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Teatrosofia #61. I limiti dell’arte. Una reminiscenza platonica in Cassio Severo?

Teatrosofia esplora il modo in cui i filosofi antichi guardavano al teatro. Nel numero 61, si affronta la possibilità, negativa secondo Cassio Severo, di poter padroneggiare più di un’arte.

IN TEATROSOFIA, RUBRICA CURATA DA ENRICO PIERGIACOMI – COLLABORATORE DI RICERCA POST DOC DELL’UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRENTO – CI AVVENTURIAMO ALLA SCOPERTA DEI COLLEGAMENTI TRA FILOSOFIA ANTICA E TEATRO. OGNI USCITA PRESENTA UN TEMA SPECIFICO, ATTRAVERSATO DA UN RAGIONAMENTO CHE COLLEGA LA STORIA DEL PENSIERO AL TEATRO MODERNO E CONTEMPORANEO.

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Ars long, vita brevis, recita un famoso adagio che semplifica un meno noto aforisma di Ippocrate. Pur in questa forma contratta, esso solleva comunque un problema interessante per chi pratica la recitazione. Può l’attore dominare, nello spazio della sua breve vita, la vasta arte che ha scelto di coltivare? Secondo l’oratore Cassio Severo, la risposta è senz’altro negativa.

Il parere di questo personaggio è conservato nel libro III delle Controversie di Seneca il vecchio. Quest’ultimo racconta di aver chiesto una volta a Cassio Severo di spiegargli come mai, pur risultando un grande declamatore nei dibattiti pubblici forensi, egli risultava uno scarso dicitore nelle esercitazioni di fronte a un uditorio privato. La sua giustificazione si basa su un chiaro presupposto ontologico, ossia che nessun essere vivente (animale o umano che sia) possa eccellere in più di un’attività nella sua intera esistenza. A tal proposito, Cassio cita una serie di casi empirici desunti da varie arti, inclusa quella della recitazione. Un attore tragico di grande talento come Batillo non poteva eccellere come Pilade nella commedia, e questi non poteva mostrarsi eccezionale nella tragedia. O ancora, un bravissimo danzatore (quale fu Nomio) non riusciva ad essere altrettanto agile nelle mani come i mimi. Di conseguenza, un oratore pubblico abile come Cassio non può eccellere anche nell’oratoria privata, poiché è la natura umana stessa che lo impedisce. Un uomo o una donna che eccellessero in una specifica arte semplicemente non riuscirebbero a fare bene più di due cose insieme.

La regola generale implicita nel ragionamento di Cassio è, dunque, che due generi opposti (commedia e tragedia, mimo e danza, oratoria pubblica e oratoria privata) non sono entrambi dominabili, perché i loro principi e i loro processi compositivi non possono essere acquisiti appieno da uno stesso individuo. Non è però chiaro se questa impossibilità dipenda dal fatto che ciascuno di noi eccelle solo in ciò in cui siamo propensi per natura, oppure dallo scarso tempo che abbiamo a disposizione per esercitarci. In questo secondo caso, l’incapacità di apprendere alla perfezione due o più generi dipenderebbe dalla nostra mortalità. Un essere umano che diventasse immortale potrebbe forse diventare un attore eccezionale sia nella tragedia che nella commedia, perché avrebbe tutto il tempo per esaurire l’arte della recitazione nella sua interezza. Cassio Severo ha tuttavia forse in mente la prima ipotesi, come dimostra il suo richiamo al mondo animale. Come un cane può essere bravo o solo a cacciare cinghiali, o solo a catturare cervi, in quanto la sua vera abilità gli è dispensata dalla natura, allo stesso modo un essere umano può risultare grandioso solo nel praticare il teatro o con la tragedia o con la commedia. Se Batillo fosse stato per ipotesi immortale, non sarebbe lo stesso apparso mai in grado di rivaleggiare nell’arte in cui rifulse Pilade.

Quanto originale è questa prospettiva? Dato che – poco dopo aver esposto il suo ragionamento empirico – Cassio Severo dice di credere «di poter aggiungere anche dei motivi tutti miei», ne segue che i «motivi» che precedono non sono certamente «tutti» suoi. A chi nello specifico potrebbe risalire, allora, il richiamo all’arte della recitazione? Non è possibile dare una risposta sicura a questa domanda. Ma tenendo conto che l’oratoria faceva ormai ampio uso di luoghi comuni filosofici, come sappiamo ad esempio grazie al Dialogo sull’oratoria di Tacito, si può supporre che il suo argomento che richiamava l’arte della recitazione fosse tratto dalla filosofia. Il parallelo più probabile potrebbe consistere, in tal caso, nel libro III della Repubblica di Platone, dove appunto si argomenta che il medesimo attore non può padroneggiare la commedia e la tragedia al tempo stesso, bensì eccellere solo nell’uno o nell’altro genere.

