Teatrosofia esplora il modo in cui i filosofi antichi guardavano al teatro. Nel numero 60. L’attore e il saggio: la vita è uno spettacolo allestito dalla provvidenza?
IN TEATROSOFIA, RUBRICA CURATA DA ENRICO PIERGIACOMI – COLLABORATORE DI RICERCA POST DOC DELL’UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRENTO – CI AVVENTURIAMO ALLA SCOPERTA DEI COLLEGAMENTI TRA FILOSOFIA ANTICA E TEATRO. OGNI USCITA PRESENTA UN TEMA SPECIFICO, ATTRAVERSATO DA UN RAGIONAMENTO CHE COLLEGA LA STORIA DEL PENSIERO AL TEATRO MODERNO E CONTEMPORANEO.
Il paragone del saggio virtuoso con l’attore che sa recitare bene la sua parte è molto ricorrente in filosofia antica. Esso proponeva o che la vita fosse uno spettacolo allestito dalla provvidenza, in cui ogni essere umano è chiamato ad accettare la parte assegnata da un divino disegno superiore, ma che solo chi possiede la saggezza sa recitare bene, oppure ipotizzava che le parti dell’esistenza fossero assegnate dal caso / dalla fortuna. In questo secondo scenario, delineato soprattutto dai Cinici o dagli Stoici vicini al Cinismo, persino il saggio non recita un ruolo grandioso. Poiché il suo non è che un ruolo infinitamente piccolo e trascurabile dentro uno spettacolo abborracciato senza un piano compositivo preciso, egli non ha una parte che contribuisce efficacemente al buon andamento della scena della vita e non esprime una razionalità divina superiore.
Seneca recupera questo antico paragone del saggio con l’attore, ma oscillando tra l’interpretazione provvidenzialistica e quella cinica. Il filosofo manifesta simpatia verso la cupa prospettiva del Cinismo nelle lettere 77 e 80 delle Epistole a Lucilio, dove si condanna la vita equiparandola a una farsa in cui tutti recitano male la propria parte. L’argomento usato per dimostrare questa tesi forte consiste in un’analogia con l’attore schiavo che interpreta un ruolo tragico e importante, quale quello di Agamennone. Come infatti questo artista non recita bene la sua parte eroica, dato che le sue parole pronunciate sulla scena contrastano con la sua condizione di misero e uomo dappoco, così noi esseri umani indossiamo la maschera di un personaggio che non può essere mantenuta fino in fondo. Il potente o il ricco recitano ad esempio male il loro ruolo, perché si gloriano di possedimenti che non sanno usare fino in fondo e soprattutto sono passeggeri. La fortuna propizia è come uno spettacolo che può rivolgersi nel suo contrario da un momento all’altro, si legge nella prefazione al libro IV delle Questioni naturali di Seneca. Tolta la maschera della loro ricchezza o del loro potere, ricchi e potenti si mostrano assolutamente inetti a fare qualcosa di buono e importante, dunque sono paradossalmente poveri benché colmi di denaro e deboli nonostante la loro enorme potenza.
A questo scenario cupo, fa da contraltare la fiducia di Seneca nella superiorità del saggio, che interpreta un ruolo che non gli può essere tolto, anzi che proprio nelle difficoltà e nelle disavventure della vita trova il modo di esaltare la sua parte. Il punto è sottolineato in diversi scritti. Lo troviamo anzitutto nelle lettere 26 e 70 delle Epistole a Lucilio, dove si mostra che non vi è rappresentazione più bella e meno artificiosa dell’individuo virtuoso o saggio che muore coraggiosamente per non zoppicare in una vita ignobile e per sottrarsi agli spettacoli gladiatori, che Seneca condanna ad esempio nel libro III Sull’ira. E lo incontriamo nel trattato Sulla provvidenza, che immagina che la divinità si compiaccia di guardare come da un teatro il saggio che affronta «the slings and arrows of the outrageous fortune», dunque recupera la dimensione provvidenzialistica.
