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Compagnia Linga. Una generazione in conflitto

La Compagnia Linga festeggia i suoi venticinque anni di attività e torna a Roma con lo spettacolo Tabula. Intervista a uno dei fondatori.

Foto di Gert Weigelt

Accolti da un pulviscolo fumoso che rende rarefatta l’atmosfera nella sala del Teatro Vascello, gli spettatori romani hanno assistito ieri sera alla prima di Tabula della Compagnia Linga, formazione svizzera residente a L’Octagone, Théâtre de Pully, tornata nella Capitale dopo otto anni di assenza. L’ultimo passaggio risale infatti al 2009 con la partecipazione al Festival Equilibrio con il lavoro Kiss me Goodnight. Incentrato sul tema del conflitto, Tabula si articola in una costante costruzione e decostruzione di spazi e confini, che trova significazione scenica nell’utilizzo di due grandi tavoli i quali, manipolati dai danzatori, diventano muri, barriere, scivoli. Attraverso la strutturazione di partiture dapprima fluide, che guardano alla contraction and release grahamiana, la scrittura coreografica ha il suo centro nel mantenimento di una costante tensione (testimoniata anche dall’«ambiente musicale» in crescendo) esplicitata da movimenti speculari, agiti sopra, sotto, ai lati dei due tavoli, e dalle numerosissime pose plastiche, poi smontate e “liberate” nella corsa e negli slanci. Per capire a fondo le ragioni tematiche che sostengono questo ultimo lavoro, abbiamo deciso di parlare con Marco Cantalupo, coreografo e fondatore, insieme a Katarzyna Gdaniec, dell’ensemble che quest’anno festeggia i suoi venticinque anni di attività.

Il termine “Tabula” fa subito pensare a qualcosa sulla quale lasciare un segno, l’incisione di un passaggio, ma allo stesso tempo all’idea di “tabula rasa”… Qual è l’equilibrio tra il segno e la sua ridefinizione?

Si generano e si rinnovano equilibri nel disequilibrio. Ci interessa l’equilibrio nell’istante in cui esso viene compromesso, quando si rompe. In un altro lavoro per esempio, Falling grace, l’equilibrio è un momento “magico” tra le due cadute. Volevamo mostrare proprio la precarietà di queste tensioni, senza dare loro una risposta o una risoluzione. Nella prima parte la crisi viene preparata per poi esplodere e alternarsi in partiture incentrate sul dissidio, altre sulla riappacificazione; l’equilibrio è esplicitato proprio dal contrasto tra queste tensioni ambivalenti.

Tornate a Roma dopo otto anni di assenza con un lavoro che ha debuttato circa due anni fa e che ha girato il mondo. Come hanno inciso su di esso le variabili del tempo e del viaggio?

Rispetto alla prima mondiale sicuramente molte idee hanno avuto una maggiore strutturazione, altre invece continuano a essere in divenire. Non lo definirei un lavoro in work in progress ma di certo avere avuto, ancora dopo due anni, la possibilità di viaggiare e portarlo in tournée in molte parti del mondo, ci ha permesso di approfondire la scrittura coreografica. Tabula è evoluto anche dal punto di vista drammaturgico rispetto la struttura originale, abbiamo operato diversi cambiamenti nel corso di questo biennio per dare la possibilità ai danzatori di “entrare” ancora di più nella tematica difendendo l’idea originale dello spettacolo.

Da quali idee siete partiti?

Innanzitutto dal concetto di territorio. Utilizziamo degli oggetti molto comuni, come i tavoli, finalizzati alla definizione di spazi. La scenografia è quindi modulata continuamente dai corpi in movimento che trasformano quegli stessi tavoli in muri, gabbie, scale, scivoli… Il territorio ridiventa oggi un tema caldo che passa attraverso i decreti legislativi europei rispetto alla chiusura delle frontiere, la percezione di un sentimento di aggressione da parte dello straniero, l’appropriazione o espropriazione di spazi, la tensione tra diversi gruppi etnici; aspetti molto presenti nella nostra società e sempre più urgenti, che in questo lavoro vengono interrogati attraverso il linguaggio della danza. Ma non vogliamo che ci sia una risoluzione del conflitto, quanto piuttosto la sua brulicante manifestazione.

Foto di Gert Weigelt

I riferimenti iconografici – penso ai chiaroscuri caravaggeschi, alla struttura frontale della prima parte che ricorda molto L’ultima cena di Leonardo oppure alla successiva organicità di alcuni momenti che fanno pensare a La danza di Matisse – come hanno nutrito la scrittura coreografica?

I riferimenti iconografici aprono lo spettacolo: le luci e ombre vogliono riprendere quell’elemento conflittuale e tormentato rintracciabile tanto nella vita e quanto nella pittura di Caravaggio. Volevamo restituire la carnalità di quella passione: il corpo è quello di un guerriero, non di un asceta. Questo aspetto, prettamente fisico e terrigno, ci dà però la misura di come ogni cosa possa esplodere da un momento all’altro perché è viva e fremente. Ci interessa costruire una situazione predisposta al cambiamento e alla reattività, all’accadere imprevisto: una scintilla.

Nelle note leggiamo della compresenza di uno «spazio sociale» e di uno «spazio vitale». Potremmo approfondire i due concetti?

