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Da Detroit. Oltre la crisi, il teatro

Quali sono le forme, gli spunti e gli artisti che animano la scena americana di Detroit. Il regista Giulio Stasi firma un denso racconto per Teatro e Critica

foto di Giulio Stasi

Detroit ha dichiarato bancarotta ed è fallita nel luglio 2013 dopo un declino durato decenni. Oggi circa la metà degli edifici sono abbandonati, i servizi sono ridotti al minimo e il tasso di criminalità è fra i più alti degli Stati Uniti. Nel 2015 leggo il reportage di Andrea Marinelli L’interminabile rinascita di Detroit  e vengo attratto sempre più da questa città che sembra aver toccato più volte il fondo e cerca incessantemente la rinascita.

Due anni dopo riesco a partire e raggiungerla per davvero. Parto senza conoscere nessuno e trovo guide d’eccezione: a cominciare da Francesca Berardi, autrice del libro Detour in Detroit illustrato da Antonio Rovaldi, o Bruce Schwartz, “Ambassador of Detroit”, come si definisce nel suo biglietto da visita. Schwartz è stretto collaboratore di Dan Gilbert, imprenditore miliardario che ha comprato e rimesso a nuovo ormai più di cento edifici nella Downtown e ne sta trasformando il volto e lo spirito affittando uffici alle startup che lui stesso finanzia. Soprattutto, parlo con le persone per strada. Gli incontri per caso sono stati forse la miglior lente per mettere a fuoco questa straordinaria, unica, dura, ostica, agnostica, città. In questa città ho cercato il teatro. Del teatro che ho incontrato vi racconterò.
Il primo contatto è con la compagnia The Hinterlands, di Liza Bielby e Richard Newman. Mi ricevono nel loro spazio di creazione e rappresentazione, ad Hamtramck, uno dei tanti quartieri della città che si sono svuotati negli ultimi decenni e che cercano di rinascere e trovare una propria identità. Lo spazio è una normalissima casa in legno, perfettamente confusa fra le altre di questo quartiere residenziale multietnico. All’interno, un sapiente restauro ha creato uno spazio vibrante e originale. Il restauro è stato realizzato grazie alla collaborazione con Power House Productions, un’associazione no-profit di architetti e artisti che usano finanziamenti pubblici e fund-raising per «trasformare edifici abbandonati in spazi creativi per lo scambio di idee, opinioni ed esperienze».
Purtroppo non posso assistere a nessuna performance di Liza e Richard, l’ultima è stata pochi giorni prima che arrivassi in città. Percepisco un approccio rigoroso, dedizione per l’arte, impegno civile e politico, una fusione della loro vita privata e artistica, le difficoltà di questa scelta, la consapevolezza e l’interesse nel rivolgersi a una nicchia di poche persone veramente interessate al loro lavoro. Sono un po’ scettici sul fatto che i loro spettacoli, fortemente incentrati sulla società americana, possano essere d’interesse e compresi in Europa; non mi convincono, cerco di spiegare loro che invece il dibattito sulla società americana è vivissimo in Italia, e cito gli ultimi lavori di Romeo Castellucci, solo per limitarmi al teatro. Visitiamo insieme il quartiere a piedi. Mi indicano altri progetti di Power House, e saranno soprattutto i loro suggerimenti ad aprire la strada alle successive scoperte teatrali, artistiche, umane di questa città.
La prima scoperta, lo dico da subito, è straordinaria. The Shua Group ha realizzato il sogno di molti artisti, negli Stati Uniti e in tutto il mondo: comprare una vecchia warehouse abbandonata – ma in questo caso potremmo parlare quasi di hangar viste le dimensioni – e farla diventare il centro della propria vita e della propria creazione artistica. The Shua Group è un duo formato da Joshua Bisset, coreografo e artista di movimento, e da Laura Quattrocchi, danzatrice e visual artist. Il loro nuovo spazio si chiama Andy. Ho avuto la fortuna, immensa, di assistere alla rappresentazione inaugurale di Andy. Con me una cinquantina di persone: giovani, adulti, bambini, artisti e non. Data unica, lo spettacolo si chiama What We’ve Been Doing and Fantastical Things to Come ed è il risultato dei loro primi otto mesi di ascolto, contatto e progettazione dentro Andy. Con Laura e Joshua in scena troviamo la danzatrice Tzveta Kassabova e il suono, la voce e presenza fisica di Billy Mark. Ma la scena – e qui la parola scena è forse già un limite – ingloba con sé anche il pubblico, invitato a occupare lo spazio a proprio piacere, all’interno di coordinate e dinamiche intuitive e perfettamente concepite. I ruoli di spettatori e performer sono chiaramente distinti, ma lo spazio, le luci, le dinamiche coinvolgono tutti, tutti insieme, in un respiro che, con il progredire dello spettacolo, si fa sempre più collettivo e vivo.