L’ipotesi in questione è indimostrabile. Se tuttavia il discorso di Cassio Severo costituisce davvero una reminiscenza platonica, si ha la prova di come alcune idee chiave del pensiero greco possano tornare in auge dopo secoli di storia, in contesti molto diversi.

 

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La vita è breve, l’arte vasta, l’occasione istantanea, l’esperimento malcerto, il giudizio difficile (Ippocrate, Aforismi, Sezione I, aforisma 1)

 

E tuttavia quando declamava non era inferiore a se stesso soltanto, ma anche a molt’altri; e così declamava di rado e solo se gli amici ve lo costringevano. Se poi gli chiedevo il perché di questa sua inferiorità, ecco la sua risposta: «Quel che ti maraviglia in me succede a quasi tutti. Anche i grandi ingegni – dai quali mi so ben lontano – quando mai sono emersi in più d’un genere?. La sua eloquenza disertava Cicerone quando si metteva a far versi; la sua felicità d’ingegno abbandonava Virgilio quando scriveva in prosa; i discorsi di Sallustio si leggono in omaggio alle sue storie; la difesa di Socrate composta da uno scrittore eloquente com’era Platone, non è degna né del difensore né dell’accusato. È un limite che non troviamo solo negl’ingegni ma anche nei corpi le cui forze non si prestano mai a tutti negli esercizi: a questo nessuno è pari nella lotta; quello si distingue nel sollevare i pesi; un altro non rallenta mai la sua presa e trattiene con le mani anche un veicolo che corre in declivio. Lo stesso succede agli animali: certi cani sono adatti alla caccia del cinghiale, altri del cervo; non tutti i cavalli, per quanto veloci, sanno condurre una biga; alcuni preferiscono il cavaliere, altri il giogo. Se lasci ch’io ti richiami una mia passione, Pilade nella commedia, Batillo nella tragedia è molto inferiore a se stesso; Nomio, al quale tutti riconoscono e qualcuno addirittura rimprovera l’agilità dei piedi, è goffo quando usa le mani; certi gladiatori resistono meglio ai catafratti, altri ai Traci; alcuni desiderano altri tremano d’esser messi di fronte a un mancino. E così nell’eloquenza: se anche il genere è lo stesso, c’è chi argomenta bene e abborraccia nella narrazione, chi imposta gl’interventi meglio di come li svolge. (…) Cosa grande e varia è l’eloquenza e a nessuno finora è stata così benigna da darsi a lui tutta intera; fortunato chi trova accoglienza in qualche sua parte. Io però credo di poter aggiungere anche dei motivi tutti miei: sono abituato a indirizzarmi non a un uditorio ma a un giudice; sono abituato a rispondere non a me stesso ma a un avversario; non dedico minor cura a evitare le batture superflue che le controproducenti. E che cosa non è superfluo nell’oratoria di scuola se essa stessa è superflua? Ti chiarisco ancor meglio il mio pensiero: quando parlo nel foro faccio qualcosa di concreto, quando declamo mi sembra d’agitarmi nel sogno, come diceva, con un paragone azzeccato, Censorino di quei tali che brigano per far carriera nei municipi. Inoltre sono due cose essenzialmente diverse: combattere è una cosa, tutt’altra far della scherma. La scuola è stata sempre considerata una palestra, il foro un’arena; e per questo si dà il nome di recluta a chi è al suo esordio nel foro. Provati un po’ a portare codesti declamatori in Senato, nel foro; cambiando luogo cambieranno anch’essi; stenteranno a ritrovarsi, come gli organismi fatti crescere al chiuso, accarezzati dall’ombra, non possono stare a cielo aperto, non sanno sopportare la pioggia, non il sole; sono infatti abituati a parlare solo come e quando gli piace. Non puoi valutare un oratore in queste esercitazioni da ragazzi. Giudicheresti un timoniere in una piscina?» (Seneca il vecchio, Controversie, libro III, prefazione, §§ 8-13 = T59 Balbo)

