La compagnia ravennate Fanny & Alexander compie 25 anni. Raggiungiamo Chiara Lagani e Luigi de Angelis all’Angelo Mai in occasione della ripresa di due loro spettacoli, To be or not to be Roger Bernat e West. Intervista.
Sabato pomeriggio, Angelo Mai Altrove Occupato. Arrivo da un altrove lavorativo per incontrare Chiara Lagani e Luigi de Angelis, da 25 anni in arte Fanny & Alexander. Reduci l’una da una bronchite l’altro da un torcicollo, hanno appena finito di provare assieme a Francesca Mazza, che da qui a poche ore diventerà «corpo spinale» in uno dei lavori dedicati al Ciclo di O/Z, West, che segue To be or not to be Roger Bernat, presentato le due sere precedenti. Dire che siano semplicemente drammaturga e regista è riduttivo. Le loro voci trasmesse live tramite auricolari all’attrice che, secondo il metodo dell’eterodirezione agirà in scena direttamente secondo indicazioni, delineano un dialogo mai definito, sempre in ascolto delle tracce (testuali, d’azione e musicali) e delle loro restituzioni. Ne abbiamo approfittato allora per farci raccontare un po’ il loro percorso, dagli albori fino ai progetti futuri.
Quest’anniversario mi sembra possa essere l’occasione per ripercorrere questi 25 anni, come eravate all’inizio, cosa è accaduto nel frattempo. Non è un traguardo da poco, anche se è vero che, soprattutto nel vostro territorio, ci sono anche altre realtà longeve…
Chiara: Tutto va molto più veloce, e i cicli di vita si sono accorciati. Se pensi anche alle realtà storiche emiliano romagnole, anche quelle molto consolidate, sono ancora vive ma sono estremamente cambiate, si attraversano delle morti e delle rinascite, cambiando nome o lasciando lo stesso ma facendo evolvere una storia. Dalla Socìetas nella quale il lavoro si è tripartito, alla Valdoca. Le Albe, pur mantenendo una struttura più stabile, perché hanno saputo creare questa grande comunità permanente, sono cambiate tanto dal punto di vista poetico.
Voi avete iniziato a lavorare assieme da giovanissimi, nemmeno diciottenni. Cosa accadeva a Ravenna in quegli anni, qual era il clima culturale, teatrale, cosa vi ha smosso, tra frequentazione di laboratori e incontri con personaggi significativi?
Luigi: Io e Chiara ci siamo conosciuti al liceo e la mamma di Chiara, Loretta Masotti, era la mia professoressa di storia e filosofia, poi era anche una mia amica e confidente di quel periodo, prima ancora che io conoscessi Chiara. A un certo punto mi chiese se la figlia sarebbe potuta venire a vedere le prove di un mio progetto di teatro. Entrambi frequentavamo il Teatro delle Albe, che nel panorama ravennate è stato un punto di riferimento. Io avevo fatto un laboratorio a quattordici anni con Ermanna Montanari. Il Teatro delle Albe probabilmente era l’unica cosa che ci indicava una via differente rispetto a quello che eravamo abituati a vedere al Teatro Alighieri, che è il teatro di tradizione della città e che entrambi avevamo frequentato fin da bambini. Le Albe rappresentavano per noi l’unica visione del teatro possibile, che ti sorprendeva e ti poneva degli interrogativi, delle contraddizioni, ti metteva in gioco, ti faceva perdere delle certezze. Sicuramente ci siamo nutriti molto da questo incontro, ma anche dal desiderio di continuare a lavorare insieme e di creare un nostro mondo quasi con la determinazione che possono avere i bambini. Fare un gioco ma fallo in maniera seria da subito, crederci fino in fondo, non pensare di star scegliendo qualcosa ma pensare di essere già scelti. L’unica boa a cui aggrapparsi nel confronto anche difficile con il mondo, l’unica grande possibilità di sopravvivenza.
