Da qualche anno sta guadagnando terreno il cosiddetto Event cinema, che porta nelle sale eventi live come teatro, concerti, eventi sportivi e mostre. Un breve ragionamento tra reale e virtuale.
È ancora recente la notizia del Google Art Project che crea possibilità di accesso virtuale agli spazi espositivi e teatrali, da un lato guadagnando un più largo accesso degli utenti, dall’altro sottraendo alcuni dei fondamenti della fruizione di comunità, che impone allo spettatore di assumersi un impegno di mobilità, di spostamento, di continua messa in crisi del proprio spazio d’azione.
Per adesso, al netto delle iperboli della virtualità, viviamo in un’epoca in cui le arti si scambiano il posto, le forme espressive si “ri-mediano” una con l’altra e la comunicazione partecipata mescola fruitore e produttore creando un ambiente in cui le esperienze, a scapito di una forsennata multimedialità, paiono relegate a una bidimensionalità sempre più accuratamente personalizzabile.
A noi che guardiamo le arti performative entrando nelle sale, osserviamo corpi vivi sul palco e li vediamo emergere dall'”uscita artisti” con i volti ancora segnati dalla fatica della performance appena consegnata, pare interessante analizzare una forma ibrida che negli ultimi anni sta guadagnando terreno. Quella che incrocia le modalità di fruizione del cinema con quelle del teatro. Di per sé sono simili, entrambe chiedono allo spettatore quell’assunzione di responsabilità che lo fa uscire di casa per recarsi in un “luogo deputato”, sedersi accanto ad altri diversi da lui e insieme vicini nel ruolo ricoperto, trascorrere un tempo finito nella bolla della condivisione, nella compresenza. Su quest’ultimo termine i due universi si dividono. Se al cinema la moltitudine della platea intrattiene un rapporto frontale con uno schermo che rimanda immagini e suoni preconfezionati, nel teatro il tempo e lo spazio (e la temperatura, e l’odore) sono condivisi anche dal performer, il quale sa che di momento in momento il proprio intervento sarà soggetto alla modificazione di una comunicazione basata sulla relazione.
Ma che cosa accade se quel che osserviamo e ascoltiamo da una platea è la riproduzione filmica di un evento che (in un tempo e in un luogo determinati) è stato messo in scena dal vivo? Stiamo parlando della formula dell’Event Cinema, un progetto internazionale che si propone di portare nelle sale cinematografiche e ora anche teatrali la ripresa di spettacoli teatrali, concerti, documentari, eventi sportivi e mostre d’arte visiva, trasmessi in certi casi dal vivo attraverso una rete satellitare che crea un vero e proprio “broadcast” cinematografico.
Nexo Digital è il nome di una delle aziende principali che si occupano di distribuire questi contenuti, con una crescente presenza in Italia dal 2009, oggi – dal cinema – aperta anche al teatro. Il Teatro Argentina di Roma, infatti, sta in questi giorni ospitando un rassegna shakespeariana dal titolo Cinema sul sipario, che propone Racconto d’Inverno, Romeo e Giulietta (prodotti a Londra dalla Kenneth Branagh Theatre Company) e Riccardo III (Almeida Theatre, una punta della programmazione classica nella capitale britannica).
Qual è il risultato? Sia nella proiezioni live che in quelle “in differita”, a farla da padrone è il concetto di riproduzione: sul grande schermo scorrono i primi piani dei volti di attori e attrici, il loro è sudore digitalizzato sulla fronte mentre il suono “fuori scena” diventa “fuori campo”; la potenza di un audio riprodotto in 5.1 dolby surround porta la voce cavernosa dell’ultimo Plantageneto o i sospiri di Giulietta Capuleti fin dentro la cassa toracica dello spettatore. Siamo di fronte a una vera e propria realtà aumentata. Qual è la domanda, allora? Se mettiamo da parte il gusto (pur importante!) di godere di queste messinscene straniere quasi sempre troppo costose per raggiungere i nostri palchi, che cosa cambia nella nostra esperienza di spettatori?
In virtù di quelle caratteristiche di compresenza, le arti performative sono quelle che, più di tutte le altre, stipulano insieme allo spettatore i termini di un contratto sempre nuovo, una realtà di per sé già aumentata dalla condizione effimera della sua presentazione, dalla fuggevolezza delle impressioni che genera, dal brivido davvero unico che corre lungo la spina dorsale di chi sa di partecipare a un evento che non ammette ripetizione reale. E che, cancellando quella possibilità, dona alla stessa parola “reale” un senso sempre nuovo. E sempre, in linea d’aria, sovrapposto alla stessa percezione dello spettatore.
Vedere e ascoltare un enorme Ralph Fiennes che curva la schiena gobba sotto i dolori del deforme Riccardo III è un privilegio; sentirsi abbracciati da un ambiente virtuale che – una volta tanto – invece di tendere al micro si allarga alla ricerca del macro è la conferma che la tecnologia è davvero l’espansione delle facoltà umane.
Resta però il fatto che la miglior tecnologia di digitalizzazione sarà mirata a imitare delle funzioni fisico-chimiche, che il colore degli occhi di Ralph Fiennes proiettato sullo schermo (un segnale elettrico ottenuto dai filtri ottici che catturano la luce e la traducono in codice) sarà la miglior approssimazione possibile del colore che un occhio nudo vedrebbe avendo l’attore inglese in carne e ossa.
Con una perdonabile forzatura, anche l’evento live diverrà una negazione in termini, riprodurrà quella compresenza a partire da convenzioni ormai già imprigionate tra il pugno dell’hardware e l’arma del software: non più un reale sovrapposto a noi, ma un reame amministrato a 1.434 chilometri di distanza. In linea d’aria.
Sergio Lo Gatto