 

E se qualcuno aveva un’infarinatura di filosofia e sapeva inserire nel suo discorso qualche luogo comune tratto dalle sue letture, lo portavano alle stelle. Non dobbiamo nemmeno stupircene, perché allora queste erano delle novità sconosciute, e pochissimo fra questi oratori avevano nozione dei precetti dei rètori e delle dottrine dei filosofi. Oggi, ormai, note queste cose a tutti, si può trovare a fatica chi, in un circolo di uditori, non abbia, se non proprio un’istruzione, almeno una qualche idea di questi primi elementi (Tacito, Dialogo sull’oratoria, § 19)

 

«Tanto meno dunque potrà dedicarsi ad un’occupazione degna di nota e al tempo stesso imitare molte cose con abilità mimetica, se è vero che uno stesso poeta non è capace i praticare bene i due tipi di imitazione che sembrano esser vicini tra loro, cioè di comporre insieme commedie e tragedie. Non le chiamavi poco fa entrambe imitazioni?».

«Io sì: e dici il vero, una stessa persona non ne è capace».

«E neppure di fare insieme il rapsodo e l’attore».

«Vero».

«Ma vedi, neanche gli stessi attori recitano sia commedie sia tragedie; eppure si tratta sempre di imitazioni, o no?».

«Imitazioni».

«E mi pare, Adimanto, che la natura dell’uomo sia frazionata in spiccioli ancora più piccoli di questi, sì che è incapace di imitare bene molte cose o di fare quelle cose stesse che le imitazioni appunto copiano».

«Verissimo», egli disse (Platone, Repubblica, libro III, passo 395a-b)

 

[Le testimonianze su Cassio Severo sono raccolte da Andrea Balbo (a cura di), I frammenti degli oratori romani dell’età augustea e tiberiana. Parte prima: Età augustea, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2004, pp. 228-255. Queste sono le traduzione usate: 1) Mario Vegetti (a cura di), Opere di Ippocrate, Torino, UTET, 1965; 2) Agostino Zanon Dal Bo (a cura di), Seneca il vecchie: Controversie. Libro 2, estratti dai libri 3-6, Bologna, Zanichelli, 1986; 3) Luciano Lenaz, Felice Dessi (a cura di), Tacito: Dialoghi sull’oratoria, Milano, Rizzoli, 1994; 4) Mario Vegetti (a cura di), Platone: Repubblica. Vol. 2: libri II-III, Napoli, Bibliopolis, 1998]

Enrico Piergiacomi

Sullo stesso argomento leggi anche: Teatrosofia #16. La Repubblica Platonica e l’arte mimetica

 

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Enrico Piergiacomi
Enrico Piergiacomi
Enrico Piergiacomi è cultore di storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Trento e ricercatore presso il Centro per le Scienze Religiose della Fondazione Bruno Kessler di Trento. Studioso di filosofia antica, della sua ricezione nel pensiero della prima età moderna e di teatro, è specialista del pensiero teologico e delle sue ricadute morali. Supervisiona il "Laboratorio Teatrale" dell’Università degli Studi di Trento e cura la rubrica "Teatrosofia" (https://www.teatroecritica.net/tag/teatrosofia/) con "Teatro e Critica". Dal 2016, frequenta il Libero Gruppo di Studio d’Arti Sceniche, coordinato da Claudio Morganti. È co-autore con la prof.ssa Sandra Pietrini di "Büchner, artista politico" (Università degli Studi di Trento, Trento 2015), autore di una "Storia delle antiche teologie atomiste" (Sapienza Università Editrice, Roma 2017), traduttore ed editor degli scritti epicurei del professor Phillip Mitsis dell'Università di New York-Abu Dhabi ("La libertà, il piacere, la morte. Studi sull'Epicureismo e la sua influenza", Roma, Carocci, 2018: "La teoria etica di Epicuro. I piaceri dell'invulnerabilità", Roma, L'Erma di Bretschneider, 2019). Dal 4 gennaio al 4 febbraio 2021, è borsista in residenza presso la Fondazione Bogliasco di Genova. Un suo profilo completo è consultabile sul portale: https://unitn.academia.edu/EnricoPiergiacomi

1 COMMENT

  1. Si può dunque dedurre che “eccellere” non è poi questa grande cosa. Meglio sarebbe poter “brillare” come piccole pietre, che possono mandare lampi in più direzioni.

    Claudio

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