Nelle prime fasi veniamo immersi in un atmosfera di luci, rumori e polveri, prodotto vivo della scoperta, del rapporto, della sperimentazione dei performer con i volumi e gli oggetti originali del luogo. La warehouse è in rovina, sporca, decaduta. I performer si rapportano con questo abbandono, con gli oggetti di lavoro di un tempo che fu, con gli spazi: li urtano, li attraversano, li scavano, li calciano, li calcano, vi si immergono. Non hanno timore di sporcarsi e fondersi con muri e pavimenti. E gli spazi e gli oggetti cominciano a reagire, ci accorgiamo che hanno ancora una vita, un passato da raccontare, un presente da vivere, un futuro da progettare. Appare subito chiara una sensibilità artistica raffinatissima, un lavoro di improvvisazione che ha portato in scena i frutti migliori e che sa ripeterli più vivi che mai e condividerli facilmente e chiaramente con il pubblico. Si percepisce anche che, accanto alla ripetizione, l’imprevisto potrebbe trovare il suo spazio.
E infatti, improvvisamente, sembra realizzarsi il cosiddetto “momento irripetibile e magico”: da una grossa buca scavata da un performer nel pavimento esce, piccolissimo, vivissimo, un topo. Niente potrebbe raccontare meglio la vita di queste macerie che l’apparire in scena di un topo vero che irrompe in scena. I performer lo seguono con lo sguardo, la tensione, l’attenzione, mentre lo spettatore ride sorpreso. Ma si insinua il dubbio: che non sia un topo vero. Rimango completamente assorbito dal cercare di trovare risposta. Cedo: il topo è finto.
I performer nel frattempo, in preda al panico, spaventati dal topo, hanno cominciato a costruire un muro con gli oggetti trovati. All’irrompere in scena di questo artefatto Speedy Gonzalez, non posso fare a meno di pensare al muro con il Messico di Trump, sorretto su paure costruite ad arte. Trovo l’idea geniale, ma forse le allusioni sono solo nella mia testa. I performer si sono nel frattempo spostati dietro al muro e cominciano a scoprire il nuovo spazio. Avanziamo verso di loro: il pubblico sembra aver appreso il respiro dai performer e si muove elegantemente e in sintonia con tutto il resto. Adesso i volumi si fanno profondissimi e le uniche luci sono due piccole finestre alte e lontane sul fondo da cui entra una luce naturale. Una performer comincia a organizzare spazi e materiali, smantella il muro, mentre gli altri due… gli altri due si innamorano. È commovente questa danza d’amore, questa scoperta che sembra disinteressarsi al mondo intorno e vi danza sopra. È la vita che accade mentre sei intento a fare altri progetti. Si susseguono azioni, movimenti, scoperte.
E riappare il topo. Anzi, adesso sono tre. Si muovono nello spazio e anche questa volta sono cosÌ verosimili nei movimenti che mi riconvinco che siano topi veri. Rimetto tutto in discussione, non capisco, sono confuso, i topi vengono calpestati dai movimenti degli attori, allora sono finti, mi perdo… Avanziamo. Boooom! Un boato d’emozione. Una vista mozzafiato. Su un lato si è aperto un nuovo spazio: un’area grande il doppio di quanto abbiamo visto finora occupata interamente da un immenso lago nero.

