendario, uno strascico di quella età dell’oro. e ad alcuni è davvero stato utile, per esempio a Marco Baliani, Marco Martinelli, Andrea Adriatico e altri, artisti che hanno avuto la prima uscita pubblica di rilievo al Festival di Santarcangelo. Io ho ottenuto in cambio, questa volta, invece che la disoccupazione, un esilio dorato: la cattedra universitaria.

L’insegnamento all’Università

Compagnia Leo de Berardinis

Quando nel 1992 ho vinto per sbaglio l’ultimo concorso nazionale, prima che cominciassero quelli locali degli inciuci indecenti, ho fatto un favore ai miei colleghi del tempo levandomi di mezzo. Avere uno stipendio sicuro e decente, la possibilità di studiare e di insegnare in assoluta libertà è il massimo. Nei primi dieci anni in particolare è stato straordinario. Ho avuto fin dall’inizio la fortuna di scampare i DAMS, subcultura neanche di massa. Sono sempre stato in Facoltà di Lettere, dove ero l’unico docente di teatro, quindi come la Repubblica di San Marino: piccolo ma indipendente. Ho tenuto corsi che mi hanno consentito di studiare cose meravigliose: teatri di guerra, le apocalissi culturali, figure come Marinetti e d’Annunzio e argomenti come Venezia nella drammaturgia per esempio, o teatro e musica nel ghetto di Terezìn – di cui poi non ho neppure scritto. Abbiamo fatto alcuni viaggi: ho portato una quindicina di studenti in India a incontrare i tibetani, una cinquantina a Parigi al Théâtre du Soleil, tanti altri al Théâtre du Radeau, alla Fonderie di Le Mans… Quando siamo arrivati a Dharamsala e avevano cancellato il festival perché i militanti tibetani facevano uno sciopero della fame fino alla morte come forma di protesta contro la repressione cinese. Siamo andati a vedere un ciclo di danze rituali che si effettua ogni dodici anni a Tashi Jong, cose di un altro mondo. Intanto i ragazzi si fidanzavano o si mollavano, qualcuno partiva per il Bhutan, con alcuni di loro siamo andati in altre località… Un vero casino. Però pieno di vita.

La didattica

Ho insegnato per quattordici anni all’Università Ca’ Foscari di Venezia, poi mi sono trasferito all’Università di Torino per stare vicino a mia moglie. A Venezia gli studenti, per lo più fuorisede e non pochi del sud, erano molto motivati -; il mio insegnamento non era obbligatorio, quindi avevo di fronte a me soltanto persone interessate e insieme abbiamo fatto cose incredibili: viaggi, spettacoli, (oltre che in qualche teatrino, sulle spiagge del Lido o a Rialto di notte), si “lavorava” moltissimo (ricordo una maratona di trentasei ore di filmati su Kantor!). Cose che adesso sarebbero impossibili. L’utenza è cambiata, l’Italia è cambiata. Adesso a tutti è richiesto di essere democratici, in teatro come all’università, ma si intende la democrazia in un modo virgolettato. Voglio dire che l’università dovrebbe essere un luogo di alta formazione: accessibile a tutti, ma molto selettivo. Accessibile a chiunque in linea di principio, ma non nel senso che qualunque cretino possa venirci con la pretesa di laurearsi anche se non impara a mettere insieme due parole o qualche pensiero. L’università (sicuramente le facoltà umanistiche) stanno diventando un pascolo di figli di papà senza futuro. Con il mio stipendio, oggi, non potrei mantenere un figlio all’università. E i figli di papà (mi riferisco alla mentalità, non al censo) si vivono come clienti: io pago, passo il tempo qui, quindi tu mi devi dare nozioni e diplomi. In ogni consiglio di dipartimento si gestisce la progressiva smobilitazione dell’università. L’alta formazione sarà affidata completamente al mercato, ed è un controsenso. L’educazione avrà un centro di comando economico, l’umanesimo c’est fini e quel che resta sarà lasciato in mano, oltre che a professori sempre più infiacchiti dalla burocrazia o mal selezionati, a questi quattro imbecilli figli di papà o agli studenti cinesi che – siccome pagano – rivendicano il diritto di laurearsi. L’alta formazione non esiste più. In teatro accade la stessa cosa: sono fenomeni sociali paralleli.

