Prosegue Schegge, la rassegna torinese al Cubo Teatro, con un monologo sulla madre di Peppino Impastato. Recensione
Nello stesso 9 maggio 1978 in cui a Roma, cuore pulsante della politica istituzionale, viene freddato l’allora presidente del Consiglio nazionale della Democrazia Cristiana Aldo Moro, a Cinisi, in provincia di Palermo, avviene un altro assassinio politico, destinato a un’eco ben minore: quello di Giuseppe Impastato, dilaniato da un’esplosione di tritolo sui binari della tratta Palermo-Trapani. Questi due fatti, accomunati da una cornice violenta e ambigua, convergono nella data e in una lenta, lunga ricostruzione giudiziaria, occultata e ostacolata da più lati.
Antonella Delli Gatti, per la regia di Luca Bollero e la drammaturgia di Manlio Marinelli, sceglie di inquadrare la tragica vicenda di Giuseppe Impastato dalla prospettiva della madre Felicia Bartolotta, a partire dal finale tragico della sua esistenza. Il monologo, che si chiama Il mare a cavallo, è stato presentato presso il Cubo Teatro nel cartellone della rassegna torinese Schegge che, alla sua settima edizione, continua a impegnarsi a restituire narrazioni civili e non edificanti, dando voce a soggetti marginali. Quindi c’è la malattia psichiatrica negli spettacoli di Abbondanza/Bertoni e Caroline Baglioni, Le fumatrice di pecore e Gianni; c’è l’anzianità svaporata e obliata nella regia firmata César Brie, Il vecchio principe; le stragi di Stato con Il matto di Massimiliano Loizzi; l’identità di genere come terreno di conflitto in Primo amore e Cock, regie di Michele di Mauro e Silvio Peroni.
Su una scena tetra la luce si accende fioca sul volto di Delli Gatti. Fasciata da una veste semplice, senza fronzoli, la donna parla una lingua terrosa, impreziosita da una vocalità marcata, e racconta del figlio Peppino, delle accuse di terrorismo, di come egli sia stato stigmatizzato in quanto comunista, studente, celibe, nullafacente. Dei propri timori che lo uccidessero, della disperazione di aver avuto ragione, della fedeltà dei presunti facinorosi al loro più coraggioso portavoce. Felicia scardina un meccanismo di silenzio omertoso, apre le finestre chiuse e popola le strade deserte di Cinisi – questa immagine è catturata dalle sue interviste – attirando a sé una folla di sodali dell’impresa di Peppino contro la mafia. Non si stringe nei panni della mater dolorosa, agisce in contrasto con la famiglia del marito e si costituisce parte civile nel processo, denuncia, accusa e, infine, ottiene giustizia. Subisce intimidazioni oblique – subdole e allusive – da parte del cognato malavitoso, Cesare Manzella, e vi si oppone frontalmente perseguendo i suoi obiettivi con spregiudicato senso di giustizia: “La vendetta si accompagna col perdono, mentre la giustizia si accompagna con la condanna”. Presenzia anche al processo contro il boss Gaetano Badalamenti, capomafia dopo la morte di Manzella, e con voce ferma lo accusa di essere il mandante dell’assassinio del figlio; brinda alla notizia della sua morte, sentenziando che nemmeno da morto sarebbe dovuto tornare a Cinisi.
La scena è spoglia, poche luci calde, delle assi di legno chiaro e alcune pietre scure. Sul cumulo di tavole è poggiata di traverso una trave che s’incrocia, perpendicolare alla platea. Sembra una rievocazione cristologica, un’immagine parallela alla via crucis di questa donna che, caustica e fiera, ripercorre le tappe del percorso tragico del figlio. Il mare a cavallo, il cui titolo è un’efficace espressione di Felicia Bartolotta, riassume le asperità della sua esistenza, l’apparente abnormità degli obiettivi di fronte alla semplicità dei mezzi. Un buon monologo di teatro civile, sorretto da un lavoro drammaturgico frutto del compendio di dati giudiziari e documenti audiovisivi, sviluppato con semplicità su una intensa presenza attorale e un’essenzialità della scena.
Giulia Muroni
Visto al Cubo Teatro, Torino
IL MARE A CAVALLO
con Antonella Delli Gatti
Testo originale di Manlio Marinelli
Regia Luca Bollero
Disegno luci Antonio Stallone