Il TACT – Festival di teatro internazionale che si svolge a Trieste è alla sua quarta edizione. Più di 100 artisti impegnati in spettacoli e workshop teatrali, ma non solo.
Il TACT è una fessura che si apre sul mondo, punto di osservazione privilegiato per attraversare un teatro fatto da compagnie molto giovani che consegnano pietruzze preziose alla parte più estrosa di una città che sa accogliere e cullare.
Più di 100 artisti da tutto il mondo, per una settimana di eventi serrati (dal 21 al 28 maggio) tra teatro, musica poesia e workshop. La sede che ospita i principali spettacoli è quella del Teatro Stabile Sloveno (Slovensko stalno gledališče) che accoglie anche l’attività del C.U.T. (Centro Universitario Teatrale) promotore del festival ma anche di una serie di esperienze culturali che attraversano la città durante tutto l’anno.
Osservando gli artisti percorrere le vie del festival, che sono quelle della città, tra ripide discese che sbocciano sul mare e qualche nicchia dove prendere il respiro anche i confini delle stesse compagnie sembrano sciogliersi. Trieste è infatti una città di frontiera, uno spazio che fugge l’identità e ha il suo tratto distintivo nella commistione, nell’indeterminatezza, nell’attività febbrile di chi la abita. Un luogo di frontiera come prospettiva privilegiata per guardare al mondo, e non un semplice confine che indica piuttosto il segno elaborato dall’uomo per dividere, un solco per creare fittizie stabilità e presunte immobilità: una città che mal si adatta a linee arbitrarie tracciate dall’uomo. Prendo in prestito, parafrasandoli, alcuni concetti dell’antropologo Piero Zanini per pensare Trieste come terra di mezzo che ospita un giovane festival internazionale giunto alla sua quarta edizione.
Come isole di un arcipelago qui i teatri si guardano e scambiano le loro esperienze come merci preziose, bagagli e corredi personali che aspettano solo di essere contaminati.
Appare così questo festival, terra di contaminazione come la città che lo ospita, qualcosa al di là di un programma pieno di buone intenzioni, ma che ha il coraggio di sventolare la bandiera di una visione più ampia per un’impresa che da il commiato al tanto caro pre-confezionamento dei facili cartelloni.
Lo spettacolo è l’oggetto di scambio che non si limita ad arricchire il palinsesto. Eppure solo il dirlo fa sembrare l’idea estremamente banale. O forse no, proprio scriverlo ha l’ardire di togliere la polvere di dosso a un’idea che sembrava interiorizzata e invece è andata persa. Non ovunque, non sempre. È chiaro. La contaminazione fa dello spettacolo il territorio in cui ci si educa e non solo un’idea a cui si tende. TACT è un festival giovane, appena alla quarta edizione, che sembra avere lo slancio di un gesto in avanti costruito su storie con radici irrequiete.
Una sarabanda di racconti che danzano a ritmo del mondo: da Belgrado The Optimist, dall’India Pratibha Sanskritik Sansthan, dalla Germania Theater Frankfurt/Theater Im Schuppen E.V, da Tel Aviv Yoram Loewnstein Acting School, dall’Egitto East-Voice and Faces Group, da Mosca Studiya.Projet, e poi i napoletani Cantieristupore, i brasiliani Sarcàstica Companhia e da Londra i Legaliens. Se dovessimo nominare anche tutti i poeti, musicisti, band, maestri di worskhop, l’elenco sarebbe ancor più lungo.
E non è solo questione di plurilinguismo che riesce ad attraversare i limiti di un mondo vasto e a tratti incomprensibile, ma è piuttosto la vertigine dell’attesa in cui il termine teatro sa liberarsi, uscire fuori da se stesso e abitare ancora le terre di frontiera. Il cuore rimane l’azione, legata all’effervescenza comunicativa dei nostri tempi, se vogliamo definirla così. Bisognerebbe pensare ai festival non più come qualcosa di costruito, ma qualcosa su cui poter costruire dove il bisogno di rapporti di convivenza – che ci piace definire “umani” – possa viaggiare su questo binario con i sussulti della frenesia e lo scorrere di paesaggi dell’inquietudine.
Doriana Legge