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Da Londra. Perché Angels In America è ancora uno spettacolo-evento

Angels in America, dramma scritto da Tony Kushner vincitore del premio Pulitzer nel 1993, è in scena fino al 19 agosto al National Theatre di Londra con Andrew Garfield per la regia di Marianne Elliott. Recensione

Foto Helen Maybanks
Foto Helen Maybanks

L’obiettività di un qualsiasi approccio critico o giornalistico ad Angels in America corre il rischio di essere inficiata dall’eccezionalità del fenomeno osservato, più simile a un sortilegio che a un semplice spettacolo. Indiscusso capolavoro del teatro americano di fine Novecento, insignito del premio Pulitzer nel 1993 e inserito l’anno seguente nel canone della letteratura occidentale curato da Harold Bloom, il dramma scritto da Tony Kushner può vantare una versione operistica e un celebre adattamento televisivo, così come allestimenti pressoché in ogni parte del globo. Più ancora che in questi meri dati di cronaca, è tuttavia nell’esistenza di una vasta comunità di fan, spettatori appassionati fino al parossismo, che Angels in America sembra rivelarsi come un unicum nel panorama della prosa contemporanea, capace di suscitare quelle stesse reazioni che, nel teatro anglo-americano, sono riscontrabili con maggiore frequenza a margine dei grandi musical di Broadway o del West End. La nuova produzione del National Theatre di Londra, in scena fino al 19 agosto, sembra aver definitivamente confermato l’impressione che questa dissacrante epopea post-moderna sia anche un coltissimo fenomeno di costume: sold out per tutte le repliche già a poche ore dalla messa in vendita dei biglietti, ha originato su Twitter quella che l’Evening Standard ha definito una “tempesta” di entusiastiche reazioni.

Foto Helen Maybanks
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La presenza nel cast di Andrew Garfield, quest’anno candidato al premio Oscar come miglior attore protagonista, ha sicuramente contribuito a conferire all’operazione una patina di sobrio divismo: eppure un volto noto di Hollywood non sembra sufficiente a spiegare il successo di una pièce che sfida l’attenzione degli spettatori sia nella durata ‑ più di sette ore di spettacolo, fruibili in un’unica maratona o in due serate distinte ‑ sia nella vastità dei riferimenti letterari, filosofici e artistici distillati da Kushner nelle centinaia di pagine del testo. Identificare le ragioni di un tale trionfo sembra essere un processo inane, forse anche superfluo se giustapposto all’intimo, commosso ricordo con cui Declan Donnellan ha ripercorso sulle pagine del Guardian, poche settimane fa, l’emozione della prima lettura dell’opera, di cui diresse nel 1992 il debutto londinese. Eppure un elemento di un’ipotetica indagine sulle ragioni storiche e sociali che, oggi come trent’anni fa, rendono ogni rappresentazione di Angels in America un evento, sembra emergere con assoluta chiarezza: l’opera incarna per la comunità LGBT un manifesto poetico e visionario, esplicitato anche dal sottotitolo Fantasia gay su temi nazionali. Epocale nel tratteggiare il dilagare dell’AIDS attraverso una cifra surreale e fortemente ironica, diametralmente opposta a quella del cinema coevo ‑ si pensi a Che mi dici di Willy? o a Philadelphia ‑, l’epopea di Kushner attraversa, dalla prospettiva socialmente marginale di un gruppo di giovani gay, la storia e il destino di un’intera nazione, facendone deflagrare i miti fondativi in un falò dal gusto camp.

Foto Helen Maybanks
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Il merito principale di questo nuovo allestimento, firmato da Marianne Elliott, sta proprio nel riportare alla luce il tono brillante dell’opera, evidente nella produzione originaria di Broadway e più latente invece sia nella miniserie televisiva diretta da Mike Nichols sia nello storico allestimento italiano di Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani. Fragorose risate hanno così accompagnato, sullo sfondo della decadente New York degli anni Ottanta, l’intrecciarsi delle esistenze di individui disperatamente soli, costretti a combattere non soltanto i propri fantasmi interiori ‑ l’omosessualità mai accettata per il mormone Joe Pitt, la solitudine e l’abbandono per sua moglie Harper, la malattia per Prior Walter e il senso di colpa per Louis Ironson ‑ ma anche apparizioni di spettri, allucinazioni, bislacche intelligenze angeliche votate a fermare il progresso e l’ansia di vita dell’umanità. Ed è un superbo gruppo di attori ad accentuare i timbri graffianti e arguti della scrittura di Kushner: se Garfield ‑ capace di esaltare la propria eterea fisicità con una gestualità soave e femminea, mai macchiettistica ‑ tratteggia un indimenticabile Prior, al contempo straziato e divertito da quel destino che lo ha reso un emarginato tra gli uomini e un profeta per gli angeli, altrettanto convincenti risultano, tra le altre, le interpretazioni di Denise Gough e Nathan Lane, rispettivamente Harper, paranoica e struggente, e Roy M. Cohn, mefistofelico avvocato compromesso con il maccartismo.