Il teatro e il suo pubblico oggi

Per tanti anni sono andato a teatro quasi tutte le sere, vedevo tutto, possiedo quaderni pieni di note su centinaia di spettacoli. È una cosa che ho fatto per un quarto di secolo, poi a un certo punto ho smesso. Adesso vado pochissimo a teatro. Mi saltano agli occhi alcuni fenomeni, ma non so neanche quanto siano fondati e significativi: per dirla in estrema sintesi, mi sembra che la decadenza della cultura teatrale sia dovuta al fatto che coloro che fanno teatro, soprattutto in Italia, possiedono un immaginario innervato di una cultura, standardizzata, mediocre, di marca televisiva o comunque superficiale, e sono perciò in grado di produrre soltanto un teatro nel complesso velleitario e dilettantesco (potrei fare in proposito qualche nome famoso, me ne astengo per mancanza di spazio). Si è persa la nozione dell’alta tecnica, dell’alta scuola, del rigore. Non ci sono realtà teatrali paragonabili a quello che erano una volta Leo, Bene, Cecchi e i suoi, Neiwiller, Remondi e Caporossi, Santagata e Morganti, loro e quelli che hanno formato. Impera un grande dilettantismo approvato dal pubblico. Il pubblico decisivo (e coltivato dai teatri pubblici) è composto per lo più di caproni teledipendenti dai talent e dai talk show. Bisogna insistere sul fatto che la decadenza teatrale avviene in complicità con il pubblico, non si regredisce e non si brilla da soli. Il teatro – quello dell’età dell’oro – era tale anche perché c’era un pubblico esigente, consapevole di essere una élite (anche se erano tanti, in certi anni hanno superato gli spettatori degli stadi). Voglio dire che si dovrebbe porre una questione politico-culturale d’importanza decisiva, che invece nessuno sembra voler affrontare, tutti impegnati come sono a inseguire il peggio per farsi votare.

L’attore e la recitazione

Nel panorama disastrato compare paradossalmente una generazione di eccellenti attori che hanno tra i quaranta e i cinquant’anni e che fanno soprattutto cinema e televisione, come Elio Germano, Stefano Accorsi, Claudio Santamaria ecc. Come cavolo sono nati? Quelli della generazione precedente erano in genere dei cani, dominava una standardizzazione della recitazione televisiva, erano tutti un po’ gassmaniani – Vittorio Gassman, che attore di teatro orribile! – o albertazziani eccetera. E invece sono arrivati questi, e pare che siano bravi anche in scena, anche se tutti restano ergastolani del realismo, il piccolo volgare realismo riproposto dalla gran parte dei gruppi di avanguardia di oggi… La cultura teatrale ha un deficit spaventoso in Italia e credo di aver individuato almeno una delle cause. Premettendo che in Italia non abbiamo mai avuto grandi scuole di teatro, compresa la scuola del Piccolo che ho frequentato io, benché avesse la pretesa di esserlo: non erano scuole di alta formazione né la Paolo Grassi, né quella del Piccolo, né l’Accademia persino ai tempi di Orazio Costa. Un motivo fondamentale è che l’Italia non ha mai fatto i conti seriamente con l’eredità di Stanislavskij.  I paesi che l’hanno fatto – sia pur nella confusione, come gli Stati Uniti, dividendosi in mille scuole – sono riusciti ad alimentare una certa vivacità della cultura attorica. Il Workcenter ad esempio mostra una declinazione dell’eredità stanislavskjiana matura, intelligente, che tiene conto del grottesco come la vera grande opzione poetica del Novecento, il superamento del realismo, ossia Stanislavskij più Mejerchol’d. Invece di andare avanti rispetto a quel momento in Italia si è andati, non so se indietro, ma male.

