Conversazione con Chiara Guidi, tra le fondatrici della Socìetas Raffaello Sanzio, che da sette anni dirige il Festival Puerilia, “Giornate di puericultura teatrale per i bambini e per chi sta loro vicino”. Definisce il suo lavoro “teatro infantile”, preferendo questa formula alla più abusata “teatro per bambini”.
Il teatro per bambini è di fatto l’unica definizione di teatro che contiene in sé il nome del pubblico cui si riferisce. Un aspetto piuttosto interessante se pensiamo che lo spettatore è l’altro polo dialettico, necessario quanto l’attore, affinché il teatro accada. Raggiungo Chiara Guidi al telefono e iniziamo una conversazione a partire dalla sua idea di “teatro infantile”.
Questa definizione non si rivolge a un presunto stato anagrafico del pubblico, ma a una situazione mentale nei confronti dell’arte che ha a che fare con la purezza.
Non credo che il bambino abbia necessità dell’arte, di fatto è l’adulto che lo invita a una visione del mondo e della realtà che ha come matrice la poesia, e quindi un processo di artificio che è vicino al gioco dell’infanzia. L’artificio è necessario perché spinge a rinominare le cose: solo in questo modo possiamo conoscerle, per quello che racchiudono. Credo che il teatro sia molto vicino al gioco dell’infanzia se viene proposto come quel mettersi di fronte a un’immagine che porta a generarne altre, fermandosi, sospendendo la conoscenza critica. Quando i bambini si trovano di fronte a una sedia, questa diventa sensorialmente un cavallo, questo è il teatro. Chiedersi perché la sedia diventi un cavallo è una domanda sbagliata, e non ci sono risposte, ma solo domande che generano altre domande. Il bambino vede al di là di quello che la storia gli racconterà, e l’arte non lo educa, ma muove la sua capacità di conoscere il mondo trasformandolo. Lo definisce bene Henri Poincaré: «l’arte è quando mettiamo vicine cose tra loro inimmaginabilmente avvicinabili, e queste due presenze generano qualcosa di utile».
Nel tuo lavoro sono rintracciabili percorsi che si allontano da quell’ansia pedagogica che spesso svilisce il lavoro artistico con i bambini.
Credo che il modo di avvicinarmi all’infanzia ponga delle domande prima di tutto a me stessa. Stare di fronte ai bambini e invitarli in un luogo apparecchiato per loro è un modo per interrogarmi su quello che faccio e sul tipo di teatro che cerco. Il punto è sospendere per un attimo il giudizio che la critica ci ha imposto rispetto a un’opera, porsi di fronte alle immagini in silenzio. Non parto dal mettere a fuoco una pedagogia per incontrare i bambini, per me è un problema di artigianato, di tecnica, di arte. Non posso dire di mettere in campo un obiettivo, ma piuttosto un metodo di lavoro che predisponga un terreno favorevole a uno sguardo pedagogico e sociologico sull’infanzia. In fondo che cosa chiedono i bambini, chiedono arte? No, chiedono una relazione d’arte. Io li attendo, quando i bambini arriveranno in teatro sicuramente metteranno sottosopra tutto quello che è stato scritto e pensato per lo spettacolo, ma è proprio la loro presenza a completare la partitura stessa. Questa è esperienza, e come tale non ha nulla di certo; perché il teatro è come una favola, un luogo nel quale si compie un’esperienza.
Se il teatro diventa il luogo dell’imprevedibile, che i bambini modificano con la loro presenza, l’attore come può rispondere?
L’attore deve stare sul solco di quanto è stato scritto e contemporaneamente ascoltare, è un lavoro di accoglienza ma anche di modellamento della presenza. Credo che una figura fondamentale in grado di mettere in relazione il bambino con il mondo sia colui che racconta, il poeta per eccellenza, quello delle origini, che di fatto è anche il maestro. Per stare con i bambini e leggere il loro sguardo occorre prima di tutto spostare dal solco abituale la parola e sentire tutta l’essenza del segno che porta. Chi si pone di fronte ai bambini e vuole invitarli a uno sguardo sulla realtà dell’arte si deve porre il problema di come quest’arte possa per i bambini diventare lo spazio nel quale la stessa realtà si interroga. Ecco perché ho bisogno di lavorare con i bambini per interrogarmi sul teatro.
Credi che mostrare questo teatro ai bambini potrà cambiare il loro modo di essere spettatori da grandi?
Allora ti rilancio questa cosa: quanti chili di Cappuccetto Rosso fanno bene al bambino? Non lo so. È vero che il gioco e quindi il teatro, come scrive Giorgio Agamben nel libro Profanazioni, è l’unica forma per profanare questa realtà. E viviamo in un tempo storico in cui il bambino non gioca più. Ha trasferito l’immaginazione in un luogo che è prima di tutto uno schermo, che quindi scherma, chiude. Giorni fa ho chiesto ai bambini che cos’è la virtù, e uno tra loro mi ha saputo ben dire che cos’era il virtuale. Il teatro deve invece essere un’esperienza tattile che illumini un lembo di reale.
Walter Benjamin nel suo Programma per un teatro proletario di bambini sosteneva che “nel teatro, veramente rivoluzionaria non è la propaganda delle idee, veramente rivoluzionario è il segnale segreto dell’avvenire, che parla dal gesto infantile”.
Giustissimo. E penso anche al lavoro di Janusz Korczak, che nel ghetto di Varsavia faceva teatro con i suoi orfani e parlava di morte per abituarli gradualmente al grande viaggio che avrebbero fatto, insieme a lui. Proponeva una visione della morte, ma senza soffocarli con la speranza di poter risparmiare loro la violenza della vita, che comunque esiste, anche nel benessere.
Doriana Legge