Penso che lo spazio sociale sia legato strettamente alla dimensione architettonica, nella definizione di altrettanti spazi: frontiere, confini, muri. È nella separazione del resto che si giocano gli spazi sociali. Mentre lo spazio vitale è la necessità di uno spazio proprio e autonomo all’interno di un sistema relazionale. Nella scrittura dei movimenti ci siamo fatti influenzare dagli studi relativi alle rotte degli stormi nelle quali si rintracciano spazi di conforto e sconforto; l’organizzazione degli stessi permette agli uccelli di viaggiare insieme per migliaia di chilometri. Lo spazio vitale è quindi un elemento sia fisico che intellettuale: cosa succede al corpo quando è costretto in un ambiente? Costruisce una gestualità pensata in bilico tra uno spazio dato e uno spazio creato.

Chi sono i vostri danzatori?

Durante la selezione ci mettiamo dalla parte del pubblico, sempre. Un danzatore deve smuoverci qualcosa, deve trasgredire la regola e essere “speciale”, trasmettendo una sensazione di autenticità che attragga lo sguardo. La multiculturalità è una grande risorsa e nutrimento, abbiamo cinque sei nazionalità differenti in compagnia. A questa si aggiunga anche la predisposizione all’incoscienza, che secondo me va di pari passo con la capacità di lettura di un complesso universo di segni e alla sua messa in relazione, attraverso il dialogo e il confronto.

Foto di Gert Weigelt

Quale artista o spettacolo ha rappresentato per lei la folgorazione artistica?

[Si ferma a pensare in silenzio] Non è affatto una domanda semplice, o meglio non è sempre evidente. Ce ne sono due, per due momenti diversi della mia esperienza. Quando vidi a sedici anni e per la prima volta Carolyn Carlson, provenendo da una formazione piuttosto accademica [Cantalupo entra giovanissimo alla scuola di danza del Teatro alla Scala, ndr], pensai: “Ah, ma esiste un’altra danza!”. Per me fino a quel momento non esisteva veramente nient’altro oltre a ciò che all’epoca ritenevo noioso e che soprattutto faceva malissimo [ride]. Quindi per me Carolyn Carlson ha rappresentato innanzitutto un’apertura. E poi, nella maturità, Pina Bausch. Senza dubbio. Per l’intelligenza e la capacità di attraversare i generi.

Quest’anno festeggiate venticinque anni di attività, non solo artistica ma anche di trasmissione pedagogica articolatasi in percorsi di formazione. Qual è il vostro metodo e come dialoga con la pratica scenica?

C’è un’intenzione di trasmissione che diventa metodo. Oggi credo non ci siano più metodi, come non ci sono più lingue ma linguaggi in continuo mutamento. Non parlerei di vera e propria pedagogia perché il nostro è piuttosto un accompagnamento. Lavoriamo con danzatori molto giovani che rimangono con noi per anni, e a loro volta generano altre “famiglie”, fanno compagnia o intraprendono carriere da solisti. Potremmo parlare quindi di trasmissione nella misura in cui ciascun artista che lavora con noi costruisce poi una sua personale e diversa visione della danza, non crediamo infatti all’esclusività di un metodo. Anche l’insegnamento della tecnica si è evoluto, soprattutto nella danza contemporanea: prima c’erano delle scuole, oggi siamo nell’era dell’accesso, tutto è raggiungibile, e quindi siamo inevitabilmente costretti a interporre dei filtri, a fare nostra una metodologia di studio.

Lucia Medri

Teatro Vascello – maggio 2017

TABULA

Ideazione e coreografia: Katarzyna Gdaniec e Marco Cantalupo
Interpreti: Pascal Bayart, Marti Güell Vallbona, Ai Koyama, Dorota Łęcka, Raquel Miro, Jean-Yves Phuong, Cindy Villemin, Michalis Theophanous
Luci: German Schwab
Musiche: Hildur Gudnadottir, Svarte Greiner, Raime, Koen Holtkamp
Montaggio musiche: Marco Cantalupo, François Planson
Scenografia: Gilbert Maire, Romaine Fauchère
Costruzione scenografia: Atelier Arrière – Scènes
Costumi: Katarzyna Gdaniec
Foto: Gert Weigelt
Amministrazione: Françoise Oehrli
Comunicazione: Luisa Danie
Comunicazione e ufficio stampa in Italia: Antonino Pirillo
Durata: 60 minuti
Coproduzione: Compagnie Linga, L’Octogone Théâtre de Pully
Prima mondiale: L’Octogone Théâtre de Pully, 13 febbraio 2015

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Lucia Medri
Lucia Medri
Giornalista pubblicista iscritta all'ODG della Regione Lazio, laureata al DAMS presso l’Università degli Studi di Roma Tre con una tesi magistrale in Antropologia Sociale. Dopo la formazione editoriale in contesti quali agenzie letterarie e case editrici (Einaudi) si specializza in web editing e social media management svolgendo come freelance attività di redazione, ghostwriting e consulenza presso agenzie di comunicazione, testate giornalistiche, e per realtà promotrici in ambito culturale (Fondazione Cinema per Roma). Nel 2018, vince il Premio Nico Garrone come "critica sensibile al teatro che muta".

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