Avete così deciso di lavorare insieme…
Chiara: Ti raccontiamo l’aneddoto. C’era questo laboratorio che stava facendo Luigi con alcune ragazze – sempre donne nei laboratori [ride] – stavano mettendo in scena Le Troiane di Euripide. Io avevo sentito dire di questa cosa e mi sono incuriosita. I semi del pensiero sono strani, si infilano e crescono come piantine. Io scrivevo tantissimo fin da quando ero piccina, e avevo una cosa nel cassetto tratta dall’Antologia di Spoon River. Un giorno, pensando a come ricambiare quel dono di assistere alle loro prove, durante un intervallo diedi a Luigi questo scritto, ma senza nessuna aspettativa. Alla fine delle lezioni lui l’aveva già finito e mi disse “perché non lo facciamo?”, e io gli chiesi “chi?”, “noi” rispose lui. Non avevo mai pensato a fare teatro veramente, ma comunque iniziammo questa cosa. Ne è rimasta traccia di quell’approccio. Quando Calbi organizzava i Teatri Novanta al Parenti a Milano, rappresentammo uno dei nostri spettacoli, il primo che ci ha portato all’attenzione della critica, Ponti in core, [1996, ndr], io e lui – era un testo molto autobiografico – eravamo in scena in questo teatrino anatomico per soli 24 spettatori, e raccontavamo di questi due bambini, Dorotea e Cipresso, che giocano con le leggende dei santi. C’era questa metafora dell’auto-osservazione del proprio corpo e del proprio stare in uno spazio comunitario con attorno alcuni spettatori che assistono a questo rito. Una delle battute iniziali dello spettacolo era “giochiamo insieme?” e si partiva a raccontare questa storia. Ma veramente il nostro percorso è iniziato così. Il primo lavoro che si chiamava Hevel ed era tratto proprio da Edgar Lee Masters era proprio un giocare assieme. Tanto che, pensa, quando l’abbiamo fatto in una saletta di una ex chiesa sconsacrata che tramite le Albe abbiamo avuto come sala prove – abbiamo debuttato lì e in scena non c’era niente, se non una quarzina per terra e un trabattello da muratori –, finito lo spettacolo io scoppiai a piangere. “E adesso cosa succede?” Per me era stata un’esperienza davvero travolgente ma non mi ponevo il problema della vita teatrale “da adulti”. E dunque finito quel gioco per me è stata la disperazione, come se mi fosse morto qualcuno. Luigi mi consolò dicendo che quel gioco si sarebbe potuto rifare, anche se io ero molto melodrammatica. Eravamo proprio come due bambini che iniziano un gioco, non ci siamo mai messi a tavolino per deciderne l’inizio e fondare la compagnia. Quel momento non è proprio esistito.
Il primo scarto (un evento, uno spettacolo, un incontro) che vi ha permesso di compiere un’evoluzione rispetto quanto fatto?
Luigi: Lo spettacolo di cui ti parlava prima Chiara, Ponti in core. È stato uno spettacolo che ci ha portato anche all’esterno, in tournée, in festival come quello a Monaco di Baviera, a Berlino, ci ha dato un respiro europeo. È uno spettacolo fondativo, perché mette insieme molti aspetti a noi cari. Una prima riflessione più cosciente sul nostro posizionamento rispetto una comunità, il fatto che lo spettatore sia investito di una responsabilità. In un teatrino anatomico ellissoidale, che vuol dire che ciascuna sedia offre un punto di vista differente, lo spettatore lì è da solo, dunque quel contratto che stipula chi decide di vedere uno spettacolo in quel caso è esplicitato con un’attenzione particolare all’individualità dello sguardo. Noi eravamo al centro di questi 24 sguardi differenti, per la prima volta coscienti di quanto ciò potesse significare. Prima probabilmente questa consapevolezza non c’era stata, da allora invece è diventato fondamentale riflettere sulla testimonianza attiva, sempre più accesa e scandagliata in tante forme differenti, sul ruolo dello spettatore. To be or not to be Roger Bernat è uno spettacolo che va molto in questa direzione. Anche West, che faremo questa sera, va a interrogare i neuroni specchio degli spettatori, va a interpellare in maniera esplicita il legame tra chi è sulla scena e chi è dall’altra parte.
Nei vostri lavori mi sembra di poter evidenziare due cardini fondamentali: l’infanzia, l’idea di puro e il gioco, e il suo contraltare torbido, misterioso e macabro; all’interno di questi estremi c’è un comune denominatore che si ripercorre durante tutti gli spettacoli?