Forse però il parere più articolato sulla questione si trova nella lettera 85 a Lucilio, in cui Seneca confronta la condotta del saggio con quella del timoniere, che “recita” due ruoli nello stesso tempo: quello del tecnico che guida la nave e quella del passeggero stesso della nave. L’analogia serve a Seneca per sottolineare una somiglianza tra le due figure. Il saggio e il timoniere hanno in comune il fatto di riuscire sempre a recitare il loro ruolo di tecnico. Se dovesse scoppiare – poniamo – una tempesta, l’uno potrebbe trovare nella disavventura l’occasione per dimostrare il suo sapere pratico riconducendo la nave in porto, mentre l’altro mostrerebbe di saper sopportare con coraggio il pericolo o di morire serenamente, se si dovesse alla fine naufragare. Il saggio si distingue in meglio, tuttavia, dal timoniere per non essere danneggiato nemmeno nel ruolo di passeggero, appunto perché saprebbe affrontare (diversamente da quello) la morte in mare con serenità, e inoltre perché anche in quanto tecnico trova sempre il modo di praticare la virtù. Un timoniere non salperà se la tempesta scoppiasse prima di lasciare il porto, sicché la sua capacità resta inattuata in determinate circostanze fortuite. Il saggio troverà invece modo di praticare il coraggio anche lontano dalla tempesta. Il dolore e la morte possono colpirci anche lontani dal mare, in altre parole consentono atti di virtuoso eroismo anche sulle quiete spiagge.
Come riconciliare, tuttavia, la concezione cinica della “farsa umana” con la lettura razionalista e provvidenzialistica? Seneca si contraddice nel difenderle entrambe con lo stesso vigore? Dare una risposta a queste domande è fondamentale, tenendo anche conto che, a livello quantitativo, le interpretazioni positive della vita come una recita superano quelle negative. Si aggiunga solo il contenuto della lettera 77 a Lucilio, in cui Seneca paragona l’esistenza mortale vissuta al meglio a uno spettacolo teatrale ben riuscito. Credo che sia possibile sostenere che non vi è contraddizione tra le letture, ovvero che l’occasionale accento negativo possa essere ricondotto nel positivo. Ma per far ciò, occorrerà tornare un’ultima volta da vicino al paragone di Seneca con l’attore schiavo.
La premessa tacita di questa analogia senecana è che si recita bene solo se si danno due condizioni: (A) convergenza tra il ruolo interpretato e la propria natura, (B) durata continua della recita. Lo schiavo attore, il ricco e il potente non soddisfano nessuno dei due requisiti: quando lo spettacolo finisce, o la fortuna toglie la ricchezza e il potere, la loro interpretazione si interrompe. Potremmo paragonarli a una maschera teatrale che nasconde la vera natura dell’individuo e può essere tolta in qualsiasi momento. Il timoniere soddisfa solo il requisito (A), dato che sa sempre recitare la parte del navigante nella bonaccia e nella tempesta, ma non il (B). Se una circostanza gli impedisce di salpare, la sua tecnica della navigazione rimane inattiva. Potremmo dire che il timoniere indossa una maschera che esprime invece di nascondere la sua natura, ma può essergli tolta. Infine, il saggio soddisfa entrambi i requisiti e, dunque, si allontana dalla “farsa umana” della vita, acquisendo una dimensione sovrumana. In questo senso, Seneca può dire al tempo stesso senza contraddirsi che noi tutti recitiamo male la nostra parte e che chi ha la saggezza recita bene la sua. Il “noi” si riferisce all’umanità, ma il saggio non è più umano. Guarda gli esseri umani dall’esterno, forte della sua virtù e della sua vicinanza a dio.
Potremmo paragonare il saggio di Seneca a una “maschera asciutta”. Nulla può staccarla dal volto, perché è come scolpita nella carne e mantiene la medesima espressione di fronte a tutti i casi della vita. L’umano è stato superato e resta un volto sotto il quale non c’è niente di falso o superfluo.
