Peter Pan guarda sotto le gonne, diretto da Livia Ferracchiati e scritto assieme a Greta Cappelletti, dalla favola di J. M. Barrie alle questioni legate all’identità di genere. Recensione
Peter Pan era un bambino che non voleva crescere. Così diceva il suo primo padre di penna J. M. Barrie, perché di fronte alla prospettiva di vita futura auspicata dai genitori, il bambino che voleva diventare un uccello rifiutò, finendo «per rimanere imprigionato nell’abisso dell’uomo che non vuole diventare e del ragazzo che non può continuare ad essere». Ma cosa c’entra il famoso romanzo per ragazzi scritto nel 1902 con le tematiche legate alla “gender variance” che sono uno dei fuochi di Peter Pan guarda sotto le gonne? Lo spettacolo diretto da Livia Ferracchiati e scritto assieme a Greta Cappelletti da Terni è approdato in molte città italiane: Todi, Milano, Reggio Emilia, Roma, Genova, e arriverà il prossimo agosto (assieme a Todi is a small town in the center of Italy e Stabat Mater) alla Biennale veneziana all’interno della rassegna di personali di nove registe donne voluta da Antonio Latella.
Osservando la bontà del lavoro della compagnia The Baby Walk, crediamo che spettacolo e romanzo abbiano ben più di qualcosa in comune, anche se alla fine ci sembra approdino a due ordini di riflessione differenti. Partiamo da una prima banale constatazione: se volessimo compararli a partire dai riferimenti drammaturgici, diremmo che questo visto al Teatro Quarticciolo è più vicino a un prequel che a una riscrittura: nessun’isola, solo l’ipotesi vagheggiata di una casa sull’albero, nessun pirata crudelmente infantile, nessun bimbo sperduto, al limite le voci dei genitori. Non mancano riferimenti più espliciti, dai Kensington Gardens ai nomi dei protagonisti – Peter, Wendy, Tinker Bell, l’ombra – dalla volontà di rimanere bambini al desiderio di fuga. Eppure quella irresponsabilità che incatenava moralisticamente il Peter di Barrie a un non luogo, nel Peter di Ferracchiati viene ripulita da ogni pregiudizio morale, anzi con delicatezza viene inglobata e giustificata all’interno di un percorso di crescita e identificazione del sé, libero da schemi impositivi.
Il Peter protagonista dello spettacolo ha undici anni e mezzo e si trova in un corpo da ragazza. Il disagio che vive è sì esterno, nel rapporto con genitori assenti e resi soltanto con voci grottesche e sopra le righe; ma è soprattutto una questione che nasce all’interno, emergendo nel corpo della intensa Alice Raffaelli. Il suo Peter è biondo, smilzo e spalle curve, corpo raggomitolato, sguardo incavato, incerto, gambe larghe ma passo timido. Indossa costretto un vestito – guarda caso, rosa – che più che un regalo è un involucro fastidioso e rigido. Sembra quasi pungere al contatto con la pelle, con gli arti che entrano a fatica nelle fessure. Un abito che non è habitus, bensì dichiarazione di guerra, campo da battaglia – calcistica – da sporcare, da dover tenere a bada perché non scopra le debolezze di un corpo che non segue il proprio intimo desiderio.
L’età scenica ritratta in questo primo capitolo della Trilogia sull’identità rientra in quella durissima fase preadolescenziale (nella quale conta ancora il raggiungimento di quel “mezzo” anno in più), dove non si è già più, ma non si è nemmeno ancora. Ci si affaccia alle nuove esperienze con curiosità, magari si hanno le idee più chiare di quanto gli “adulti” non vogliano capire, ma si è ancora nel luogo dell’incerto. Così la propria identità, al di là del genere e di quanto impongano le sovrastrutture culturali e sociali, non è ancora pienamente definita. Su questo baratro si muove il nostro bambino quasi FtoM (così viene definita la transizione del corpo da femmina a maschio), contrapponendo gesti e pensieri infantili alla scoperta dell’erotismo, parlate “da duro” e ingenue fughe da casa. Il non essere cresciuti ancora, o meglio, la folle e sensata idea di non voler crescere, proprio come il Peter Pan a cui si rifà nella scrittura Ferracchiati, è tutta lì sulla scena. Nel gestire la relazione con i genitori che si rifiutano di comprendere la predilezione della figlia, e o fanno finta di niente (il non voler crescere è assimilabile alla cosiddetta Sindrome di Peter Pan) oppure considerano come qualcosa di “malato” il suo comportamento (quasi classificato come un “disturbo dell’identità di genere”). Nei rapporti con la tredicenne Wendy (esuberante e perfettamente nella parte Linda Caridi), «una ragazzina per niente bionda», con la quale affrontare un’amicizia incerta dai confini sottili che vanno dalla repulsione all’attrazione. Nel breve incontro con Tinker Bell (la narratrice-fatina in salopette di jeans e zainetto alato è Chiara Leoncini, intenta più a far da ponte tra la fiaba e la realtà, tra il pubblico e la platea). Questo sentimento in bilico diventa immagine metaforica anche nei momenti in cui appare l’ombra di Peter (Luciano Ariel Lanza), un doppio maschile che danza assieme al suo contraltare femminile inscenando la tempesta di sentimenti che si agitano dentro questo ragazzino «non esattamente femmina ma precisamente maschio». Questo flusso emotivo probabilmente necessita ancora di una maggiore cura per la qualità del movimento perché si riesca a leggere la profondità del loro conflitto-incontro. Fa da controcanto invece un ottimo lavoro di restituzione generazionale che non necessita di scene (le reti metalliche quasi un arabesco decorativo), ma si concentra sulle parole e la loro cadenza, sulla gestualità, provocatoriamente consapevole o confusamente ingenua, su un atteggiamento fatto di ammiccamenti e incertezze: sporcati, naturali, mai troppo infantili nella loro complessità.
Per il nostro Peter dover crescere imporrebbe l’incasellamento in un ruolo, in un genere ben definito. Ecco perché sceglie la fuga, la possibilità che si cela oltre quella finestra. Ci spiega Tinker Bell nell’ultimo monologo (forse in un epilogo un po’ frettoloso, ma non per questo privo di slancio poetico): «Sentiva qualcosa che non sapeva spiegare. E non poteva dire mancanza d’amore». Non avete fatto nulla di male, genitori, se i vostri figli non rispondono sempre alle vostre aspettative. Ma non hanno fatto nulla di male nemmeno loro. Non ritenetela una deviazione, qualcosa di riprovevole, perché «saltando tutto intorno» potreste rischiare di vedere aprirsi una finestra, distruggendosi in «mille frammenti».
Viviana Raciti
Leggi l’intervista a Livia Ferracchiati
Visto al Teatro Quarticciolo, Roma – maggio 2017
PETER PAN GUARDA SOTTO LE GONNE
di Livia Ferracchiati
con Linda Caridi, Luciano Ariel Lanza, Chiara Leoncini, Alice Raffaelli
regia Livia Ferracchiati
drammaturgia Greta Cappelletti e Livia Ferracchiati
movimenti scenici Laura Dondi
scene Lucia Menegazzo
costumi Laura Dondi
luci di Giacomo Marettelli Priorelli
e con le voci di Ferdinando Bruni e Mariangela Granelli
promozione Andrea Campanella
con il sostegno di Campo Teatrale
compagnia The Baby Walk