Chiara: Sono due temi apparentemente l’uno opposto dell’altro. Il mistero, il senso di sgomento o ammirazione nei confronti dell’idea di finire, della morte sono tipici del bambino. Io lavoro molto con i bambini, da diversi anni, e non c’è essere più stupito al mondo e più pronto al mistero della vita e della morte come il bambino. Più piccolo è, più questo avviene. Mi veniva in mente il titolo di una recensione di Palazzi proprio su Ponti in core, che era intitolata Macabri riti infantili, che riconosceva questa messa in relazione, anche perché la riflessione sulla morte è qualcosa da cui non può prescindere chiunque faccia teatro, la scena è una piccola morte da cui però ci si rigenera ogni volta. Penso veramente che il tema cardine di tutti i nostri lavori sia “l’altro”, nella fattispecie il discorso amoroso, il discorso pubblico, il discorso politico, il discorso mitologico sono sempre in relazione a una comunità. L’altro è ognuno dei singoli e tutto il corpo comunitario. Il due è generativo di qualcosa, siamo noi due sicuramente, ma siamo anche noi e l’altro che viene a vederci. Credo che ogni mito fondativo di tutti gli spettacoli che abbiamo fatto nasca da questo: nel ciclo di Ada, lei e Van sono entrambi protagonisti in scena ma nello stesso tempo nei primi spettacoli, Van reso da Luigi fermo sulla soglia della scena, rappresentava l’avatar dello spettatore che guarda. Questa era una nostra ossessione. In tutto il ciclo dei Discorsi, l’altro è il corpo infetto della comunità, ma è anche un corpo legato all’utopia che lì si va a produrre.
Come si relaziona la vostra comunità di spettatori?
Chiara: Naturalmente le persone hanno un loro gusto e hanno le proprie aspettative rispetto a quello che vedono, lo faccio anch’io da spettatore. Essere spettatore è più difficile che essere artisti, fate più fatica voi, perché avere uno sguardo puro e pronto ad accogliere sia nel sì che nel no ciò a cui state assistendo, è durissimo. Non a caso noi abbiamo fatto tutto un percorso di riflessione anche sullo spettatore. Abbiamo lavorato per anni con Altre Velocità su questa idea del testimone attivo, facendo laboratori assieme, in cui critici e attori erano a confronto. Però mi sembra ancora buffo e strano, anche se fisiologico, che ci sia qualcuno che dica “ma perché non tornate a fare Ada?” quando vede i Discorsi. Perché non tornate alla letteratura, sostanzialmente. Qualcun altro invece al contrario “finalmente non fate più Ada”, avete abbandonato il salotto borghese e vi siete affacciati al mondo, e fate teatro politico. La mitologia fondativa è identica: poi puoi cambiare favola, faccia, storia, colore, cambia l’attore in scena, possono essere uno oppure tanti, ma alla base la domanda ossessiva che ci muove è sempre la stessa, fintanto che l’opera non l’hai esaurita, tu vai avanti a interrogarla e a interrogare chi la alimenta, “ho questa domanda, mi aiuti? Rispondiamo insieme?”. Forse siamo ancora in vita, nonostante i cambiamenti in questi 25 anni, perché abbiamo saputo mantenere viva questa domanda.
Dal punto di vista della struttura è chiara una rielaborazione e una reinterpretazione di diversi codici, la fiaba, il testo letterario, teatrale, la conferenza, quasi passando da un grado maggiore di protezione a una situazione più esposta, frontale: dunque in che relazione si pongono rispetto la messinscena?
Luigi: Chiaramente ogni forma parte sempre dalla relazione con l’altro. E partiamo sempre domandandoci quale sia il contratto tra lo spettatore e l’opera che viene a vedere. Questo determina chiaramente la relazione con il testo. Potremmo metterli tutti su uno stesso piano, orizzontale; non riesco a individuare una trasformazione così netta. Per noi la frontalità dell’attore è fondamentale anche quando facciamo capo a un testo letterario o teatrale, e non solo all’interno dei discorsi, nei quali si parla direttamente a una comunità fin dall’inizio. Però per esempio anche Ada era un attraversamento di un mondo letterario che guardava direttamente lo spettatore nella struttura stessa della scena, lo interpellava continuamente. Non c’è da parte nostra uno scegliere a priori una forma che non abbia questa questione alla base, ovvero interpellare lo spettatore in maniera diretta. Lo spettacolo di stasera, West, ha più strati a cui uno si può aggrappare: lo strato mitico, biografico, narrativo, cronachistico, però dal mio punto di vista sono varianti della stessa questione.
Cosa cercate in un attore? Avete cambiato i vostri obiettivi, le ossessioni che ricercate all’interno dei corpi che rendono possibili i vostri lavori?