Foto di Giulio Stasi

Gli attori entrano in acqua dolcemente, l’acqua arriva alle loro caviglie a riflettere il resto del corpo e far incontrare per la prima volta gli attori con se stessi. Il pubblico si appoggia dolcemente su una piccola spiaggia di moquette marrone e osserva questa scena meravigliosa. Gli attori scoprono, l’acqua, se stessi, si fondono con la loro immagine. Billy Mark, che aveva già interagito nei quadri precedenti con suoni in real time, improvvisa con metrica contemporanea, intensa e personalissima, riflessioni sull’acqua e sul quadro a cui assistiamo. Le parole tuttavia sembrano togliere potenza a quanto sta succedendo, sembrano quasi rovinare una dimensione altra ormai raggiunta insieme da performer e pubblico, quando improvvisamente il poeta abbandona il microfono, si toglie le scarpe, i calzini, e raggiunge le braccia protese dalla schiena di una performer in acqua. E il pubblico lo segue. Non c’è segnale. I bambini vanno per primi, tutto succede naturalmente, ci togliamo le scarpe ed entriamo tutti in acqua. Esploriamo questo lago, ci fondiamo con l’acqua anche noi, ci abbracciamo, abbraccio i danzatori. Sono momenti indescrivibili. Dopo qualche minuto esplode un applauso mai cosi spontaneo e naturale che sancisce la fine di uno spettacolo da cui usciamo completamente trasformati.
Ho la sensazione di aver partecipato alla storia di questa città, di aver vissuto un momento irripetibile. In questa città che fino adesso ha cercato di vendermi i miti passati dell’industria automobilistica, della Motown, della techno e della house music, io vivo la rappresentazione del presente e il presente stesso della rinascita.
Post spettacolo, la compagnia ha organizzato un ricco rinfresco. Conosco gli artisti, mi complimento senza ritegno, li ringrazio. Mi illustrano il progetto per lo spazio, sono quasi addolorato perché vorrei fermare tutto in quel divenire eccezionale. Penso a tutti i progetti di riconversione di spazi. Credo che lo Shua Group dovrebbe esportare questa sensibilità e professionalità, questa pratica di altissimo livello, a precedere architetti e ingegneri impegnati in opere di riqualificazione; per ispirarli nel loro lavoro, offrire uno sguardo su uno spazio, sulla potenza, sulle possibilità, sulla bellezza. Ma tutto evolve, ed Andy, dal giorno dopo in cui torno ad incontrare ancora Laura e Joshua, è già pronto per nuove avventure.

È domenica e vado al Detroit Public Theatre per assistere a The Harrasment of Iris Malloy , di Zak Berkman, ultima data per un debutto mondiale che parte da Detroit per una lunga tournée negli States. Regia di Geoff Button, nel cast Alysia Kolascz, John Lepard, Sarah Winkler, Ned Baker. Un testo contemporaneo fresco e incalzante in cui un presunto caso di molestie sessuali viene utilizzato per scandagliare la cultura, le nevrosi, le paure della società americana. Il testo ricorda moltissimo, per il tema trattato e la struttura narrativa, Oleanna, di David Mamet, del 1994, a cui si aggiungono dinamiche che scaturiscono dall’utilizzo di nuovi media nei casi di scandalo pubblico. La narrazione scopre lentamente le carte e la verità, e solo il finale sembra subire un’accelerazione troppo repentina e accennare a nuovi importanti temi con maggior superficialità.
Ma soprattutto sono gli attori a colpirmi. Diretti con grande sensibilità, bravissimi, interpretano i loro ruoli con una verità, un’intensità, una semplicità che non è mai un buttare via le battute, ma dirle con la naturalezza che deriva da uno studio profondissimo del personaggio, dei suoi bisogni, della situazione; da un’analisi del testo che rifiuta retorica, ricami e sovrapposizioni e punta diritta alla scoperta dei desideri più intimi e potenti dei personaggi; e le parole arrivano per ultime, dopo le emozioni, uscendo dalle loro bocche come le uniche possibili. Non posso fare a meno, trovandomi in territorio americano, di pensare ai racconti dell’Actors Studio, alle cronache di quel debutto di Marlon Brando in Un tram che si chiama Desiderio, che rivoluzionò il modo di essere in scena.

