Dopo la proiezione romana al Teatro Eliseo all’interno della rassegna di danza contemporanea InMovimento curata da Valentina Marini, abbiamo intervistato Adi Salant, co-direttrice artistica di Batsheva Dance Company al fianco di “Mr Gaga”, il coreografo israeliano Ohad Naharin.
Un corpo agile, flessuoso e una voce cristallina, accogliente, Adi Salant seleziona con estrema cura le parole attraverso cui descrivere il proprio ruolo e il lavoro che viene portato avanti in tutto il mondo nei workshop di Gaga, il «linguaggio di movimento» sviluppato da Ohad Naharin innanzitutto per i suoi danzatori e, a seguire, anche per classi di non professionisti, giovani e persone con disabilità. Mr Gaga, il documentario di Tomer Heymann che racconta la vita artistica e personale di Ohad Naharin, ci ha permesso di entrare maggiormente nel merito del percorso che dagli Stati Uniti ha riportato il coreografo israeliano nella sua terra d’origine, ma l’incontro con Adi Salant ci ha permesso di addentrarci ancora di più nel merito del mondo Gaga e del suo ruolo di co-direttrice della compagnia di Tel Aviv. Danzatrice fino al 2001, Adi Salant è oggi il braccio destro di colui che senza dubbio è uno tra i più acclamati protagonisti della coreografia mondiale.
Come definiresti Gaga? È una tecnica?
A noi piace chiamarlo “linguaggio di movimento” (“movement language”, ndR). È molto specifico, una volta che ci sei dentro ti accorgi che stai cercando sensazioni specifiche, sintonizzando il tuo corpo e dirigendolo verso un certo approccio del movimento. La tua è una buona domanda: non sono sicura che il Gaga si possa definire una tecnica, e chiuderlo così dentro l’idea di un set di esercizi, ma il suo cuore è molto chiaro. Mentre lo pratichi, le connessioni che sei invitato a cercare, tra mente e corpo, e il modo in cui l’insegnante conduce gli studenti sono chiare. Esiste anche un programma per formare gli insegnanti che non necessariamente vengono dalla Batsheva Dance Company. Bisogna imparare a conoscere il linguaggio, e imparare come parlare durante il processo, come dirigere gli studenti in un sistema di pensiero molto chiaro rispetto a quello che si cerca di tirare fuori da loro.
Qual è l’approccio di un workshop di Gaga?
L’insegnante dà una serie di istruzioni consequenziali: è con gli studenti, non c’è frontalità perché egli stesso e gli studenti sono parte della ricerca. La classe è – a tutti gli effetti – un momento di ricerca. Si costruiscono le indicazioni, una dopo l’altra, sfidando gli allievi a cercare di andare oltre alle proprie abitudini. Facendo questo l’insegnante si sforza di non affidarsi, a sua volta, a quelle che sono le proprie di abitudini. È un processo congiunto. A volte, improvvisamente, mentre insegno ho idea di una sorgente molto chiara del movimento nella quale trovo lo spazio per tirare fuori la mia interpretazione, cercando sempre di avere un atteggiamento sincero rispetto alla radice del movimento stesso. Il linguaggio allora, se viene da un’intenzione chiara, mi permette di scoprire nuovi approcci per raggiungere gli obiettivi verso i quali intendo accompagnare gli studenti. Ogni volta, già nel riscaldamento, vengono date delle informazioni al corpo e delle istruzioni per connettere le sensazioni a un’esperienza fisica.
Qual è il linguaggio, quali sono le immagini che vengono utilizzate durante i workshop?
Usiamo molto espressioni come floating (galleggiamento, fluttuazione, ndR), streaming del movimento, streaming out (flusso di movimento verso l’esterno, ndR). Oppure parliamo di forze orizzontali, ma anche di gravità, del suo impiego e delle forze ad essa opposte. Non solo per saltare, ma anche solo per stare in piedi. Ci sono alcuni termini, inoltre, che si stanno sviluppando dalla pratica stessa: per esempio, la gravità e la forza di gravità che vi si oppone la chiamiamo “oyo”, che è un termine coniato da Ohad Naharin. Non è una parola ebraica, è un termine del vocabolario Gaga. Così, quando lavoriamo con la forza di gravità e con le forze che vi si contrappongono usiamo questo termine: basta questa parola e chi pratica Gaga ogni giorno comprende subito qual è l’indicazione. Oppure, il termine “lena”. Normalmente si sente parlare di “centro”, “muscoli del ventre”, … noi lo chiamiamo “lena”. Lena è la sorgente di ogni movimento, è uno dei motori del nostro corpo. Se l’insegnante dice: “Usate la vostra lena”, chi pratica Gaga può immediatamente connettersi a uno specifico concetto. C’è un vocabolario, si sta costruendo. Naturalmente, l’insegnante è consapevole della classe che ha di fronte e quindi questi termini non vengono per esempio impiegati con una classe di non professionisti, ma se insegno alla compagnia, posso usare queste parole.
Quando hai iniziato a utilizzare il training di movimento Gaga?