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Devo servirmi molto spesso di questo esempio, perché niente esprime più efficacemente questa commedia della vita umana, che ci assegna parti che recitiamo male. Quello che in scena avanza maestoso e pronuncia a testa alta queste battute: «Ecco, io regno su Argo; Pelope mi lasciò un regno là dove l’Istmo è battuto dalle onde dell’Ellesponto e del mar Ionio», è uno schiavo, riceve come compenso cinque moggi di farina e cinque denari. Quell’altro, che superbo e tracotante e gonfio per la fiducia nella sua forza, dice: «Se non starai tranquillo, Menelao, perirai per opera della mia mano», riceve la razione giornaliera e dorme su una copertina fatta di stracci. Lo stesso si può dire di tutti questi raffinati che la lettiga tiene sollevati sopra le teste della lolla: la felicità di tutti costoro è una maschera. Li disprezzerai, se li spoglierai. Quando hai intenzione di comprare un cavallo, ordini che gli tolgano la gualdrappa, agli schiavi messi in vendita fai togliere le vesti, perché non rimanga nascosto qualche difetto fisico: e giudichi il valore di un uomo tutto avvolto in ricchi paludamenti? I mercanti di schiavi nascondono con qualche espediente tutto ciò che può riuscire sgradito, perciò i compratori sono insospettiti dagli ornamenti: se tu vedessi una gamba o un braccio bendati, li faresti scoprire e ti foresti mostrare il corpo nudo. Vedi quel re di Scizia o di Sarmazia col capo adorno di diadema? Se vuoi giudicarlo e sapere com’è veramente, levagli il diadema: sotto di esso si nasconde un gran male. Ma perché parlo degli altri? Se vuoi valutare te stesso, metti da parte il denaro, la casa, la posizione sociale, esaminati nell’intimo: adesso presti fede al giudizio degli altri. Stammi bene (Seneca, Epistole a Lucilio, lettera 80, §§ 7-10)
Nessuno di costoro che vedi vestito di porpora è felice, non più di quanto lo sia uno di quelli ai quali il drammaturgo assegna lo scettro e la clamide sulla scena: davanti al pubblico avanzano maestosi e alti sui coturni, ma appena escono, se li tolgono e ritornano alla loro statura normale. Nessuno di costoro che ricchezze e cariche mettono in una condizione sociale più elevata è grande. E allora perché sembra grande? Perché lo misuri assieme al suo piedistallo. Un nano non è grande anche se sta sulla cima di una montagna; un gigante conserverà la sua grandezza anche se starà nel fondo di un pozzo (Seneca, Epistole a Lucilio, lettera 76, § 31)
Fu presente a quel grandioso spettacolo, dal quale poteva risultar chiaro ai mortali come fosse rapida la caduta dalla posizione più elevata a quella più bassa e in quanti modi diversi la fortuna distruggesse un grande potere (Seneca, Questioni naturali, libro IVa, prefazione, § 22)
Ogni tanto, ci piace vedere un giovinetto intrepido che aspetta, spiedo in pugno, l’assalto della belva e sostiene senza paura il balzo del leone: lo spettacolo è tanto più gradito, quanto più è nobile colui che si esibisce. Non sono di questo genere le imprese che possono attirare l’attenzione degli dèi: questi sono divertimenti puerili, che accontentano la frivolezza degli uomini. Eccoti uno spettacolo degno d’esser guardato da un Dio intento alla sua opera, una coppia di combattenti degna di Dio: un uomo, messo a lottare con la sorte avversa: se la sfida l’ha lanciata lui, tanto meglio. Non vedo, voglio dire, quale spettacolo più bello abbia Giove sulla terra, quando voglia dedicargli attenzione, che il mettersi ad osservare Catone che, dopo più d’una disfatta dei suoi partigiani, nondimeno s’erge ritto tra le rovine dello Stato (Seneca, Sulla provvidenza, cap. 2, §§ 8-9)
Non è niente quello che finora abbiamo mostrato coi fatti o colle parole; questi sono pegni dell’animo di poco conto e fallaci e avviluppati in molti ornamenti esteriori: mi affiderò alla morte per sapere quali progressi ho fatto. Con coraggio, perciò, mi preparo a quel giorno in cui deposta ogni astuzia e ogni artificio, giudicherò di me stesso, se sono coraggioso solo a parole o anche nell’intimo, se sono state finzione e farsa tutte le parole arroganti che ho scagliato contro la sorte (Seneca, Epistole a Lucilio, lettera 26, § 5)