Foto di Giulio Stasi

Esco dalla sala, mi affaccio nel foyer. I video sulle pareti trasmettono in diretta il concerto di musica classica che sta accadendo nella sala grande, la Orchestra Hall. Rachmaninoff, Symphony No. 2, eseguita dalla Detroit Symphony Orchestra. Mi avvicino alle porte per sbirciare dentro la sala. Dietro di me sopraggiunge un gruppo di persone che sta rientrando in leggero ritardo dall’intervallo: con spontaneità e gran classe mi confondo con loro, la maschera mi esorta ad affrettarmi, sono dentro, come in quella canzone di Jovanotti. Mi accomodo nella prima poltrona disponibile di corridoio. Un’orchestra di archi e fiati dal vero, centinaia di anni di studio matto e disperatissimo, un compositore d’eccezione, tutte le riflessioni sulla parola in scena perdono ogni significato, mi abbandono alla meravigliosa astrattezza della musica.
Termina il concerto. Lunghi applausi. Sono sorpreso perché qui in America per il teatro di prosa l’applauso è sempre unico e striminzito. Si accendono le luci. Il teatro, che può ospitare ben 2014 persone e vanta una delle migliori acustiche del paese è gremito. Un pubblico alto borghese, bianco, così concentrato non lo avevo ancora mai incontrato a Detroit, città a maggioranza nera e con una storia di segregazione e lotte razziali mai superate. In quella domenica di fine maggio, la buona borghesia di Detroit è tutta lì; famiglie intere che non trascurano l’educazione dei loro figli, nella città in cui il principale problema percepito dalla popolazione è la mancanza di buone scuole per tutti.
Qualche giorno prima mi ero fermato di fronte a un autolavaggio abbandonato. Ce ne sono a migliaia di edifici così a Detroit. Migliaia. A questo mi ero particolarmente affezionato, lo vedevo ogni giorno passando con la macchina, immaginavo di comprarlo per poche migliaia di euro e trasportarlo così com’è a Roma, dove sarebbe stato unico. Mi convinco a insistere su questo pensiero assurdo e impossibile, una sorta di Tentativo di Volo di Gino de Dominicis, performance in cui l’artista salta ripetutamente da un piccolo declivio agitando le braccia nel tentativo di riuscire a volare. Mi convinco che possa scaturirne un’idea brillante. Forse è solo nostalgia di casa, della comunità teatrale e artistica romana con cui condivido questo amore e passione, e senza la quale mi sentirei orfano.

