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Totò: la marionetta in teatro non muore mai

Moriva il 15 aprile 1967 il principe Antonio de Curtis. A cinquant’anni dall’ultimo saluto a Totò, un ricordo e un approfondimento che cerca di mettere in luce la matrice prettamente teatrale della sua arte e del suo personaggio.

In A prescindere, 1956
In A prescindere, 1956

Sono poche le figure entrate nell’immaginario, popolare e non solo, sino al punto da assurgere a personaggi, con quella connotazione universale e particolarissima che le rende riconoscibili e conosciute, talmente presenti da inserirsi in una linea quasi atemporale. Figure queste che finiscono per risultare ai più, ove non a tutti, familiari e le cui origini sembrano difficili, persino impossibili da rintracciare. Probabilmente la gran parte di esse vanteranno cifre ragguardevoli nei propri campi d’azione, ma nel nostro caso, signori, si tratta di due secoli uniti in una nascita sola, una cospicua quantità di titoli, di nomi e ben tre funerali.

Con Anna Magnani in Quando meno te l'aspetti, 1940
Con Anna Magnani in Quando meno te l’aspetti, 1940

Non stupisce che qui si parli di Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi De Curtis di Bisanzio, altezza imperiale, conte palatino, cavaliere del Sacro Romano Impero, esarca di Ravenna, duca di Macedonia e d’Illiria, principe di Costantinopoli, di Cilicia, di Tessaglia, di Ponto, di Moldavia, di Dardania, del Peloponneso, conte di Cipro e d’Epiro, conte e duca di Drivasto e di Durazzo. Certo, piaccia o meno, le qualifiche araldiche si riservano una fascino particolare, un’incidenza di gloria e decadenza, una sorta di soggezione con cui il detentore è il primo a dover fare i conti e che probabilmente solo poi arriverà a difendere. Una frattura da sanare insomma, a maggior ragione quando la commistione da operare è con i palcoscenici, con la precarietà degli ingaggi, con le sequele di parole e  gesti per un applauso, col bagliore intermittente delle luci alla ribalta. Ci avvediamo adesso di aver preso un abbaglio defalcando dai conti l’imprecisato numero di repliche, le molte sale e circa un centinaio di film. Perché esattamente cinquant’anni fa la maggioranza della gente presente al primo, al secondo e anche e soprattutto al terzo funerale – quello con la bara vuota organizzato da Nas’e can (un tale Luigi Campoluongo) al rione Sanità – forse avrebbe riservato all’altezza imperiale, al cavaliere del Sacro Romano Impero e pure all’esarca di Ravenna un pernacchio meticoloso, preciso, chirurgico come quello che Don Ersilio (Eduardo De Filippo)  regala ed espone ne L’oro di Napoli. Tuttavia Cipro, l’Epiro e Durazzo sembravano il 15 e il 17 aprile, e poi il 22 maggio 1967 ancora più lontani: centinaia di migliaia di persone omaggiavano un principe vero e salutavano Totò, piangevano con la scarsa serietà necessaria la bombetta, il collo slogato e il mento prospiciente della prima, diremo senza paura di smentita dell’unica marionetta vivente che l’Italia abbia conosciuto in tempi recenti, pezzente e nobilissima, profondamente umana e profondamente assurda.

In Bada che ti mangio, di cui è coautore con Michele Galdieri, 1949
In Bada che ti mangio, di cui è coautore con Michele Galdieri, 1949

Venuto al mondo Antonio Clemente (col cognome della madre, fu riconosciuto solo tredici anni dopo dal padre il marchese Giuseppe De Curtis e adottato nel 1933 dal marchese Francesco Maria Gagliardi Focas) nel 1898 in via Santa Maria Antasaecula 109, la Sanità è stata la prima terra di coltura di una vocazione performativa in grado di fugare a tratti una malinconia che dagli occhi non se ne andò mai e fu compagna dell’uomo e necessità della maschera, almeno quanto l’abilità, l’applicazione e il genio nella costruzione di un doppio più che di un tipo. Il doppio, un burattino, di quella malinconia si trascinava dietro la coscienza fisica e concettuale tradotta in una certa assenza di retorica e di buonismo: affamato di cibo, di donne come nella più classica delle tradizioni che risale ancora e ancora fino alla Commedia del’Arte. Un’esistenza sempre espressa e mai soddisfatta, costantemente rincorsa, perennemente scippata, irriverente con qualsivoglia genere di imposizione, di autorità, spesso talmente attaccata alla concretezza e ai suoi bisogni da lasciar emergere il paradossale dal materiale: «[…]Totò non cerca e ancor meno trova parvenze e larve di identità in cui sprofondare, non si perde nelle relazioni in cui il caso lo getta, non se ne lascia catturare. Del proprio corpo indefinito fa un materiale di costruzione, plastico, malleabile. Non avendo esso “forma” è in grado di manipolarlo per produrre “forme” sempre diverse, che tiene in vita per un tempo breve e poi subito nega, facendole sprofondare nell’infinito delle sue informità  […]»(Roberto Escobar, Totò- Avventure di una marionetta, Il Mulino, 1998). Ossimori che si susseguono e costruiscono un sé scevro dai condizionamenti del reale attraverso l’edificazione dell’altro da sé, quello che si arrampica sul velluto del sipario, che decreta quisquiglie e pinzellacchere, che gioca col linguaggio come fosse l’acrobazia aerea di clave in mano a un giocoliere, che improvvisa, destabilizza, dinoccola le articolazioni, complica ogni cosa nella semplicità più disarmante. Lezioni di scena, divenute radicate al punto da sfocare i contorni, la distinzione tra il principe e il morto di fame, da esaurire il ragionamento, da avverare l’agognata “seconda natura” che la marionetta sa ma non conosce.