Recentemente, in una scuola di gladiatori destinati a combattere con bestie feroci, uno dei Germani, mentre si preparava per gli spettacoli del mattino, si trasse in disparte per scaricare l’intestino – nient’altro gli era concesso di fare senza essere sorvegliato –; lì si cacciò tutto intero in gola il bastone munito di spugna che serve per pulirsi dagli escrementi, e soffocandosi esalò l’anima. Questo fu fare un oltraggio alla morte. Proprio così, in maniera immonda e indecente: che cosa c’è di più stolto che fare gli schizzinosi al momento della morte? Oh uomo forte, degno che gli venisse concessa la scelta del suo destino! Con quanto coraggio avrebbe usato la spada, quanto intrepidamente si sarebbe gettato negli abissi del mare o in un precipizio! Privato di tutto, trovò comunque il modo e l’arma per darsi la morte, cosicché puoi renderti conto che l’unica cosa che può farti esitare a morire è la volontà. Ciascuno giudichi come gli pare l’azione di quest’uomo fierissimo, purché sia ben chiaro che è da preferire la morte più sudicia alla schiavitù più pulita (…) Durante il secondo spettacolo della naumachia un barbaro si conficcò tutta incera in gola la lancia che gli era stata data per combattere gli avversari. «Perché, perché», disse, «non sfuggo subito a ogni tormento, a ogni scherno?». Questo spettacolo fu tanto più bello quanto più dignitosamente gli uomini imparano a morire che a uccidere (Seneca, Epistole a Lucilio, lettera 70, §§ 20-21 e 26)
Ritengo, dunque, che si debba rispondere diversamente: nessuna tempesta rende peggiore l’arte del timoniere né la sua attuazione pratica. Il timoniere non ti ha promesso un esito fortunato, ma un’opera utile e la capacità di governare una nave; e questa risulta tanto più manifesta quanto maggiore è la forza avversa che all’improvviso lo ostacola. (…) Il timoniere ha due ruoli, uno in comune con tutti quelli che sono saliti sulla stessa nave: anch’egli è un passeggero; l’altro suo peculiare: è il timoniere. La tempesta gli nuoce in quanto passeggero, non in quanto timoniere. Inoltre, l’arte del timoniere è un bene che riguarda gli altri: riguarda i passeggeri che trasporta, come quella del medico riguarda i pazienti che cura; l’arte del saggio è un bene comune, è sia di coloro con cui vive, sia suo proprio. Perciò, può darsi che il timoniere subisca un danno quando la tempesta gli impedisce di portare a termine un servizio promesso ad altri: il saggio, invece, non può subire alcun danno né dalla povertà né dal dolore, né dalle tempeste della vita. Infatti, non gli impediscono ogni attività, ma soltanto quelle che riguardano gli altri: egli è sempre in azione e ottiene i risultati migliori quando la sorte lo ha ostacolato; allora s’adopera in favore della saggezza, che, come abbiamo detto, è un bene suo e degli altri. Inoltre, nulla gli impedisce di giovare agli altri, quando è oppresso da qualche difficoltà. La povertà gli vieta di insegnare come si debba governare lo Stato, ma egli insegna come si debba governare la povertà. La sua opera si estende a tutta la vita. Così nessun caso, nessuna circostanza impedisce l’attività del saggio: egli si occupa di ciò che gli impedisce di occuparsi d’altro. È pronto a entrambe le evenienze: sa governare la fortuna prospera, sa vincere la fortuna avversa. Io dico che si è esercitato a mostrare la sua virtù sia nella buona sia nella cattiva sorte, e a badare non alla materia su cui la virtù si esplica, ma alla virtù stessa; pertanto, né la povertà, né il dolore, né qualunque altro caso che svia e manda in rovina gli ignoranti lo frena. Credi che sia schiacciato dai mali? Anzi, se ne serve. Fidia non sapeva scolpire statue solo d’avorio; le faceva anche di bronzo. Se gli avessi messo a disposizione del marmo o un materiale ancora meno pregiato, avrebbe realizzato l’opera migliore che con quella materia si potesse fare. Così il saggio mostrerà la sua virtù, se gli sarà possibile, nella ricchezza, se no nella povertà; se gli sarà possibile in patria, se no in esilio; se gli sarà possibile come generale, se no come soldato; se gli sarà possibile sano, se no invalido. Qualunque sarà la sua sorte, egli ne ricaverà sempre qualcosa di memorabile (Seneca, Epistole a Lucilio, lettera 85, §§ 33 e 35-40)
Tra gli spettacoli mattutini dell’arena, assistiamo di solito alla lotta di un orso e un toro, legati insieme: quando si sono tormentati a vicenda, li aspetta l’abbattitore. Noi facciamo altrettanto, assaliamo uno che è legato a noi e, intanto, pende sul capo del vincitore e del vinto la fine, e ben vicina. Trascorriamo invece in tranquillità e pace quel poco tempo che ci resta! Che il nostro cadavere non giaccia detestato da nessuno! (Seneca, Sull’ira, libro III, cap. 43, § 2)
Non c’è vita che non sia breve; infatti, se guardi alla natura, è breve anche quella di Nestore e di Sazia, che ordinò di scrivere sulla sua tomba che era vissuta novantanove anni. Vedi qualcuno che si vanta di una lunga vecchiaia: chi avrebbe potuto sopportarla se le fosse toccato di compiere il centesimo anno? La vita è come una commedia: non importa quanto sia lunga, ma se venga rappresentata bene. Non importa dove finirai di vivere. Finisci dove vuoi, soltanto cerca di finire bene (Seneca, Epistole a Lucilio, lettera 77, cap. 20)
[Cito i passi di Seneca da Giovanni Reale (a cura di), Seneca: Tutte le opere. Dialoghi, trattati, lettere e opere in poesia, Milano, Bompiani, 2000]
Enrico Piergiacomi
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