Foto di Giulio Stasi

Quando scendo dalla macchina scopro che l’autolavaggio non è abbandonato. Conosco Ted, che più o meno clandestinamente ci vive e lavora. Ripara macchine, fa lavori di grafica sulle carrozzerie e altri oggetti. Credo che le Nike usate che rivernicia e personalizza si potrebbero vendere a duecento euro in un negozio di Monti o del Marais. La diffidenza nei miei confronti si scioglie abbastanza velocemente. Mi racconta delle difficoltà che incontra ogni giorno per sopravvivere. Mi parla di Detroit. Mi dice che alla base di tutto c’è una questione di razza, che non puoi capire se non sei nero, se non sei nato e cresciuto a Detroit. Mi chiede dell’Europa. Quante ore ci vogliono per arrivare.
Qualche giorno dopo supero l’8 Mile, la strada che segna il confine fra la città vera e propria e l’inizio della periferia. Il quartiere si chiama Ferndale, animato e colorato da un veloce processo di gentrification e di attenzioni del movimento LGBT. Vi ha sede il Ringwald Theatre, dove va in scena Silence! The Musical, ovvero un divertente musical parodia low-budget non autorizzato de Il silenzio degli innocenti.
Lo spettacolo, fra l’amatoriale e il geniale, a tratti esilarante, quasi sempre macchiettistico, è una parodia di sicuro godimento per i fan del film; personalmente avrei dovuto ricordare meglio la pellicola e possedere un inglese migliore per cogliere tutte le battute, e dopo le risate iniziali, superata la metà dello spettacolo comincio ad annoiarmi e invocarne ardentemente e segretamente la fine. Soprattutto si fa apprezzare l’esilarante coro di agnellini che, durante il primo incontro in carcere della giovane poliziotta con Hannibal, fa eco ai detenuti che aggrediscono la giovane e intona un «I can smell your cunt!» fino a coinvolgere l’intero cast.
Prima di tutto c’è l’idea di creare un musical da un thriller psicologico, che fa esplodere, in maniera esilarante, morbosità e drammi nascosti. Forse dietro questo spettacolo un po’ amatoriale c’è il potenziale per un musical politically uncorrect di caratura mondiale.
Caratura mondiale. Sembra che in campo teatrale solo i musical, l’opera, e pochissimi altri spettacoli riescano a raggiungerla. La velocità a cui aspira a correre il mondo mal si concilia con i tempi, le economie, il pensiero critico proposto da un teatro contemporaneo intellettualmente indipendente. La maggior parte degli esperimenti, luminosissimi, che vedo qui, come in Italia, sembrano destinati a brillare in una piccola nicchia per spegnersi poco dopo. Sembra quasi impossibile trovare un ritmo, una dimensione, un affiatamento per poter dialogare con la società contemporanea senza dover scendere al compromesso e sottostare a meccanismi che ne alterino le fondamenta per metterla al proprio servizio o relegarlo alla decorazione.
L’entusiasmo collettivo e la velocità di azione che si respira nelle sedi delle società ospitate nei palazzi di Dan Gilbert, che Bruce Schwartz mi porta a visitare quando mi riceve, sembrano stridere con una sensibilità creativa indipendente. Eppure Bruce è cortese e molto disponibile: discutiamo anche dei punti di contatto del mio progetto Accidentes Gloriosos con lo spirito e i progetti di questa città.

Foto di Giulio Stasi

Vado al Dabls African Bead Museum, spazio dell’artista Dabls, virtual story teller che 16 anni fa ha voluto trasformare questo angolo di Detroit in «uno spazio che permettesse alla sua comunità di capire l’immenso potere dell’eredità africana». Purtroppo il museo è chiuso, ma nel giardino trovo molte sculture fra cui… un teatro. Realizzato con materiali di recupero di ogni genere, mi colpisce soprattutto per i pesanti massi che rappresentano gli spettatori.
Poco distante è invece lo spazio One Mile. Liza Bielby me lo ha descritto come un collettivo di artisti e uno spazio afro-futurista e mi ha fatto pensare alle fotografie della serie The Afronauts della mia amica Cristina De Middel, una riflessione sul sogno collettivo africano. Quando arrivo anche questo spazio è chiuso. Giro intorno all’edificio. Trovo una porta rudimentale chiusa con una catena. Spio attraverso il buco. Mi appare un’astronave. Improvvisamente, dentro quel buco tutto si mescola vorticosamente: i miei Accidentes Gloriosos, l’arrivo a Detroit, l’hangar di Shua Group, il car wash da spostare in Italia, i tentativi di Gino de Dominicis, i freni del teatro, i macigni come spettatori, Rachmaninoff, Stella, i sogni di Ted e dei suoi antenati, gli Afronauti di oggi, l’astronave…
Volare.

Giulio Stasi

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