Romeo Castellucci debutta in Italia con il suo nuovo spettacolo Democracy in America. Siamo stati a vederlo in prima nazionale a Prato. Recensione
«Questo spettacolo non è politico. Questo spettacolo non è una riflessione sulla politica quanto, semmai, una sua conclusione». È con queste parole che Romeo Castellucci introduce nelle note di regia Democracy in America, presentato in prima nazionale al Teatro Metastasio di Prato: e la negazione risulta quasi paradossale nel riferirsi a una creazione che, fin dal titolo, dichiara di ispirarsi al capolavoro di Alexis de Tocqueville, testo imprescindibile per la politologia fin dal suo apparire nel 1830. Tuttavia anche il prologo sonoro con cui si apre lo spettacolo invita il pubblico a rifiutare qualsiasi semplicistica interpretazione che legga nell’ultima produzione della Socìetas Raffaello Sanzio l’esito di una mera riflessione sulle forme del potere statuale negli USA.
Lungi infatti dall’immergere gli spettatori fin dai primi istanti nelle atmosfere inquiete delle colonie americane di fine Settecento, Castellucci invade la fonosfera della sala con un lungo vocalizzo non verbale, registrato – come leggiamo nelle didascalie proiettate sul velatino posto all’altezza del proscenio – in una congregazione religiosa di Oklahoma City nel 1980. Quell’estratto audio di un fenomeno di glossolalia – il misterioso coacervo di fonazioni ignote considerato un dono di Dio e la cui più celebre descrizione è contenuta negli Atti degli Apostoli – sembra infatti da un lato rivelare le istanze mistiche che si situano a fondamento teorico di Democracy in America, e dall’altro evidenziare una sotterranea indagine sulle possibilità stesse dell’espressione e della rappresentazione, linguistiche o teatrali.
Se è anche attraverso la voce e la parola che il potere divino è sembrato manifestarsi agli uomini nel corso della Storia, Castellucci ne mette adesso in luce gli utilizzi, “umani e troppo umani”, attraverso cui il potere della comunità decreta pene e condanne per i singoli, o grazie al quale la società europea cancella le secolari identità native. L’incandescente nucleo tematico è tradotto dal regista cesenate attraverso la consueta pluralità di soluzioni sceniche: all’interno di una struttura narrativa riconoscibile – il cui testo è firmato da lui insieme a Claudia Castellucci – emergono così tracce audio, recitazione in più lingue, videoproiezioni di note esplicative, in un duplice afflato che pone l’accento sulle possibilità del linguaggio e al contempo svuota quest’ultimo di significati comprensibili. Le correlate vicende di una coppia di contadini puritani e di due nativi americani costituiscono i capitoli principali di un complesso dispositivo scenico, dove anche la danza è cardine imprescindibile sul quale sviluppare suggestioni iconografiche, filosofiche, teologiche.
Al sollevarsi del velatino la scena si apre su una coreografia corale di un gruppo di donne, in abiti bianchi militareschi dai quali pendono incongrue campane metalliche: una partitura caotica nella quale i possibili significati sono affidati alle bandiere imbracciate dalle danzatrici ed esposte ritmicamente alla platea. Su ognuno degli stendardi campeggia infatti una lettera della scritta Democracy in America, che il gioco combinatorio del movimento scompagina presto in frasi ellittiche e surreali, o in nomi di paesi del mondo. È Elizabeth, contadina di una comunità del New England, a concedere finalmente spazio alla parola umana, dopo una successione di frammenti dove glossolalie e silenzi sono interrotti soltanto dagli innesti sonori di Scott Gibbons. In un lungo segmento recitato con viscerale passione da Giulia Perelli e Olivia Corsini, interpreti dei ruoli principali all’interno di un cast di performer tutto al femminile, Elizabeth rivela la propria indicibile angoscia al marito, la voce rotta e lo sguardo colmo di terrore. Ella coltiva il germe della blasfemia e dell’apostasia, forse anche quello della colpa: la terra promessa si è rivelata arida e difficile da coltivare, spoglia come il palcoscenico sul quale si muove.
La fame piega la fede della donna così come il suo stomaco; il cieco impegno che l’ha condotta attraverso l’Atlantico non ha determinato alcuna ricompensa, e lo sconforto rabbioso della donna è di per sé foriero di eresia: troppo debole è la sua fiducia nella grazia, unico strumento attraverso cui Dio amministra la salvezza. L’abbondanza di messi che gli altri membri del piccolo villaggio riescono a ricavare dalla quotidiana ed estenuante cura del campo insinua nella donna il piacere della bestemmia, così come l’atroce ferita dell’invidia: quella passione livida il cui diffondersi costituisce per Tocqueville una cifra della neonata società statunitense.