Chiara: Io cerco nell’attore un lavoro di scrittura, un qualcosa di laboratoriale, pedagogico. Cerco un collaboratore nel senso tecnico del termine! Mi è necessario frequentare la scena, continuo a stare sul palco a volte nonostante la scrittura sia il mio cuore pulsante, perché altrimenti non riuscirei a scrivere per il teatro, perché ci sono delle questioni talmente precise che se non le sperimenti col tuo corpo non riesci a capire cosa chiedere e cosa scrivere per chi è lì e su chi è lì. L’attore è un essere spinale, un nostro prolungamento, soprattutto in questa modalità basata sull'”eterodirezione”. È un essere spinale, ma ha anche un proprio cuore, cervello e coraggio, per dirla con Oz! Per cui molte delle questioni che mi sono misteriose attendono che l’attore invii una risposta. Io non riuscirei a scrivere nulla senza il corpo di un attore, senza l’essere spinale che ho lì, che alza delle questioni o scioglie dei dubbi. A volte penso e ripongo tanta importanza e fiducia a determinate cose che è sufficiente un gesto di un attore sofisticato piuttosto che una grande pagina di pensiero teorico, fa cadere quella zavorra, ed è eclatante, la fortuna di lavorare con il teatro! Adesso sono presa dal progetto di scrittura e traduzione del Mago di Oz che verrà pubblicato da Einaudi, è un lavoro estremamente diverso, che si consuma in se stesso – anche se tradurre è un bellissimo corpo a corpo con un altro essere. L’attore è invece un corpo chiarificatore, il dubbio viene sciolto dal suo corpo e mi permette di andare avanti con la scrittura.
Luigi: A me interessa la regalità. L’attore deve sentirsi re sulla scena. Il palco affollato da re e regine mentre io mi immagino come maestro di cerimonie. La compagnia è un corpo composto da psiche differenti, a volte anche in conflitto, ma quando si hanno in comune delle esigenze profonde si finisce col trovarci sullo stesso pianerottolo, ci sono sempre dei compagni sodali! Del resto accade pure che sia un attore a indicarti la via magari anche senza esplicitarlo in maniera cosciente. Marco Cavalcoli è stato ed è uno degli attori fondamentali del nostro percorso, ed è grazie a lui se abbiamo potuto sviluppare questo approccio dell’eterodirezione. Forse è stato il modo per assecondare una sua caratteristica che era quella di essere estremamente a proprio agio nel poter assaporare, nel lasciarsi abbandonare nella pelle altrui, quasi come Zelig di Woody Allen.
Mi parleresti di questa particolare modalità scenica, nella quale il performer riceve live le indicazioni sceniche e testuali?
Luigi: L’eterodirezione progressivamente è diventata un metodo, la stiamo applicando nel teatro, nella musica, in altri ambiti, e sta diventando proprio la peculiarità del nostro lavoro. Per esempio lo spettacolo di questa sera, West, è emblematico, anche perché rappresenta l’incontro con un’attrice come Francesca Mazza, che si è prestata a sostare con noi in questo tentativo. L’attore è il primo testimone attivo della nostra passione, passione equiparabile a quella del girasole di fronte al sole, che si fa inebriare da una luce e sta soltanto nel solco di quella luce, come il massimo del gesto amoroso. Riuscire a darsi in quella maniera parte da questo presupposto: se si sta in questo meccanismo, in questa architettura così apparentemente impositiva che pretende la perdita della volizione, significa una dedizione totale, per un attimo sospendere la tirannia dell’ego senza però rinunciarvi del tutto. Questo è un dono che ci è stato dato da tutti gli attori che hanno accettato di condividere con noi questa possibilità.
I vostri progetti futuri?
Chiara e Luigi: Ne abbiamo tantissimi! Più progetti che anni da vivere! Tra pochi giorni inizieremo le prove su L’amica geniale di Elena Ferrante; per adesso sarà ancora una mise en espace perché stiamo sciogliendo la questione dei diritti che non è banale con un’autrice fantasma come lei! Non potremo cambiare nulla, ma sarà una lettura alla nostra maniera, con l’eterodirezione, che entra già in dinamiche evocative e spaziali. Poi abbiamo questa scrittura a quattro mani dell’Amleto, che vorrebbe essere un po’ il coronamento del progetto-studio su l’eterodirezione con Marco Cavalcoli. Proprio in occasione dei 25 anni riprenderemo a dicembre il Cantico dei cantici, che è un lavoro di quando eravamo piccini. Come la domanda che ci hai fatto, come eravamo e come siamo adesso, vorremmo riguardarci a partire da quella partitura e vedere cosa succede ai nostri corpi (saremo in scena noi due come allora). Sempre a dicembre uscirà per I Millenni di Einaudi un volume curato da Chiara con tutti i quattordici libri di Oz! Ci sono ancora altri progetti musicali… Diciamo sempre di fare un po’ meno ma non ci riusciamo mai! E poi ci riduciamo così, con la tosse, il torcicollo… [ridono]
Ma questo è ciò che ci fa respirare…
Chiara e Luigi: Andiamo avanti!
Viviana Raciti