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Il Macbeth di Archivio Zeta, tra rito e simboli

Archivio Zeta mette in scena il suo primo testo di Shakespeare, Macbeth, con il sottotitolo dedicato ad Heidegger, Essere (e) tempo. Recensione

foto di F. Guardascione
foto di F. Guardascione

La semplicità della tragedia pasoliniana, quella visione astorica e archetipica di contadini e lande brulle, si mescola a una teatralità simbolica per la quale il palco è una nera scatola di visioni e pensieri; il gesto teatrale di Archivio Zeta si dilata nel tempo, con un ritmo sconosciuto, una lentezza in cui lo spettatore deve necessariamente prendere il proprio posto, attivando un movimento interno per entrare in comunicazione con il Macbeth della compagnia con sede a Firenzuola. Un lavoro pensato infatti per quel Passo della Futa che ormai da anni è diventato il luogo all’aperto del rito teatrale secondo Gianluca Guidotti e Enrica Sangiovanni (registi, drammaturghi e interpreti).

Un uovo illuminato e infecondo, un grande cerchio con la mappa di volo di Enola Gay (l’aereo killer di Hiroshima) che diventa un mantello per Lady Macbeth, e che rappresenterebbe anche l’antinomia tra visione tolemaica e copernicana, le lancette dell’orologio usate come grandi spade. Questo immaginario altamente simbolico, che diventa quasi una sorta di affascinante rebus per lo spettatore più colto e appassionato, si nutre della tragedia shakespeariana guardandola attraverso il filtro filosofico di Martin Heidegger. Allora per contagio questo Macbeth non può che essere anche la tragedia di un secolo, quello passato, in grado di risucchiare via, dentro il gorgo di quel male umano e spaventoso che originò le ideologie naziste, anche lo spirito di un pensatore fondamentale come il filosofo tedesco. D’altronde la macchia di sangue che Macbeth non riesce a lavar via dalle mani è la grande colpa dell’Occidente.

foto di F. Guardascione
foto di F. Guardascione

Lo spettacolo utilizza questi interrogativi come il carburante inesauribile di meccanismo drammaturgico che deve rispecchiarsi nel testo shakespeariano ma anche superarlo per cercare altre sensibilità e significati. Obiettivo che d’altronde sembra muovere i propositi dell’ultima creazione, Plutocrazia (al Magnolfi di Prato dal 5 al 21 maggio 2017), che a quanto leggiamo nelle note stampa parte da un altro classico, Pluto di Aristofane, per arrivare a riflettere su temi economici e sociologici in chiave contemporanea.

Le due anime di Archivio Zeta, Guidotti e Sangiovanni, si dimostrano capaci di una visione radicale, atteggiamento che probabilmente hanno consolidato nelle esperienze da attori ronconiani. Di quel teatro trattengono il lavoro sulla parola, artigianale, attuato attraverso una precisa modellazione della musicalità, lavorando sullo scontro inevitabile tra ritmica e intenzione, su quelle dilatazioni che contribuiscono al loro marchio di fabbrica. La spinta alla ricerca simbolica e ritualistica è rintracciabile invece in un immaginario più vicino ad alcuni lavori della Socìetas o di Valdoca.

foto di F. Guardascione
foto di F. Guardascione

Questo Macbeth in cui le celebri streghe del bardo vestono il lungo e appuntito copricapo del Ku Klux Klan, nel quale c’è posto anche per due bambini e un cane lupo dallo sguardo altero, è andato in scena nella versione teatrale al Teatro Studio di Scandicci, al Sala Fontana di Milano e all’Arena del Sole di Bologna. In quest’ultimo spazio ci è capitato di vederlo, senza le magie dell’Appennino al tramonto, di quel luogo così significante ben descritto da Massimo Marino su Doppiozero: «Prati rasi. Un odore che all’inizio non sai bene identificare. Un cerchio di monti intorno. Un lago (Suviana?) sullo sfondo. Qualche fiore viola. Qualche ghirlanda funebre secca tra le distese di pietre tombali allineate, che conservano i resti di soldati nati, in gran parte, nel 1924, nel 1925, e morti nel 1944-45 sulla Linea Gotica, sotto le bandiere del Führer».