Democracy in America sembra così chiamare in causa non soltanto l’opera del filosofo francese, ma anche l’intero corpus di testi capitali del pensiero occidentale dedicati alla secolarizzazione, alla connessione tra religione e sviluppo economico-sociale, al sottile sfrangiarsi della teologia nella politica.
Il crimine di cui la donna si è macchiata – un atto quasi demoniaco – è destinato a essere condannato dalla comunità: e in uno spazio scenico vuoto e oscuro, la voce del villaggio prende la forma di una sentenza proiettata sul fondale, analoga a quella scritta che la mano di Dio vergò sul muro del Tempio di Gerusalemme, annunciando l’imminente fine di Babilonia. Gli uomini hanno modellato il potere statuale a immagine e somiglianza di quello divino, amministrandolo secondo stilemi e norme mutuate dalla religione; la creazione di una mistica della democrazia, di un sofisticato meccanismo nel quale la voce della legge tuona come quella di Mosè, ne è la conseguenza primaria.
Le vicende storiche degli Stati Uniti scorrono così come un elenco di date ed eventi: oltre e al di sotto di essa, offuscati dal velatino sul quale la cronologia è proiettata, hanno luogo ineffabili riti femminei o oniriche apparizioni di mobili strutture aeree, che dalla sommità dello spazio scenico incombono sull’abisso del palco. E tuttavia il lungo segmento centrale dello spettacolo, dove più evidente si mostra la straordinaria cura visuale ed estetica di Castellucci, origina un significativo cortocircuito con il carattere ostinatamente posticcio dei costumi che celano i corpi di Perelli e Corsini. Indossando maschere e tute di lattice, le due giovani attrici interpretano nel quadro conclusivo due nativi americani, posti di fronte all’inarrestabile sviluppo della colonizzazione europea.
La drammaturgia espunge qualsiasi facile ostentazione dell’atrocità del genocidio: è sulla rimozione dell’identità culturale che è posto invece l’accento, in una riflessione sulle conseguenze della diffusione e dell’imposizione della lingua dei coloni. Con una vertiginosa torsione Castellucci sembra però interrogarci sul senso stesso della finzione teatrale, sull’essenza di una macchina scenica e di un linguaggio performativo le cui pretese di realismo risultano intrinsecamente inani. Il gesto con cui le due attrici si spogliano accuratamente dei costumi e si allontanano da quella seconda pelle che ne ha mutato le fattezze assume così inconsueti sensi metateatrali: ed è abbandonando il palcoscenico del teatro e al contempo della Storia che Perelli e Corsini – e i nativi americani – escono di scena.
Alessandro Iachino
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visto al Teatro Fabbricone, Prato – aprile 2017
DEMOCRACY IN AMERICA
liberamente ispirato all’opera di Alexis de Tocqueville
regia, scene, luci, costumi Romeo Castellucci
testi Claudia Castellucci e Romeo Castellucci
musica Scott Gibbons
con Olivia Corsini, Giulia Perelli, Gloria Dorliguzzo, Evelin Facchini, Stefania Tansini, Sophia Danae Vorvila
e con Irene Bini, Sara Bolici, Mariagiulia Da Riva, Laura Ghelli, Virginia Gradi, Giuditta Macaluso, Sara Manzan, Sara Nesti, Cristina Poli, Elisa Romagnani, Irene Saccenti, Fabiola Zecovin
coreografie liberamente ispirate alle tradizioni folkloriche di Albania, Grecia, Botswana, Inghilterra, Ungheria, Sardegna
con interventi coreografici di Evelin Facchini, Gloria Dorliguzzo, Stefania Tansini, Sophia Danae Vorvila
assistente alla regia Maria Vittoria Bellingeri
maître répétiteur Evelin Facchini
sculture di scena, prosthesis e automazioni Istvan Zimmermann e Giovanna Amoroso
realizzazione costumi Grazia Bagnaresi
calzature Collectif d’Anvers
direzione di scena Pierantonio Bragagnolo
tecnici di palco Andrei Benchea, Giuliana Rienzi
datore luci Giacomo Gorini
tecnico del suono Paolo Cillerai
costumista Elisabetta Rizzo
fotografo di scena Guido Mencari
produzione esecutiva Societas
in coproduzione con deSingel International Artcampus; Wiener Festwochen; Festival Printemps des Comédiens à Montpellier; National Taichung Theatre in Taichung, Taiwan; Holland Festival Amsterdam; Schaubühne-Berlin; MC93 Maison de la Culture de Seine-Saint-Denis à Bobigny con Festival d’Automne à Paris; Le Manège – Scène nationale de Maubeuge; Teatro Arriaga Antzokia de Bilbao; São Luiz Teatro Municipal, Lisbon; Peak Performances Montclair State University (NJ-USA) con la partecipazione di Théâtre de Vidy-Lausanne e Athens and Epidaurus Festival
L’attività di Societas è sostenuta da Ministero dei beni e attività culturali, Regione Emilia-Romagna e Comune di Cesena