Le domande di senso

Ho la sensazione – fatale per chi invecchia – di non aver niente da insegnare. Non so immaginare alcun futuro per il mio sapere; davvero non so in che senso e a chi potrebbero interessare i miei cinquant’anni di lavoro teatrale. Tuttavia a volte, quando qualcuno me lo chiede, scopro di avere qualcosa da trasmettere. Certo è fondamentale l’interlocutore: chiedere vuol dire voler chiedere e anche saperlo fare. L’anno prossimo vado in pensione, quindi se succederà qualcosa sarà in modo del tutto volontario, fuori dall’istituzione. Quanto a pessimismo e ottimismo, dipende da dove si guarda. Il mio lavoro più recente è un saggio, un Gloria in realtà, dedicato alla Batsheva Dance Company, [qui  un’intervista a Adi Salant, co-direttrice artistica di Batsheva] una formazione di danza che a mio parere costituisce un’esperienza grandiosa e produce spettacoli stupefacenti. Una serie di singolari biografie convergono in questa “compagnia” e producono qualcosa che è riduttivo definire danza.

Batsheva Dance Company

La realtà guidata da Ohad Naharin è un teatro nel senso più pieno, basato su alcune caratteristiche ben precise: fra tutte è quella di  ensemble multietnico. Ciò è fondamentale, poiché ogni singola cultura, vista come insieme omogeneo, è in decadenza; quelle orientali ma soprattutto quelle occidentali. Però quando si incontrano e qualcuno le sa far interagire, le diverse tradizioni riaffiorano e si confrontano riprendendo vita. Sono gli albori di una possibile civiltà (teatrale?) nuova, qualcosa che fa parte degli effetti positivi della globalizzazione. Il secondo tratto fondamentale è concepire il lavoro teatrale come un rigoroso, oltre che divertente, lavoro di laboratorio, di ricerca, basato sulla costruzione dell’habitus, sull’esercizio. Anche in questo caso siamo a ciò che insegnavano Stanislavskij e Mejerchol’d, idee che quindi provengono da lontano. A Batsheva queste cose si fanno, probabilmente senza conoscere i due (ma basterebbe ripensare in modo intelligente a Nietzsche e a Nijinskij). Oppure, se Lei assistesse alle prove del Radeau… apparentemente sono mesi di lavoro che non c’entra nulla con ciò che faranno in scena, sono faticose, anche noiose, terribili, selettive… A volte la gente se ne va perché crolla. Ma i risultati, negli anni, sono stati supremi. Quali sono oggi i soggetti teatrali che rispondono a queste caratteristiche? Mi sembra che i più si esibiscano in recitine che propongono l’incesto, la pedofilia, i rapporti di coppia, insomma volgari patologie e cronacaccia! Quindi è possibile essere ottimisti, a patto però di saper guardare agli esempi giusti. In Europa e nel mondo ce ne sono. E certo in questo momento è più viva la danza, rispetto al teatro. Perché è più libera dalle subculture locali.

Giulia Muroni

Torino – Giugno 2017

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Giulia Muroni
Giulia Muroni
Giulia Muroni, giornalista pubblicista, lavora per Sardegna Teatro dal 2017. Per il TRIC cura la programmazione artistica del festival Giornate del Respiro, è referente di alcuni progetti europei larga scala, è direttrice responsabile del magazine anāgata, componente della giuria del Premio Scenario e è responsabile dell'ufficio stampa. Lavora inoltre per Fuorimargine – Centro di produzione di danza e delle arti performative della Sardegna, per il quale si occupa di programmazione artistica e ufficio stampa. Ha pubblicato su diverse testate giornalistiche e scientifiche, riguardo ai temi dell'arte performativa, della filosofia del corpo e del portato politico dei processi artistici nei territori e nelle marginalità. Nata a Cagliari, è laureata in filosofia all'Università di Siena, si è specializzata all'Università di Torino e ha conseguito all’Università di Roma3 un Master di II livello in Arti Performative e Spazi Comunitari. Ha effettuato un tirocinio alla DAS ARTS di Amsterdam, nel periodo della direzione di Silvia Bottiroli. Ha beneficiato del sostegno Assegni di Merito e Master&Back della Regione Autonoma della Sardegna per i risultati del percorso accademico.

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