foto di F. Guardascione
foto di F. Guardascione

La platea è lontana dallo spazio nero imprigionato nella nebbia, la messinscena lavora su una depurazione del potere narrativo della parola, è qui il rischio maggiore che si prende Archivio Zeta (e probabilmente in uno spazio classico e frontale l’attenzione dello spettatore ha maggiori difficoltà): spolpa la macchina teatrale shakespeariana di quel potere unanimemente riconosciuto nei secoli, per il quale la parola è azione. La parola in Shakespeare determina lo svolgersi dei plot, la loro costruzione e distruzione di fronte agli occhi dello spettatore. Nel lavoro di Archivio Zeta quel valore viene espresso dal tempo che a differenza degli eventi (immobili e predeterminati) diventa la vera sostanza della parola e del gesto. D’altronde il destino non viaggia soprattutto su un binario rappresentato dalla linea temporale? E il destino non è forse quello specchio deformato con cui deve confrontarsi il barone di Glamis? I momenti fondamentali per il plot che l’autore ha ideato a inizio Seicento ambientandolo nella Scozia medievale ci sono tutti, ma qui vengono estrapolati dalla drammaturgia e dilatati. Archivio Zeta lavora con attori capaci – oltre a Guidotti e Sangiovanni si staglia il carattere interpretativo possente di Ciro Masella – con una regia semplice ma funzionale all’architettura concettuale e grazie alla partitura, suonata dal vivo, di Patrizio Barontini. Emblematico in questo senso l’avanzare lento della foresta, il cui incedere è un muro di uomini e suoni, canto e incanto del tempo.

Andrea Pocosgnich

visto a Bologna, Arena del Sole, aprile 2017

MACBETH
essere (e) tempo
di William Shakespeare
drammaturgia e regia Gianluca Guidotti e Enrica Sangiovanni
con Stefano Braschi, Francesco Fedele, Carolina Giudice, Antonia Guidotti,
Elio Guidotti, Gianluca Guidotti, Ciro Masella,
Giuditta Mingucci, Alfredo Puccetti, Enrica Sangiovanni
e con la partecipazione straordinaria di Oscar
partitura sonora Patrizio Barontini
percussioni Luca Ciriegi
fiati Gianluca Fortini
scenografie e costumi Gianluca Guidotti e Enrica Sangiovanni
luci Luca Piga
laboratorio scenografico Morgantini
sartoria Emanuela Paradiso
assistente alla coreografia Carolina Giudice
assistente tecnico Andrea Sangiovanni

coordinamento organizzativo Luisa Costa
organizzazione e amministrazione Lucia Guida
foto di scena Franco Guardascione
grafica Weblogodesign
produzione Archivio Zeta e Elsinor

in collaborazione con
Emilia Romagna Teatro Fondazione, Compagnia del Teatro dell’Argine, Comune di Bologna –Bé bolognaestate

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Andrea Pocosgnich
Andrea Pocosgnichhttp://www.poxmediacult.com
Andrea Pocosgnich è laureato in Storia del Teatro presso l’Università Tor Vergata di Roma con una tesi su Tadeusz Kantor. Ha frequentato il master dell’Accademia Silvio D’Amico dedicato alla critica giornalistica. Nel 2009 fonda Teatro e Critica, punto di riferimento nazionale per l’informazione e la critica teatrale, di cui attualmente è il direttore e uno degli animatori. Come critico teatrale e redattore culturale ha collaborato anche con Quaderni del Teatro di Roma, Doppiozero, Metromorfosi, To be, Hystrio, Il Garantista. Da alcuni anni insieme agli altri componenti della redazione di Teatro e Critica organizza una serie di attività formative rivolte al pubblico del teatro: workshop di visione, incontri, lezioni all’interno di festival, scuole, accademie, università e stagioni teatrali.   È docente di storia del teatro, drammaturgia, educazione alla visione e critica presso accademie e scuole.

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