In Volumineide con Anna Magnani e Mario Castellani, 1942
In Volumineide con Anna Magnani e Mario Castellani, 1942

Per alcuni nascere a Napoli è una semplice circostanza, per altri una sventura o una fortuna, e poi ci sono quelli che pensano che sia una benedizione disgraziata o una maledizione gloriosa da cui prescindere non è solo improbabile, è abbastanza superfluo, ingrato. Sicuramente nascervi tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo significava trovarsi in seno a uno dei centri più vitali del panorama nazionale dell’epoca, in quella che fino a meno di quarant’anni prima era la capitale di un Regno ormai finito e che di esso continuava a esperire i rigurgiti amari e insigni, dove i palpiti melodici della canzone appassiunata e le percussioni cerebrali delle tammurriate non si erano esauriti, dove la guapperia cercava una forma strutturata solo dopo in una “sistema” compiuto, fra le sfogliatelle di Pintauro e le sfilate di spicco modaiolo o intellettuale al Gambrinus. Ma soprattutto voleva dire per chi nutrisse una fascinazione teatrale assorbire le correnti della farsa, della prosa più canonica, del teatro dialettale di Eduardo Scarpetta, di Ferdinando Russo, vedere affermarsi il nome di Raffaele Viviani, iniziare a muovere i primi passi tra i foyer dei cafè-chantant il cui modello trasmigrava direttamente da Parigi. A questi sono seguiti tempi più disincantati, con la ferocia dei conflitti bellici e qualcosa da avversare: dalla rivista al varietà, con l’avanspettacolo la scena vide tramontare la prima metà del Novecento all’avvento delle grosse rivoluzioni e di una nuova ventata di avanguardia che recuperò e riscrisse quelle da cui era partita mezzo secolo prima. È tra le passerelle e gli sketch di tale genere di spettacoli che il nostro iniziò a imitare Gustavo De Marco (comico e attore) e divenne Totò, che una stringa di scarpe si fece cravattino, la bombetta quasi una protusione della testa, che i pantaloni larghi e corti iniziarono a scoprire le calze a righe colorate, a camminare fino alla Sala Napoli per il primo ingaggio, fino all’incontro con Eduardo e Peppino, con Nino Taranto e suo fratello, fino a Roma e ai suoi teatri, fino ai successi da protagonista indiscusso in Orlando Curioso, Quando meno te l’aspetti, Volumineide; fino alla collaborazione con Anna Magnani e Michele Galdieri, transitando tra le altre per la compagnia di Isa Bluette, Achille Maresca, Enzo Aulicino. Al cinema, come s’è impressa nella memoria di tutti, la marionetta è giunta così, passando per le assi affamate e fameliche prima, gloriose e gloriate poi del palcoscenico e al palcoscenico gli occhi amari e taglienti hanno continuato a volgersi anche quando non si girava mai prima di mezzogiorno, quando si improvvisava e al diavolo il copione (a fare da spalla Mario Castellani, Peppino De Filippo ed Erminio Macario solo per citarne alcuni), quando un applauso era necessario alla fine della ripresa. Perché la marionetta si accende e si spegne al cinema e in tv, ma a teatro non muore mai.

Marianna Masselli

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Marianna Masselli
Marianna Masselli
Marianna Masselli, cresciuta in Puglia, terminato dopo anni lo studio del pianoforte e conseguita la maturità classica, si trasferisce a Roma per coltivare l’interesse e gli studi teatrali. Qui ha modo di frequentare diversi seminari e partecipare a progetti collaterali all’avanzamento del percorso accademico. Consegue la laurea magistrale con una tesi sullo spettacolo Ci ragiono e canto (di Dario Fo e Nuovo Canzoniere Italiano) e sul teatro politico degli anni '60 e ’70. Dal luglio del 2012 scrive e collabora in qualità di redattrice con la testata di informazione e approfondimento «Teatro e Critica». Negli ultimi anni ha avuto modo di prendere parte e confrontarsi con ulteriori esperienze o realtà redazionali (v. «Quaderni del Teatro di Roma», «La tempesta», foglio quotidiano della Biennale Teatro 2013).

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