Sono entrata alla Batsheva Dance Company a 18 anni. All’inizio facevamo la lezione di danza classica, piano piano però – prima che io lasciassi la compagnia da danzatrice – Ohad Naharin ha iniziato a fare una ricerca, ma non si chiamava ancora Gaga, non era ancora chiaro cosa sarebbe diventato. Erano i primi semi del Gaga, dopo che ho lasciato la compagnia lui è andato avanti costruendo e chiarendo, anche per sé, come trasferire le nuove informazioni ai danzatori della compagnia. Poi a un certo punto deve essersi sentito pronto a dare un nome a questa pratica. Nonostante fossi uscita dalla compagnia, sono rimasta in contatto con Ohad Naharin e ho continuato a lavorare con lui – sono stata dunque presente in questa esperienza sin dall’inizio. L’approccio alla classe di danza è così diverso rispetto a un tempo tanto che oggi è diventato normale parlare di Gaga; il Gaga è presente anche nel curriculum di studio di molte scuole e di molte accademie. Allora, però, si veniva dal balletto con le sue posizioni, la sbarra, gli specchi, o dalle tecniche moderne come Graham o Limon, e poi improvvisamente è arrivato il Gaga che non propone esercizi strutturati, ma si struttura come una pratica.
In che modo questo nuovo approccio al movimento ha influito sulla tua danza?
Ha influito molto. Si tratta di spogliarsi di certe immagini relative a come i movimenti dovrebbero essere. Ovviamente, la coreografia è fatta di movimenti, ma non li approcciamo dall’esterno considerandoli come forme. Non si realizza una forma per creare una posizione, ma la posizione viene dall’interno, da una profonda consapevolezza dello spazio, del corpo nello spazio, del radicamento al suolo, della distanza dagli oggetti intorno. Non creo un movimento per fare una certa forma, ma bisogna essere costantemente in allerta per carpire tutte le informazioni che giungono dal corpo e dai suoi confini esterni. Si tratta di avere un approccio completo al corpo e allo spazio.
Dal 2013 lavori come codirettrice alla Batsheva Dance Company, qual è esattamente il tuo lavoro?
Dirigere una compagnia è una grande responsabilità, ci sono da compiere tantissime mansioni diverse, dunque io condivido il carico di lavoro con Ohad Naharin: condividiamo una visione delle cose e il percorso, confrontandoci. Cerco di alleggerire il carico a Ohad Naharin che oltre a essere il direttore della compagnia è anche coreografo. Inoltre abbiamo anche una compagnia junior, dunque ci sono a tutti gli effetti due compagnie da dirigere. Se lui è impegnato nel processo di creazione, io posso occuparmi della compagnia junior o di altre cose.
Ti occupi anche di trasmettere le coreografie ad altre compagnie? Come è organizzato questo processo?
Si, questo accade al di là della mia posizione nella compagnia. Dopo che ho lasciato la compagnia, mi sono occupata di allestire diverse coreografie con altri ensemble. Quando insegno una coreografia, cerco di conoscere i danzatori. Inizialmente insegno la coreografia di gruppo, se per esempio c’è una parte di unisono, comincio quindi a trasferire il nostro modo di pensare e di approcciare il movimento. Insegno Gaga, che fa proprio parte del processo: i danzatori devono fare esperienza del Gaga. Piano piano inizio a vedere la loro risposta, è molto bello vederli provare delle cose nuove che a volte li fanno sentire vulnerabili; questo accade perchè un tipo di lavoro diverso mette alla prova moltissimi fattori come la posizione del danzatore all’interno della compagnia e il modo in cui viene percepita la sua danza. È molto emozionante. Io cerco di dare il più possibile per nutrire il lavoro con informazioni, suggerimenti, ed è bellissimo vedere come loro interagiscono. C’è anche uno spazio di libertà nel quale i danzatori stessi possono muoversi e nel quale possono suggerire la propria interpretazione della coreografia.
Delle coreografie di Naharin qual è l’aspetto più difficile da trasmettere a una compagnia diversa da Batsheva Dance Company?
I danzatori della Batsheva Dance Company sono abituati ad essere molto esposti. Oltre al lavoro, a volte estremo, sul corpo, i danzatori sono molto incoraggiati a sentirsi al sicuro – in studio e poi sul palco – in modo da porsi non da performer, ma cercando di aprire il più possibile il proprio cuore. Questa è una sfida per molti di loro. Per esempio, come durante le classi di Gaga, noi in studio lavoriamo senza specchi, mentre per i danzatori di altre compagnie lo specchio a volte è necessario per percepire il proprio corpo, per valutare il movimento e la propria posizione nello spazio. Cerchiamo danzatori che non si autocritichino mentre danzano, e che restino aperti, disponibili; di solito, quelli di altre compagnie sono contenti di imparare le coreografie di Ohad Naharin, dunque intraprendono il percorso buttandocisi dentro. È un processo cosciente: la parola chiave è sempre ricerca, non si tratta di cercare la forma di una coreografia, ma di cercare la strada.
Gaia Clotilde Chernetich