Foto Helen Maybanks
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La rigorosa regia di Elliott contribuisce a sottolineare la centralità del lavoro attoriale limitando gli interventi sonori e ‑ soprattutto in Si avvicina il millennio, primo capitolo dell’operale soluzioni scenografiche, in una decisa presa di distanza da qualsiasi facile concessione all’immaginario queer. I monocromatici pannelli mobili, disegnati da Ian MacNeil nei toni spenti del grigio e del bianco, compongono una mutevole e claustrofobica geografia di spogli interni, nei quali è possibile muoversi soltanto lungo i percorsi obbligati e stretti delle proprie paure o dei propri desideri. Linee di luce acida e fluo tratteggiano i confini di stanze e gli angoli di mura che solo la tossica fantasia di Harper sembra poter abbattere: ed è nel delirio psicotico che la vede, quasi alla conclusione della prima parte, immersa in un paesaggio antartico che il palco del Lyttelton Theatre rivela, infine, la magistrale macchineria scenica che lo anima. L’appunto sulla messinscena scritto da Kushner in occasione della prima pubblicazione del testo, per il quale «il trucco si può anche vedere, e forse è bene che lo si veda, ma nello stesso tempo l’illusione deve essere proprio stupefacente», sembra realizzarsi compiutamente nella straordinaria ricchezza di effetti che costellano Perestroika, secondo capitolo dell’opera. E tuttavia, in una geniale e significativa torsione, proprio i movimenti dell’angelo, che più potrebbero prestarsi a espedienti di stampo cinematografico, sono resi possibili attraverso il mero lavoro umano. Elliott affida infatti a un gruppo di servi di scena in costume scuro il compito di sollevare in aria Amanda Lawrence, di muoverne le imponenti ali grigie e di fendere l’aria con una coreografia di piume e carne: una malinconica danza nella quale le ombre rincorrono il chiarore angelico, e i corpi e le anime ‑ umanissime e celestiali ‑ si susseguono in un’ininterrotta connessione.

Foto Helen Maybanks
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È proprio in questa commossa traduzione degli insondabili legami tra esseri umani che sembra celarsi uno dei molteplici sensi di Angels in America: quella condivisione del dolore e della gioia «of human beings interacting» osservata da Donnellan. Ma ad agire sotterranea nel pubblico è forse anche la speranza che il Paradiso sia davvero abitato da «dei creoli, mulatti, scuri come le bocche dei fiumi», e che gli angeli, in fondo, sceglierebbero come propri araldi gli omosessuali e i malati, i drogati e gli infelici.

Alessandro Iachino

Lyttelton Theatre, Londra – maggio 2017

ANGELS IN AMERICA
PART ONE: MILLENIUM APPROACHES & PART TWO: PERESTROIKA
by Tony Kushner
with Susan Brown (Hannah Pitt), Andrew Garfield (Prior Walter), Denise Gough (Harper Pitt), Nathan Lane (Roy M. Cohn), Amanda Lawrence (The Angel), James McArdle (Louis Ironson), Nathan Stewart-Jarrett (Belize), Russell Tovey (Joseph Pitt)
director Marianne Elliott
designer Ian MacNeil
costume designer Nicky Gillibrand
lighting designer Paule Constable
choreographer and movement Robby Graham
music Adrian Sutton
sound designer Ian Dickinson
puppetry director and movement / puppet designer Finn Caldwell
puppet designer Nick Barnes
illusions Chris Fisher
aerial director Gwen Hales
fight director Kate Waters
dialect coach Hazel Holder
company voice work Jeannette Nelson, Charmian Hoare
associate director Harry Mackrill
associate set designer Jim Gaffney
staff director Miranda Cromwell

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Alessandro Iachino
Alessandro Iachino
Alessandro Iachino dopo la maturità scientifica si laurea in Filosofia presso l’Università degli Studi di Firenze. Dal 2007 lavora stabilmente per fondazioni lirico-sinfoniche e centri di produzione teatrale, occupandosi di promozione e comunicazione. Nel novembre 2014 partecipa al workshop di visione e scrittura critica TeatroeCriticaLAB tenuto da Simone Nebbia e Andrea Pocosgnich nell’ambito della IX edizione di ZOOM Festival, al termine del quale inizia la sua collaborazione con Teatro e Critica. Ha partecipato inoltre al laboratorio Social Media Strategies for Drama Review, diretto da Andrea Porcheddu e Anna Pérez Pagès per Biennale College ‑ Teatro 2015, e ha collaborato con Roberta Ferraresi alla conduzione del workshop di critica della Biennale College ‑ Teatro 2017. È stato membro della commissione di esperti del progetto (In)Generazione promosso da Fondazione Fabbrica Europa, ed è tutor del progetto Casateatro a cura di Murmuris e Unicoop Firenze.

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