In occasione dell’anniversario della nascita del grande attore shakespeariano Laurence Olivier, una riflessione a cavallo tra il cinema e il teatro all’interno del film Enrico V da lui diretto e interpretato nel 1944.
Il cinema ha appena tre anni quando comincia a guardare, adattare, trasporre nei propri codici l’opera di William Shakespeare, destinata poi a enorme fortuna sullo schermo, se si pensa che il primo film da una sua opera è un Macbeth con Johnston Forbes-Robertson datato 1898. Come la fotografia nella sua infanzia si appoggia alla pittura per modellarsi una dignità artistica, non avendo quella storica, così la neonata invenzione dei Lumière guarda al teatro come a un padre dal quale imparare, trarre soggetti, strategie di rappresentazione e convenzioni mimetiche, persino apparato visivo (le inquadrature fisse che “replicano” il quadro di un boccascena). Ma con ogni padre si entra un po’ in competizione: il cinema scavalca ben presto il complesso di inferiorità verso la tradizione teatrale contando sull’opulenza dei propri mezzi tecnici per guadagnarsi valore estetico. Episodio cardine nella storia della cinematografia shakespeariana, che pone proprio una serie di dense riflessioni sui rapporti tra cinema e teatro, è l’Enrico V diretto e interpretato da Laurence Olivier (1944).
Soggetto del film non è solo il dramma storico di Shakespeare in sé, ma il suo essere oggetto teatrale. Olivier, qui al suo esordio dietro la cinepresa, non si limita ad offrire una pedissequa trasposizione filmica della storia del re d’Inghilterra che prende possesso della corona di Francia nel 1415, magari semplicemente sostituendo un paesaggio reale a un fondale dipinto. Sin dall’inizio il film si dichiara anzi come possibile rievocazione di uno spettacolo al Globe nel 1600: la macchina da presa dapprima sorvola il teatro per poi scendere di ordine in ordine, tra il pubblico coevo di Shakespeare che nel chiacchiericcio prende posto e si prepara ad assistere alla rappresentazione, fino ad inquadrare il palco nel momento in cui ha inizio il dramma. Anziché sfruttare i propri mezzi per dar battaglia al teatro sul terreno della verosimiglianza, il film rende evidenti le convenzioni della rappresentazione: mostra persino la preparazione degli attori dietro le quinte (coi giovani impegnati a travestirsi da donne per interpretare i personaggi femminili, secondo il costume dell’epoca), i cambi di scena, e rievoca i vari aspetti dell’esperienza teatrale elisabettiana. Addirittura l’Enrico di Olivier appare quasi titubante dietro le quinte, schiarendosi la voce con un colpo di tosse prima di pronunciare le battute d’ingresso col suo eloquio cristallino e sonante: è un attore emozionato appena prima di andare in scena. Gli interpreti del film sono in questo senso attori del 1944 che impersonano attori del 1600 impegnati a recitare un dramma ambientato nel ‘400. E lo fanno in abiti secenteschi, cioè come assai probabilmente doveva essere ai tempi del Bardo, e un po’ come accade nei dipinti del nostro Rinascimento, dove personaggi biblici e mitici si muovono in scenari che – dalle architetture agli abiti delle figure umane – hanno i caratteri della città del XV secolo. Non solo la prospettiva storica era tutto sommato ancora intuitiva e recente, ma Enrico e i suoi erano (ed era necessario che fossero) percepiti come contemporanei, anche nella povertà di mezzi tecnici e scenografie del Globe.
D’altra parte, in tema di anacronismi, Olivier stesso affermava: «Se nel 1599 fosse esistito il cinematografo, Shakespeare sarebbe stato il più grande regista del suo tempo. Si può dire che egli scrivesse per il cinematografo quando spezzettava l’azione in una serie di piccole scene, ed anticipava così la tecnica dello schermo, impaziente com’era, e come si dimostra in molti drammi, verso le limitazioni paralizzanti del palcoscenico». La macchina da presa fa infatti suo l’invito che il prologo rivolge al pubblico a lavorare d’immaginazione per supplire alla povertà di mezzi della rappresentazione teatrale ed eccedere i limiti dello spazio scenico. Quasi senza che ce ne accorgiamo, nascosti dissolvenze e stacchi di montaggio tra nebbie e fluidi movimenti di macchina, il film abbandona progressivamente il Globe, e la decisiva battaglia di Azincourt viene filmata en plein air. Dapprima un lungo carrello laterale affianca l’avanzata minacciosa della cavalleria francese, poi, dopo la pioggia di frecce dell’esercito inglese, un montaggio più ritmato vede la mischia e le cadute dei soldati. In seguito, il film torna gradualmente alla dimensione scopertamente teatrale, compiendo cioè a ritroso il proprio percorso visivo, replicando ora non solo gli spostamenti dell’immaginazione, ma forse anche avanzata, ritirata, scarto di eserciti su campo di battaglia.
Se il Coro, invitando gli spettatori a lavorare di fantasia per sopperire alle insufficienze del teatro, di fatto guardava in macchina, allora la mobilissima cinepresa sembra costituire quasi una lunga soggettiva dell’immaginazione spettatoriale, che riesce a trasfigurare quanto appare finto e darlo per vero, e a rappresentarsi ciò che le limitazioni tecniche di teatro (e cinema) non saprebbero restituire. Il cinema funziona quindi come una macchina del tempo che qui fa coincidere l’ipotetico sguardo del pubblico secentesco con quello di uno spettatore del 1944. È quello, d’altra parte, l’anno di un altro attacco alle sponde francesi: l’Enrico che sprona i suoi Happy Few alla battaglia, pur se all’interno di una doppia finzione (cinematografica e teatrale), suona alle imaginary forces dello spettatore novecentesco come esaltazione dell’Inghilterra provata dal Secondo Conflitto Mondiale, e impegnata nello sbarco in Normandia. Già nei titoli di testa, la dedica del film alle truppe dell’Esercito Britannico (poi rimossa nella versione restaurata), invita a vederlo anche come opera politica (e del resto è già tale in Shakespeare, per quanto legata a un altro contesto), dove il sovrano inglese è fulcro di una narrazione collettiva, modello di ispirazione, e il suo esercito impegnato contro la Francia è progenitore di quello impegnato contro la Germania.
Ma i padri bisogna aggiornarli, o sfidarli sul loro stesso terreno: l’altra (e ultima) versione cinematografica dell’Enrico V viene realizzata da Kenneth Branagh, al suo esordio da regista cinematografico nel 1989 (anno, per altro, della morte di Olivier). Delle strategie registiche del film del ’44 resta solo un accenno nel prologo, con l’attore Derek Jacobi che si aggira dietro le quinte di un teatro che sembra più di posa che non un palcoscenico. Tutto si sposta quindi su un versante strettamente cinematografico: i set sono reali o realistici, la guerra si combatte nel fango, tra alberi spogli, le corti non sono miniature tardomedievali, ma cupi manieri, a vantaggio di un impatto spettacolare più immediato. Viene così del tutto sacrificata la dimensione metalinguistica del film di Olivier, che è poi uno dei motivi per cui continua a suonare contemporaneo (come del resto è destino dei classici, secondo Calvino). Seppure concepite nel ’44, la densità e la profondità semantica delle sue riflessioni, hanno qualcosa della più avanzata modernità, e allora come oggi il cinema e il teatro non fanno che invocare «muse di fuoco».
Antonio Capocasale